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Collettivo Antigone

~ Proteggere e custodire le leggi naturali di ogni essere vivente

Collettivo Antigone

Archivi della categoria: Augusta

Augusta non rimanga in silenzio

25 venerdì Gen 2019

Posted by orukov in 2019, Augusta, Senza categoria

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Augusta, Porto di Augusta, Sea Watch

Il Collettivo Antigone si unisce all’appello già lanciato dall’ARCI  e sottoscritto da altre organizzazioni per un’immediata mobilitazione al fine di evitare un nuovo vergognoso stallo della Sea Watch, del suo equipaggio e delle persone a bordo scampate a un naufragio.

Come Collettivo Antigone, chiediamo che Augusta non rimanga in silenzio. Esprimiamo enorme preoccupazione per le condizioni psicofisiche di chi -dopo un viaggio infernale- è costretto a stazionare proprio a un passo da “casa nostra”, interrogando la nostra umanità con domande che nulla hanno a che fare con la politica.

Augusta ha il dovere di confermarsi città di pace, porto di speranza e simbolo indiscusso di solidarietà, ottemperando agli obblighi imposti dal Diritto Internazionale e a universali imperativi morali. È il momento di scegliere fra Antigone e Creonte, fra i diritti umani mai negoziabili e il mutevole opportunismo politico.

Certe di rappresentare una parte della cittadinanza che non rimane indifferente di fronte alla sofferenza di chi fugge da guerre e povertà estrema, chiediamo di conoscere la posizione dell’amministrazione in carica nella Città di Augusta.

“Alle persone salvate in mare verrà garantito un luogo sicuro a prescindere dalla loro nazionalità, dal loro status o dalle circostanze in cui vengono trovate”, RESOLUTION MSC.167(78) (adopted on 20 May 2004) GUIDELINES ON THE TREATMENT OF PERSONS RESCUED AT SEA

Col sostegno di Cento Passi Augusta e Fondazione Famiglia Giuseppe Catalano Onlus

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Non è la stessa cosa

23 mercoledì Gen 2019

Posted by cristallina555 in 2019, Augusta, Auschwitz, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Disobbedienza, Fotogiornalismo, Frontiera, Giornata della Memoria 2019, Giorni della Memoria, I Giorni della Memoria 2019, La memoria del futuro, Muros, Nazismo, Olocausto, Olocausto del Mare, Oswiecim, Photography, Prigioni, R-esistenza, Razzismo, Refugees Welcome, Restiamo umani, Segregazione, Senza categoria, Stay Human, Torino, Tornate a Casa Vostra

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Albania, Arbeit Macht Frei, Borders, Claviere, Collettivo Antigone, Confine liquido, Francia, indesiderabili, Modigliani, Monginevro, Montgenevre, Olocausto, Olocausto del Mare, olokautosis, Salvatore Cavalli, Visegrad, Vlora

Tante, troppe volte abbiamo paragonato le morti in mare all’Olocausto.
Un nuovo Olocausto, l’Olocausto del mare come spesso abbiamo scritto su Antigone, sbagliavamo: non esiste un Olocausto del mare.

Le parole sono importanti, lo dico almeno una volta al giorno.
Olokautosis, in greco “bruciato intero”, deriva dal rituale del holokautein durante il quale la vittima sacrificale veniva arsa al fine di ingraziarsi gli dèi.
È evidente come quello del mare non sia un Olocausto visto che non vi è alcuna pianificazione dell’eliminazione fisica; non è stata decretata alcuna Soluzione Finale perciò non possiamo parlare di Olocausto.
Se l’assetto democratico della comunità europea continuerà a subire attacchi quotidiani tramite il ribaltamento di ogni significato attraverso la propaganda, aizzando le fasce più deboli della popolazione contro un nemico “altro”, allora non escludo che i posteri potranno titolare quest’epoca come prodromo all’Olocausto del mare.
Ora no, non si può dire perché non è la stessa cosa.
I campi in Libia non possono essere paragonati ai campi di concentramento nazisti: non ci sono tatuaggi sulle braccia dei prigionieri ma segni di elettrochoc e bruciature di sigaretta, stupri, frustate, digiuni e ogni tipo di tortura fisica e psicologica. Non ci sono file di baracche di legno in mezzo al fango, solo gabbie o celle o filo spinato (ma quello c’era anche nei lager). Non ci sono le SS coi cani e i fucili e i loro ordini urlati senza tregua, ci sono solo trafficanti di schiavi e una guardia costiera farsesca finanziata per impedire all’umanità di attraversare il mare.
Non possiamo parlare mica di Olocausto se non c’è eliminazione fisica pianificata, se non c’è sterminio degli indesiderabili.
Noi non possiamo parlare di Olocausto e forse non potranno farlo i posteri visto che non resterà traccia: non ci sarà la conta delle valigie ne’ delle scarpe o dei capelli che vediamo nelle teche di Oswiecim. Oggi lasciamo fare il lavoro sporco alla Natura matrigna e nessuno ci chiederà cosa facevamo, dove eravamo, cosa dicevamo perché mancheranno le prove fisiche per incriminarci.
La storia semplifica, così oggi tendiamo a identificare i nazisti e i fascisti coi militari in divisa ma non ci rendiamo conto che in un regime totalitario tutti sono nazisti e fascisti per mancanza d’alternative o per fede.
I revisionisti esistono persino laddove le prove sono evidenti: le camere a gas esistono, ci sono entrata e anche i forni crematori stanno lì, cosparsi ancora di quella cenere sottile che somiglia alla cipria ma non è cipria e Arbeit Macht Frei si legge ancora sulla Porta Infernale; figuriamoci con quanto zelo rinnegheremo questo non-Olocausto, d’altronde ci limitiamo al non-salvataggio, alla non-accoglienza e alla non-integrazione. Mica li deportiamo, sgomberiamo soltanto. Mica li rimpatriamo, lo urliamo tante volte finché non sembra vero.
Durante questo non-Olocausto facciamo rimbalzare ogni responsabilità da un confine all’altro dell’Europa, Unione che è preda di un bipolarismo le cui parti, seppur avversarie, sembrano fare l’una il gioco dell’altra mantenendo di fatto uno stallo insopportabile il cui prezzo viene pagato in vite umane.
In questo contesto che vede i nazionalisti apertamente xenofobi contrapporsi agli europeisti, l’Italia strizza l’occhio ai primi definendo a dir poco vantaggiosi i rapporti con il gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca) che, per la cronaca, deve il suo nome a un accordo economico tra Boemia, Polonia e Ungheria risalente alla prima metà del 1300. Continua a leggere →

Homo sum, humani nihil a me alienum puto. La memoria nel 2019.

