Al-Mayadin*
Il 26 Maggio l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani riportava il bilancio di alcuni raid aerei condotti dalla coalizione anti-Isis guidata dagli Stati Uniti.
Almeno 106 vittime.
Circa la metà minori, fra bambini e adolescenti.
Tutti familiari di combattenti di Daesh, sembrerebbe.
Un sospiro di sollievo tutto occidentale.
O un banale danno collaterale.
O forse entrambe le cose: un danno collaterale giustificabile nell’economia della guerra condotta da e in nome della (nostra) civiltà contro la (loro) barbarie jiadhista che comunque ci fa tirare un sospiro di sollievo perché significa 100 potenziali terroristi in meno.
Terroristi, nemici, tagliagola in erba, da un lato.
Noi e la nostra sfavillante civiltà, dall’altro.
La stessa che firma convenzioni e dedica giornate ai diritti dell’infanzia, la stessa che produce tonnellate di plastica colorata a forma di giocattolo o protesi di arti che rimpiazzino la fantasia e le gambe devastate da una granata.
Almeno 106 vite vengono spazzate via dalla morte sganciata in modo anonimo dall’alto, come una immeritata punizione, e quasi non veniamo a saperlo.
Troppo presi a leccarci le ferite per l’assurdo attacco di Manchester e la strage di copti in Egitto, non restano lacrime per i presunti figli e le presunte mogli dei combattenti dello Stato Islamico.
Loro lì, noi qui.
Barricati nell’esatto perimetro del nostro dolore, edifichiamo castelli di noncuranza e li arrediamo con un distorto senso della giustizia concessa in esclusiva geografica e al prezzo di un acritico consenso alla nobile causa della guerra democratica per il trionfo della civiltà sulla barbarie.
Eppure, il danno collaterale della guerra -di qualunque guerra- siamo noi stessi.
La nostra umanità.
Il nostro cuore in frantumi sotto il battito dei mortai.
Il respiro interrotto dalle granate.
Lo sterno soffocato dai gas.
Sono io il danno collaterale della guerra.
La mia felicità impossibile su un pianeta che rimpiazza epidermide con plastica.
Il mio corpo che tace ogni desiderio, nascondendolo sotto la paura e il terrore.
Le mie mani che dimenticano il sapore di una carezza e si arrendono al rombo di conflitti all’orizzonte.
Il mio disagio nel vivere fra uomini e donne che si sbranano a vicenda senza nemmeno assaporare il dolce sapore dell’incontro.
*Al-Mayadin è il nome della città dove è avvenuto il massacro. Nella maggior parte degli articoli italiani che riprendevano la notizia non compariva nemmeno: un non-luogo facilmente trascurabile dalla nostra personalissima geografia del cordoglio.
di Maria Grazia Patania
Ferite senza frontiere, un progetto di Alessio Mamo e Marta Bellingreri
Asma indossa il suo vestito preferito prima di uscire dalla sua stanza al 4′ piano. Khawla, l’infermiera, corre da una stanza all’altra visitando i pazienti. Il padre di Aisha aspetta sua figlia di 7 anni fuori dalla sala operatoria mentre viene sottoposta ad un intervento chirurgico. Questa è la quotidianità nell’Ospedale di Chirurgia Ricostruttiva di MSF (Medici Senza Frontiere) ad Amman in Giordania. 148 posti letto, circa 200 pazienti curati ogni mese e molti altri feriti di guerra nella lista d’attesa. Gli effetti delle guerre e degli attacchi nel Medio Oriente sono particolarmente evidenti in questo luogo. Bambini e adulti provenienti dallo Yemen, dall’Iraq, dalla Siria e da Gaza gravemente feriti da bombe, autobombe e incidenti vari vivono nell’ospedale con un parente o un amico circondati da uno staff medico che offre grande supporto. L’intima prospettiva del fotografo, che si è recato ogni giorno per due mesi nella struttura, tenta di osservare le violente conseguenze della guerra, di instaurare amicizie e rapporti umani coi pazienti: i feriti di guerra. Mentre i conflitti continuano a uccidere in Medio Oriente, questo scorcio quotidiano sull’ospedale di MSF dimostra forza e resilienza, ma anche dolore e frustrazione: i medici impiegano 8 ore per ricostruire un dito, mentre una bomba stronca centinaia di vite in un secondo.