22 martedì Gen 2019

Posted by orukov in 2019, Alessio Mamo, Augusta, I Giorni della Memoria 2019, MariaGrazia Patania, Olocausto del Mare, Senza categoria

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Alessio Mamo, Augusta, I Giorni della Memoria 2019, Maria Grazia Patania, Olocausto del Mare

“Qualche giorno fa ero sul treno per Siracusa e mentre guardavo il mare me lo immaginavo pieno di morti. Per la prima volta ho realizzato che sta cambiando il mio modo di guardare il mare”, a dirmelo è una cara amica che ha il pregio di mettere a fuoco le cose in maniera semplice e ordinata. Senza fronzoli, senza sentimentalismi. “Di fatto, è pieno di morti. Muoiono ogni giorno probabilmente, solo che ormai manco lo sappiamo”, rispondo.

Chi nasce sul mare sviluppa un legame intimo ed inesprimibile con quella distesa azzurra che ti segue ovunque, mancandoti in molti modi. La scorsa estate, quando lasciammo per quasi una settimana la nave Diciotti ancorata al porto di Catania a cuocere sotto il sole implacabile e a inzupparsi sotto i rivoti estivi, guardare il mare mi dava la nausea. Di quei giorni ricordo un furore rabbioso che abitava me e tante altre persone: ci sentivamo personalmente oltraggiati perché questo scempio avveniva a casa nostra. L’idea di lasciare lì sospesi in bilico sulla barbarie 137 esseri umani ci disgustava e lo abbiamo dimostrato a modo nostro: dai presidi con gli arancini alla manifestazione del 26 agosto dove ci siamo sgolati per ribadire che “siamo tutti antifascisti”. Quel pomeriggio, molte delle persone che erano lì volevano semplicemente che i migranti non si sentissero soli. Ecco: speravamo in qualche modo di riscattare la figura miserabile che il governo nazionale imponeva alla nostra terra indomita e orgogliosa. Forse stavamo chiedendo scusa, forse volevamo solo esserci per esprimere il fatto che non fossimo allineati con gli sciacalli.

Non sapevamo che avremmo potuto vivere anche di peggio. Nessuno avrebbe immaginato di mangiare il cenone e il pranzo di Natale col veleno dell’ingiustizia in bocca, nella consapevolezza di una festa ipocrita se si scartano regali davanti al caminetto mentre in mare degli esseri umani sono abbandonati alla loro sorte. Fra uno show natalizio e una pubblicità scintillante, dominano le immagini di un’Europa vigliacca e pusillanime che gioca a fare un pietoso scaricabarile sulla viva carne degli ultimi. Noi di quell’Africa che abbiamo spolpato all’osso, dandole il contentino della libertà con una finta decolonizzazione, non vogliamo sapere nulla. Noi ci meritiamo la pace, la democrazia, i diritti umani, le convenzioni di Ginevra e l’eredità di Norimberga (di cui per inciso non sappiamo che farcene nel nostro delirio guerrafondaio). Gli altri affogassero pure in silenzio.

Moonbird - Flying Over the Rescue in the Mediterranean

*Ph. Alessio Mamo, giugno 2017, a bordo del Moonbird operato da Sea Watch e Humanitarian Pilot Initiative. Il velivolo sorvola la rotta migratoria più letale al mondo per individuare imbarcazioni in pericolo, chiedendo di metter fine alle morti in mare e consentire a chi fugge di arrivare in Europa senza rischiare la vita

In mezzo, il mare che raccoglie le vite indesiderate, le culla e le conserva sui suoi fondali, risvegliando in noi isolani paure e timori irrazionali che contagiano anche chi sull’isola non ci è nato. “L’estate scorsa sono stata a Marettimo, siamo andati in barca a fare un lungo giro con un pescatore. Quando mi sono tuffata, ho provato una sensazione orribile. Come se qualcosa mi stesse toccando. Ho pensato ai morti e sono uscita subito”, questo me lo racconta una amica a Roma. E mi vengono in mente i pesci. Penso ai pesci di cui ci preoccupiamo per via dell’inquinamento senza considerare che – in una perfetta metafora di come l’umanità passi il tempo a sbranarsi- anche loro mangiano noi. I più sfortunati ovviamente. Non noi noi. Noi loro. Quelli che dovevano crepare a casa loro.

Dal 2014 al 18 gennaio 2019, lungo la rotta del Mediterraneo Centrale sarebbero morte quasi 15.00 persone. Nei primi 19 giorni di gennaio ne sono morte almeno 200. Più di 10 al giorno. Sulle sponde libiche, le onde impietose restituiscono corpi devastati che smascherano le truffe politiche che ci vengono propinate ogni giorno. Tre superstiti aggrappati a una zattera di salvataggio hanno visto morire almeno altre 117 persone prima dell’arrivo dei soccorsi troppo lenti e troppo tardivi ora che sono scomparse le navi umanitarie. A queste vittime se ne aggiungono altre 53 di un altro naufragio e 47 sopravvissuti miracolosamente recuperati da Sea Watch 3. Poco dopo, altre 100 persone in pericolo hanno invano chiesto aiuto per ore finché la GCL ha mandato un cargo battente bandiera del Sierra Leone a recuperarli e riportarli indietro. Nel frattempo, dal Viminale si esprimeva soddisfazione per il buon funzionamento della collaborazione con la Libia e si annunciava che “143 sono stati riportati a Tripoli, 144 a Misurata, 106 ad al-Khoms”. Tuttavia, Nils Melzer, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, ha chiaramento affermato che “Se i paesi dell’UE stanno pagando la Libia per impedire deliberatamente ai migranti di raggiungere la sicurezza della giurisdizione europea, parliamo di complicità in crimini contro l’umanità, perché è noto a tutti che queste persone vengono rinchiuse in campi in cui lo stupro, la tortura e l’omicidio regnano sovrani”.

Moonbird - Flying Over the Rescue in the Mediterranean

*Ph. Alessio Mamo, giugno 2017, a bordo del Moonbird operato da Sea Watch e Humanitarian Pilot Initiative. Il velivolo sorvola la rotta migratoria più letale al mondo per individuare imbarcazioni in pericolo, chiedendo di metter fine alle morti in mare e consentire a chi fugge di arrivare in Europa senza rischiare la vita

Tuttavia, oltre ogni tentativo di ricostruzione di dati e fatti, il quadro rimane incompleto perché il mare non si divide in compartimenti stagni e dunque nulla esclude che i fondali della rotta centrale non ospitino anche qualcuno degli almeno 1.322 morti lungo la rotta occidentale dal Marocco alla Spagna o qualcuna delle 1532 vittime della rotta orientale dalla Turchia alla Grecia. Inoltre, la triste verità è che nessun accordo coi dittatori e i torturatori libici, nessuna intesa con la Turchia riuscirà a fermare chi è in fuga. Nessuna delle menzogne che ci raccontiamo per tacitare gli ultimi grammi di coscienza rimasti eviterà l’ennesimo naufragio. Chiudere una rotta significa aprirne un’altra verosimilmente più pericolosa come dimostra l’esponenziale aumento dei decessi sulla rotta occidentale dove solo nel 2018 sono morti in oltre 800 a fronte dell’anno precedente quando le vittime furono 224.

C’è chi muore con la pagella in tasca e il cuore pieno di sogni. C’è chi muore gridando il proprio nome per non essere dimenticato e chi piange pensando a sua madre. C’è chi muore con la sorpresa scritta negli occhi sbarrati e la speranza tradita. E ci siamo noi che aspettiamo sulle banchine vuote, mentre il vento si infila fra la pelle e i vestiti tormentandoci con mille domande. Avranno freddo. Avranno fame. Avranno paura. Dove sono tutti. Saranno sul fondale del mare. Quanti sono in Libia, quanti morti in acqua. Così, lentamente, anche noi paghiamo il prezzo del quieto vivere. Anche noi scontiamo la nostra pena mentre il mare -un tempo balsamo di consolazione- comincia a farci paura e ribrezzo proprio come chi causa tutto questo.

di Maria Grazia Patania


La prima edizione della programmazione sulla Giornata della Memoria risale al 2016 e in quell’occasione parlammo di Olocausto del Mare. L’espressione destò scalpore e indignazione in qualche caso, ma molti dei pezzi di quella settimana entrarono nelle aule scolastiche, fra i banchi di scuola, grazie ai tanti e alle tante insegnanti che ci seguono e che, lontani da ogni intento polemico, li usarono come spunti di riflessione. Parlammo del coraggio e dell’adamantina lucidità di una ventenne tedesca, Sophie Scholl, che insieme alla Rosa Bianca preferì morire piuttosto che cedere alla brutale ideologia nazista. La sua colpa erano le parole, la sua condanna decretata da un volantino all’Università dove si incitava la gioventù tedesca a resistere. Parlammo di Shlomo Venezia e della sua atroce esperienza nel Sonderkommando ad Auschwitz, dell’Arte della Memoria e di Felix Nussbaum (artista vittima dello stermino nazista). Yacob, arrivato dal mare ad Augusta e partito dalla Costa d’Avorio, parlò della sua personale visione dell’Olocausto. Da quel momento, ogni anno, abbiamo cercato di mantenere il filo rosso fra ieri e oggi, fra ciò che è stato e ciò che è e che può ancora barbaramente essere.

Quest’anno io ho deciso di lasciar perdere la Storia. Parliamo di noi. Oggi. Parliamo di cosa siamo diventati. Parliamo di come accettiamo che la gente muoia. E non si muore mica solo in mare dove sentiamo il ribrezzo assalirci mentre nuotiamo. No. Si muore anche dove noi le persone non le vediamo: si muore nel deserto in numeri quasi doppi rispetto al mare, si muore lungo le rotte migratorie che facciamo finta di chiudere pagando chiunque millanti di toglierci la seccatura dell’umanità in cammino. Si muore nei lager libici dove le donne, gli uomini e i bambini vengono oltraggiati da criminali cui forniamo aiuti strategici ed economici. Si muore. Ma a noi non interessa, purché non ci disturbino. Purché non arrivino qui a ricordarci che cosa può succederci domani stesso se qualcuno decidesse che siamo le pedine da sacrificare sul suo scacchiere. Purché non ci tocchi ammettere ineludibili colpe nei confronti di un intero continente che usiamo come bacino di schiavi e risorse o pattumiera per ciò che non ci serve più. Pensare che l’Africa non ci riguardi è pura ed ipocrita illusione, così come pensare di poter rimanere estranei ed indifferenti di fronte all’oltraggio nei confronti di qualsiasi essere umano. Siamo umani e nulla di ciò che è umano può essere considerato estraneo a noi*.

* Terenzio

Rondini: la storia di Fofana fra speranza e diniego della protezione umanitaria

03 lunedì Dic 2018

Posted by orukov in Augusta, Francesco Malavolta, MariaGrazia Patania, Refugees Welcome, Senza categoria

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Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania

Io Rondino, Tu Rondini, Lui/Lei Rondina, Noi Rondiniamo, Voi Rondinate, Loro Rondinano.

Fofana mi fa cenno con la mano, mi avvicino e col dito punta un verbo coniugato ordinatamente accanto ad altri. Giocare, Parlare, Suonare. La radice in blu, le desinenze in rosso. “Maestra, ma è giusto?”, mi chiede indicando il neologismo Rondinare. Mi viene da ridere: “Questo verbo non esiste. Rondine è un sostantivo, un nome femminile e i nomi non si coniugano come i verbi. I sostantivi hanno solo maschile o femminile, singolare o plurale”. “Grazie, maestra. Cos’è rondine?”. È un uccello, un “oiseau”. Gli mostro una foto sul telefonino e troviamo l’equivalente francese. “Rondine” diventa la parola del giorno e ripassiamo l’indicativo presente per essere sicuri di non coniugare qualsiasi cosa ci capiti davanti.

Fofana ha 17 anni, viene dalla Guinea Conakry e durante il viaggio è caduto dal pickup dove era stato ammassato insieme ad altre persone. Cadendo si è fratturato moltissime ossa e da allora ha frequenti emicranie, sbatte spesso le palpebre e perde facilmente la concentrazione. Ma questo non scalfisce la sua voglia di imparare. È un ragazzo mite e silenzioso, so pochissimo della sua storia. Un giorno non si presenta a lezione, è malato. Scendo in camera sua e lo trovo tutto rannicchiato sotto le coperte, “Maestra” mi sussurra sorridendo. “Fofana, ma che combini? Guarisci e ti lascio le fotocopie”. “Grazie, maestra. Ciao, maestra”. Lo saluto con un bacio sulla fronte che scotta. Sua madre avrebbe fatto lo stesso. Risalgo le scale col cuore gonfio di nuvole, ma non c’è tempo per i melodrammi. Oggi facciamo l’imperfetto.

Io ho il gruppo intermedio, sono 11, per lo più francofoni della Guinea Conakry, Costa d’Avorio, Mali, e due gambiani a cui puntualmente parlo in francese finché non mi dicono “Maestra, Gambia”. Saryo e Omar sono in assoluto i miei preferiti: sembrano fratelli, ma si sono conosciuti ad Augusta. Sono sempre puntualissimi per la scuola, fanno tutti i compiti e non si perdono nemmeno una parola della lezione. Sulle loro mani, sul collo piccole cicatrici sottili mi ricordano cosa significhi Libia, il luogo che il mio Paese spaccia per porto sicuro senza nessuna vergogna. Omar ha una grafia perfetta, in Gambia andava a scuola e si vede da come muove la mano che impugna la penna. Altri non erano così fortunati e siamo state noi la prima scuola della loro vita.

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*Ph. Francesco Malavolta

Inizio le lezioni di italiano poco dopo Capodanno: fra fine gennaio e inizio febbraio ci sono gli ultimi trasferimenti in struttura. Sono gli sbarchi terribili che coincidono con la Giornata della Memoria, i sopravvissuti sono traumatizzati, molti sono stati ripescati dall’acqua gelida, tutti credevano di morire. Dosso non parla quasi mai, vuole studiare, ma bisogna cominciare da zero. Emilio, un volontario, incolonna lettere e vocali per fargli capire i suoni. B+A=BA; C+A=CA; D+A=DA. Quando c’è mia madre, glielo affido: inforca gli occhiali, sorride come fanno le madri, gli tiene la mano per fare le lettere e rispettare il rigo. Alla fine della lezione, si abbracciano. “Ciao, mamma”. “Ciao, Dosso, mangia e ricopiati gli esercizi”. Quando saliamo in macchina, mi dice sempre la stessa cosa “Io non ci vengo più qua. Poi me torno a casa angustiata, penso alle loro madri… Sarei impazzita a quest’ora”. Ma poi puntualmente torna insieme a me.

Per me migrazione significa questo. Leggo di come non si voglia più accordare la protezione umanitaria e penso a Fofana: dopo il rifiuto, svanirà l’ultima speranza di poterlo curare. Penso alle ruspe e alle promesse spazzatura: Dosso si è volatilizzato dopo l’insediamento del nuovo governo. Lui e altri ragazzi sono scappati per paura di chi dice che li riporterà in Africa, “a casa loro”, benché casa loro non sia un’opzione. A nulla serve rassicurarli parlando di Diritto Internazionale. Loro che hanno vissuto abusi ben al di là di ogni immaginazione sanno che il diritto non vale niente in certi casi. Un colpo sparato a bruciapelo è più risolutivo di qualsiasi convenzione.

Quando si parla di migrazione oggi, si ha la costante impressione di muoversi su un campo minato, di dire sempre la cosa sbagliata. Eppure, basterebbe concentrarsi sulle persone per proteggerle. Mettiamo da parte la politica, l’economia e la propaganda che ogni giorno ci viene propinata. Si tratta di esseri umani, di noi e del nostro mondo. Non stiamo decidendo la politica o l’economia dei prossimi anni. Stiamo scegliendo fra barbarie e civiltà. Stiamo decidendo se vogliamo rinunciare all’illuminismo, a Norimberga e Ginevra, elevare l’ingiustizia a codice di comportamento e affermare che non tutti hanno diritto alla vita. Abbiamo reso opzionale il salvataggio in mare, perso ogni empatia di fronte a chi muore, rinunciato a qualsiasi umanità.

Pensiamo veramente di salvarci lasciando morire gli altri?

di Maria Grazia Patania

Vivere ad Augusta, abitare la frontiera

27 martedì Nov 2018

Posted by orukov in Augusta, Francesco Malavolta, MariaGrazia Patania, Refugees Welcome, Scuole Verdi Augusta, Senza categoria

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Augusta, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Porto di Augusta, Refugees Welcome, Scuole Verdi Augusta

“Quando sono sbarcato, non riuscivo a tenere dritte le gambe. Mi tremavano. Mi hanno dato un panino, due mele e l’acqua. Erano tutti così bianchi. Mi facevano impressione”, racconta in perfetto italiano Doumbia, ridendo mentre ricorda il suo sbarco. Partito da Bamako e transitato dalla Libia a 16 anni, l’1 maggio 2014 è arrivato ad Augusta dove è cominciata la sua nuova vita. Trasferito per qualche mese nel centro di prima accoglienza per minori stranieri non accompagnati “Scuole Verdi”, passava il tempo giocando a calcio nel campetto vicino, placava gli animi durante le distribuzioni di vestiti e prodotti per l’igiene personale e coi primi 5€ ha comprato un piccolo dizionario francese-italiano.

Augusta è una città in provincia di Siracusa con circa 36.000 abitanti, generalmente è conosciuta per l’inquinamento ambientale causato dal petrolchimico che ha deturpato un ampio tratto di costa e sorge in prossimità del luogo di interesse archeologico Megara Hyblea in totale stato di abbandono. Per decenni, dopo l’installazione del polo petrolchimico, gli abitanti di Augusta, Melilli e Priolo hanno goduto di un sonnolento benessere le cui conseguenze si sarebbero mostrate in seguito: ambiente e salute compromessi dal ricatto occupazionale. Meglio morto che disoccupato.

Qui siamo geneticamente preparati all’idea che qualcuno arrivi dal mare e rimanga con noi per un tempo indefinito durante cui impariamo a cucinare piatti nuovi, scopriamo sapori sconosciuti, piantiamo semi mai visti e arricchiamo il dialetto con suoni o parole dei nuovi arrivati. Gli sbarchi in quest’area ci sono sempre stati, ma dal 2013 sono aumentati esponenzialmente e le scuole verdi di Doumbia hanno costituito il primo vero momento di incontro con la migrazione forzata. Il centro era in una zona densamente abitata, i ragazzi non erano nascosti agli occhi della cittadinanza che si dimostrò solidale coi nuovi arrivati. Ivolontari aumentavano costantemente, davanti al cancello c’erano sempre adolescenti del luogo che superavano con un pallone le fantomatiche barriere culturali, c’era chi portava teglie di lasagne, latte, biscotti e vestiti per i “picciriddi”. Alcune famiglie presero con sé dei ragazzi, alcuni dei quali vivono ancora in città.

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Ph. Francesco Malavolta, porto di Augusta

Quando nel maggio 2014 ho assistito al primo trasferimento di minori cui avevo appena distribuito la colazione, ho dato un sacchetto con acqua e cibo a ciascuno di loro e aspettato di tornare a casa per piangere. Capii che dovevo rinunciare a ogni progettualità, immergermi nel presente ed evitare di pensare al futuro. Quattro anni dopo non ho sviluppato nessun automatismo e niente mi prepara agli addii. Ogni volta mi sento tradita quando scopro che Valdez è scappato senza dire niente per andare in Francia a inseguire il sogno di diventare rapper, che Lancinet ha superato il confine perché la sua famiglia aveva venduto tutto per liberarlo tre volte dai torturatori libici e lui doveva aiutarli. Quando li trasferiscono in altre strutture, almeno c’è il tempo di fare la cena di addio, sistemare il borsone, dare una coperta e i biscotti “nsà mai c’hai fame durante il viaggio”.

Il profilo della città di Augusta è stato per migliaia di persone l’immagine della salvezza, il porto sicuro dopo l’inferno. Nella maggior parte dei casi, ad Augusta si arriva prima di ripartire. In alternativa, si rimane qui fino allo sfinimento fra documenti che non arrivano, quotidiani episodi di razzismo spicciolo, speranze in dissolvenza e crudele burocrazia.

Augusta è diventata frontiera come luogo fisico e immaginario di arrivo, partenza e transito. Vivere la frontiera significa abitare il tempo dell’attesa: si attendono i salvati, si piangono i morti mai visti, si curano ferite in angoli remoti, si soffre l’oltraggiodelle navi lasciate in porto con a bordo esseri umani sotto il sole implacabile, si finge di dimenticare che arriverà l’addio. C’è nei luoghi di frontiera la consapevolezza dell’umanità in cammino: le frontiere sono luoghi fluidi in cui tutto cambia velocemente. Alla vita bisogna trovare un senso più profondo del legame logico di consequenzialità fra causa ed effetto, guardando oltre la contingenza. Se guardassimo alla contingenza, non faremmo nulla: inutile sarebbe istruire i figli arrivati dal mare, superfluo curarli oltre l’emergenza, pericoloso affezionarsi.

Abitare la frontiera significa abitare la storia in un costante esercizio della memoria da costruire e preservare, significa essere in grado di comprendere la vastità degli eventi nel qui e ora, senza il lusso di aspettare che il tempo restituisca senso a tasselli in disordine. Per abitare la frontiera serve un atavico amore per la vita, per la libertà e i suoi figli in cammino e comprendere che in ciascun viaggiatore troveremo la parte migliore di noi stessi.

di Maria Grazia Patania

 

 

 

Why are they doing this to me: fare 18 anni e ricevere un trasferimento al CARA di Mineo in regalo

20 martedì Nov 2018

Posted by orukov in 2018, Augusta, Francesco Malavolta, MariaGrazia Patania, Refugees Welcome, Senza categoria

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Augusta, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Refugees Welcome

“Why are they doing this to me”. Il messaggio è di Ousman, neomaggiorenne gambiano cui hanno notificato il trasferimento presso il CARA di Mineo come regalo per i suoi 18 anni. Del gruppo di minori a cui ho insegnato italiano fino allo scorso giugno lui è il più piccolo, l’ultimo a uscire dalla sfera di protezione legata alla minore età. Ousman è arrivato a novembre 2017 in Sicilia e subito dopo lo sbarco è stato trasferito ad Augusta dove è rimasto fino alla scorsa estate quando è stato assegnato a una struttura a Scordia (CT). Il centro per minori dove viveva, infatti, per mancanza di fondi e di nuovi arrivi, unita alle fughe volontarie e al raggiungimento della maggiore età da parte di molti suoi ospiti, ha dovuto chiudere e lui è stato portato altrove.

In un anno in Italia, è stato trasferito in tre posti diversi: ogni volta che si abituava a vivere in un luogo, arrivava il momento del trasferimento. Ad Augusta era stato inserito nel corso di alfabetizzazione di sei ore settimanali e seguiva con attenzione le lezioni dei volontari che per altre sei ore la settimana andavano nel suo centro a insegnare italiano. Ovviamente, non era abbastanza e ancora oggi parla con difficoltà. Fra le paure principali alla viglia dei trasferimenti c’è sempre la scuola e la possibilità di continuare a studiare che spesso non viene garantita. Anche la questione emotiva ha una sua importanza perché, vale la pena ricordarlo, non parliamo di pacchi o di oggetti da spostare qui e lì. Parliamo di persone, in questo caso di adolescenti sopravvissuti a ogni tipo di orrore che avrebbero solo bisogno di vivere serenamente, sentendosi al sicuro.

Il raggiungimento della maggiore età per le migliaia di minori non accompagnati che negli ultimi anni sono arrivati in Italia viene vissuto sempre con grande angoscia: spegnere quelle candeline significa entrare in una dimensione nuova che li rende più vulnerabili e comporta la perdita di molte garanzie. A prescindere da ciò che prevede ufficialmente la legge, la verità è che i ragazzi finiscono spesso parcheggiati in centri per neomaggiorenni o -peggio ancora- nei Cas che richiamano il pericoloso universo concentrazionario citato dalla Arendt fra gli elementi tipici di un regime totalitario. C’è poco da sminuire e sottovalutare rispetto ad un simile parallelismo e chi lo fa probabilmente preferisce cullarsi nell’illusione di sicurezza piuttosto che cogliere i pericoli che viviamo ogni giorno.

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Nel 2017, l’86% dei migranti sul territorio italiano si trovava all’interno di CARA o Cas, mentre gli Sprar registravano cali significativi prima di essere quasi completamente smantellati a causa di una precisa strategia politica che, negando i fondi, nega ogni forma di accoglienza positiva. Per definizione, un Cas è un centro per l’accoglienza straordinaria dove andrebbe a stare chi per motivi di sovraffollamento non trova posto in strutture di prima accoglienza e per il tempo necessario a presentare richiesta d’asilo prima di andare in un centro per la seconda accoglienza. Rispondendo alla logica emergenziale che domina la gestione dei flussi migratori, dietro i Cas e i CARA non c’è alcuna progettualità: le persone vengono abbandonate al loro interno senza un percorso formativo, senza crescita professionale né opportunità di apprendere la lingua e con altissime probabilità di finire per strada. Gli esseri umani diventano silenziosa fonte di guadagno per i gestori di questi centri, come confermato dalla “pessima esperienza che complessivamente ci consegna l’analisi delle strutture straordinarie”. “Il mio Cas si trova in campagna, non c’è niente intorno e non mi danno nemmeno l’acqua da bere. Devo andare a comprarla io coi miei soldi. Non imparo l’italiano perché al centro parlano solo in dialetto”, confessa Fofana, anche lui neodiciottenne del Gambia.

Dal 2014 al 2017, si è continuato a definire “emergenza” un fenomeno strutturale come quello delle migrazioni per nascondere l’inettitudine di chi dovrebbe gestirle razionalmente. Il Piano di Integrazione Nazionale del Ministero dell’Interno afferma che “la strategia di integrazione italiana deve essere sostenibile. Questo è possibile solo se la presenza degli stranieri è equamente distribuita sul territorio nazionale”, favorendo quindi “modelli di accoglienza diffusa” e rafforzando il modello SPRAR. Tuttavia, la prassi va in una direzione opposta e, secondo l’ISPI, “Se nel 2014 circa un migrante su 3 era ospitato nelle strutture SPRAR, adesso la proporzione è di uno su 7”.

Un elemento spesso trascurato è proprio il fatidico passaggio alla maggiore età. Secondo la burocrazia, nel giorno del 18esimo compleanno si perde il diritto di stare in una struttura per minorenni che, a sua volta, non ha nessun obbligo di tutela fino al trasferimento. Da quel momento, la struttura smette di percepire la diaria giornaliera che spetta pro capite agli ospiti e il neomaggiorenne diventa un fardello di cui liberarsi. Si spiegano anche così i tanti ragazzi che finiscono in strada senza troppi preamboli e che diventano facili prede della criminalità o fantasmi di cui parlare per affrontare la questione del decoro urbano. Ad Augusta, primo porto di sbarco per anni, ci si è cimentati spesso in questo vile esercizio ai danni dei più vulnerabili e si è proceduti all’unica soluzione che sanno applicare le amministrazioni incapaci: sgomberi. Improvvisamente, dei materassi nell’androne di un palazzo sono diventati il simbolo della lotta per il decoro cittadino: nessuna parola sui diritti di quelle persone, nessun interrogativo sul perché si trovassero a vivere lì, nessuna preoccupazione su cosa ne sarebbe stato dopo lo sgombero. Per una volta, maggioranza e opposizione convergevano quasi interamente su qualcosa: eliminare la presenza di quei ragazzi che creavano degrado. Che quei ragazzi venissero da Mineo (dove vivevano in condizioni al limite del disumano) o da Siracusa (dove erano finiti in strada appena diventati maggiorenni) non è interessato a nessuno.

Questo è il Paese in cui viviamo, un paese governato da incapaci che non hanno idea di come gestire le sfide attuali che, per inciso, non sono l’economia, la politica o i migranti. Le sfide attuali riguardano la nostra umanità. Il pericolo non sono i migranti, bensì la barbarie incombente che stiamo scegliendo come nostro destino. I migranti rappresentano un capro espiatorio perfetto per opporre i penultimi agli ultimi, ma non è cancellando i loro diritti che recupereremo i nostri. Non è negando l’acqua da bere a Fofana che renderemo migliore il luogo dove viviamo, né deportando Ousman in una struttura affollata e dimenticata nel nulla che diventeremo padroni del nostro futuro. Tuttavia, fino a quando le cose non cambieranno, qualcuno dovrà trovare il modo per spiegare a Ousman che portarlo a Mineo non è un gesto contro di lui, ma una semplice casualità dettata da una burocrazia che non l’hai mai guardato in faccia, ma pretende cieca obbedienza.

di Maria Grazia Patania

 

Portala via. Via da qui.

15 lunedì Ott 2018

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Augusta, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Porto di Augusta, Refugees Welcome

È luglio e fa caldo sulla banchina del porto.
Lo sbarco dovrebbe avvenire intorno alle 16 e un’ora prima siamo già tutti pronti ad abbrustolirci sotto il sole. Tira un vento fastidioso che solleva polvere e zolfo, ma aiuta a non soffocare. D’un tratto ci viene comunicato che siamo sulla banchina sbagliata, prendiamo le macchine e ci spostiamo.
Intorno, facce stanche, preoccupate.
È il periodo della gogna mediatica contro le ONG impegnate in mare che improvvisamente sono diventate il nemico numero uno da combattere per fermare l’invasione che esiste solo nella mente di chi confeziona odio. È il periodo in cui si pesa ogni sillaba per timore di cadere nelle trappole della propaganda. È il periodo in cui la solidarietà diventa un crimine, salvare vite un atto di cui vergognarsi e restare umani l’unica sfida sensata.

La grande nave si profila all’orizzonte, inizia tutta la preparazione allo sbarco che lentamente comincia. Scendono le famiglie, le donne con bambini piccoli. Ce ne sono tre che sembrano pronti per l’asilo, non fosse per i piedi nudi e lo sguardo smarrito. Nell’afa del pomeriggio galleggiano i sorrisi di disagio e speranza fra questi sopravvissuti e noi che li aspettiamo in banchina sperando di essere utili.
C’è molto silenzio, ogni tanto un bambino ride, una donna viene fatta distendere su una barella e portata in ambulanza. Non è niente di grave per fortuna.

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Ph. Francesco Malavolta

Dopo un po’, finito lo sbarco di famiglie, donne e bambini, mi sposto dove c’è l’attendamento in cui si svolgono le operazioni di identificazione e alloggiano in prima battuta i nuovi arrivati: due tendoni molto grandi, dei container e uno spiazzo coi giocattoli per i bambini.
Quei giochi sull’asfalto bollente, quei colori sul grigio della strada sono uno schiaffo. Tanti bambini giocano, si rincorrono, ridono e sembrano felici. Ma è sbagliato: quello non è un posto per giocare, non è un posto dove trascorrere nemmeno un minuto della propria preziosissima infanzia.

Mi avvicino alla tenda più grande e noto un bambino di circa due anni in braccio al padre che mi guarda. Ci scambiamo un sorriso e lui si avvicina, me lo porge. Sono maliani, c’è anche la madre che batte le mani per incoraggiarmi a prenderlo in braccio. Il piccolo non è proprio contento e non perde di vista i genitori, ma nel frattempo si gode baci e carezze dell’estranea.
Facciamo una foto insieme: non fossimo al porto sotto il sole cocente dopo uno sbarco e un viaggio della speranza, sembreremmo una famiglia la domenica pomeriggio al parco.
Restituisco il bambino al padre, ci salutiamo ed entro nella tenda: mamme e bambini ovunque. Uno sembra il ritratto della serenità in braccio a sua madre che è bellissima e aggraziata in ogni gesto. Mentre sono impegnata a guardare loro, arriva una donna sulla quarantina, siriana, magra e accompagnata dalla nipote di 16 anni. Non parlano inglese, mi prendono in disparte e si toccano la pancia “Blood, blood. Please help”. Hanno le mestruazioni, servono assorbenti. Ne ho due in borsa per pura casualità, glieli do e ne vado a cercare altri, provando a dimenticare l’imbarazzo della donna che me li ha chiesti. Quando torno con un intero pacco, mi abbracciano e ridono.
Non basta affrontare un viaggio allucinante, ci manca solo il ciclo a peggiorare le cose.

Non ho il tempo di fermarmi a pensare che un gruppetto di ragazze somale mi fa cenno di avvicinarmi, hanno un fagottino in braccio: una bambina minuscola dentro una copertina rosa. Si sente il respiro sottilissimo. La mamma è avvolta in un velo azzurro, è esile, mi dice di avere 20 anni e di aver partorito in Libia 15 giorni prima. Nemmeno lei parla inglese, solo qualche parola per dirmi “beautiful”. Sì, la bambina è adorabile. Me la mette in braccio come fosse una bambola, si gira velocemente per controllare se qualcuno ci guarda e mi parla dritta negli occhi “Take her away. Away”.
Il suo sguardo corre oltre il limitare del campo, dove c’è la vita, la strada, la città. Dove non ci sono ghetti, file e documenti impossibili da ottenere. Una madre giovanissima che ha avuto quella figlia chissà dove e da chi mi chiede di portarla via con me.
Le spiego che non si può, che quella vita così leggera da tenere in braccio sarebbe un macigno burocratico. Le dico “no possible. All the best” mentre ci abbracciamo io e lei, la bambina in mezzo ai nostri due cuori.
Decido che per quel giorno può bastare. Salgo in macchina, esco dal porto, mi fermo poco dopo, su uno slargo da dove si domina tutta l’area. È quasi il tramonto e quei colori così belli rendono intollerabile la bruttezza del mondo in cui vivo.
Mia madre mi chiama per dirmi se vado a cena, rispondo sì con la voce più ferma che riesco a recuperare. Quando arrivo a casa, crollo e le racconto di quella madre, di quella bambina, di come per un momento me la sia immaginata coi cappellini e le copertine fatte a mano dalla zia, di come abbia pensato a papà che le canta le canzoni per farla addormentare e di come mi siano venute in mente le storie degli ebrei deportati che affidavano i figli a chiunque avesse il coraggio di salvarli.
Lasciamo perdere la cena. Ci è passata la fame. Torno a casa mia, ogni cosa è enorme, il letto troppo grande avrebbe potuto benissimo ospitare quella creatura e anche sua madre.
Mi aggrappo alla legge, alla burocrazia, alle regole per trovare delle scuse, ma non mi aiutano. Penso solo alla ragazza che mi chiede di salvare sua figlia che respira piano fra le mie braccia e a me che da allora ogni giorno mi domando se ho fatto bene a dirle di no.

di Maria Grazia Patania

Io posso farci tutto: insegnare italiano per resistere alla disumana burocrazia che regola le vite dei migranti

09 martedì Ott 2018

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Augusta, Figli della Fortuna, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Refugees Welcome

Tutto è cominciato  a inizio febbraio, mentre ero in Portogallo. Tornando non ho trovato Alì e solo davanti all’evidenza della sedia vuota ho saputo la verità. Nessuno aveva avuto il coraggio di dirmelo mentre ero lontana. Alì, il gigante buono. Alì, col cappellino da super man che sorride sempre e impara velocemente. Alì che balla scatenato sul sagrato del Duomo di Augusta con l’inseparabile cappellino rosso e blu durante la festa di carnevale. Alì, 17 anni, maliano, è scappato per rincorrere il futuro per cui ha rischiato tutto.

Di nuovo ritorna la triste realtà degli addii a cui non ci si abitua mai. Questa volta però è lui a scegliere di andarsene. Senza dire una parola, un giorno parte e poco dopo scriverà dalla Francia. Come sia riuscito ad arrivare resta un mistero. Da quel momento le cose cambiano velocemente e ad aprile arriva il primo grosso trasferimento di neo diciottenni: ne vengono trasferiti dieci in un colpo solo. I corridoi diventano silenziosi, il morale è a terra e noi che siamo rimasti qui ci chiediamo chi sarà il prossimo. E quando.

La prima volta che sono entrata ad Albachiara era inizio gennaio ed era una confusione di voci, di musica, di ragazzi provenienti da vari paesi dell’Africa fino al Pakistan. La prima volta che ho provato a fare lezione sembravamo un gruppo di squinternati: loro numerosi e attentissimi davanti a me che avevo solo una piccola lavagna ad aiutarmi e nessun pennarello funzionante a disposizione. Da quella prima volta fino a giugno erano cambiate molte cose: avevamo creato 3 gruppi per vari livelli di conoscenza della lingua, altri volontari si erano uniti e, appena mi vedevano arrivare, i ragazzi si chiamavano a vicenda ripetendo “scuola, scuola!”

Ora è rimasto solo Cima ad Augusta, gli altri sono stati tutti portati via. Saryu è l’ultimo ad andare via. Lo sapevo che sarebbe successo, ma niente prepara a questo tipo di addii. Niente cancella questo terribile senso di ingiustizia. Quando mi scrive su whatsapp per dirmelo, piango. Ma gli chiedo solo se gli va di venire a cena dalla mamma. La mamma è la metafora di tutta la famiglia e la presenza più necessaria di tutte. La mamma è l’unica àncora di salvezza, l’unico riparo dal naufragio del cuore, l’unica medicina possibile di fronte alla malattia degli addii forzati.

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*Ph: Francesco Malavolta, agosto 2018 dopo la chiusura ufficiale del CPA Albachiara di Augusta

Dopo quattro anni di migrazione vissuta ogni giorno, in ogni angolo della mia vita ho capito che migrazione significa ingiustizia. Significa dolore, perdita, frustrazione. Ma soprattutto ingiustizia.

Io sono stanca di vedermeli portare via come pacchi. Sono stanca di inventare bugie e storie a lieto fine che tanto non si avverano. Sono stanca di dire “non preoccuparti” quando io sono terrorizzata perché fatico a riconoscere il mondo bestiale in cui vivo. Se quattro anni fa, avevo la speranza. Adesso a poco a poco mi stanno togliendo anche quella.

Questi figli li abbiamo curati, educati, inseriti in qualsiasi progetto potesse evitarne l’isolamento, abbiamo insegnato loro la nostra lingua nella speranza che imparassero a usarla in modo gentile. Io non ho insegnato italiano per pietà o per lavarmi la coscienza. Ho insegnato italiano perché credo che la conoscenza sia l’unico modo per salvarci tutti insieme: non rimanere ignoranti è l’unica speranza che ci resta. Far sì che loro riescano dove noi abbiamo fallito. Consegnare uno strumento potente come la parola affinché venga usata per costruire il mondo migliore che vedo allontanarsi ogni giorno, ma che con tenacia dobbiamo continuare a perseguire.

Non sono andata al centro di prima accoglienza per pietismo, buonismo o altre parole vuote. Sono andata da loro per un prepotente senso di ingiustizia che non si arrendeva nemmeno all’evidenza delle fughe volontarie dettate dalla disperazione o dai trasferimenti. Tre volte a settimana per mesi, sono stata con loro. Li ho rimproverati come fossero figli miei, ho ascoltato la voce delle loro madri dall’altro capo del telefono, ho pianto il loro dolore e assorbito il veleno dei loro racconti di torture e violenze. Mi sono illusa che la sera le loro famiglie potessero andare a dormire con un sorriso pensando che i loro figli stavano studiando. Mi sono illusa che saremmo durati insieme e che qualcosa di positivo l’avremmo fatta insieme. Come ogni storia di amore, quando inizia non si pensa mai alla fine. Non la si prende nemmeno in considerazione. Durerà, mi ripetevo. Questa volta durerà sicuramente. Ho fatto progetti, ho tentato di seguire un programma per far imparare la lingua italiana con meticolosità.

Non so se quelle lezioni siano servite per sciogliere la loro lingua, per aiutarli con le parole del paese dove vivono adesso. Ma so con certezza che quelle lezioni sono servite a me per salvarmi da un abisso di impotenza e dalla pericolosa gabbia del “io non posso farci niente”.

Io posso farci tutto.

di Maria Grazia Patania

Tornate a casa vostra: Aliou, storia di un sarto in fuga dal Gambia

08 venerdì Giu 2018

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Francesco Malavolta, Gambia, Maria Grazia Patania, Refugees Welcome, Tornate a Casa Vostra

Ho 17 anni, mi chiamo Aliou e vengo dal Gambia. Sono partito per avere un futuro migliore e speravo di andare in Niger, ma non avevo soldi per il viaggio e quindi prima mi sono fermato in Burkina Faso dove ho vissuto un periodo durissimo: in quel paese non conoscevo nessuno, ero completamente solo e senza soldi. La vita era durissima e ho dovuto chiamare la mia famiglia per chiedere aiuto, ma a casa non avevano denaro da mandarmi. Così ho atteso che mio fratello mi desse i soldi necessari per arrivare in Niger, ad Agadez, dove sono rimasto per molto tempo. Un mio cugino era a Tripoli, in Libia, e conosceva un trafficante che mi ha fatto entrare nel paese, ma una volta arrivato ho dovuto lavorare duramente per poter guadagnare e continuare il viaggio. Sono rimasto nove mesi a Sabha: la Libia è un posto indescrivibile, ci sono giorni in cui lavori tutto il giorno ma alla fine non ti pagano o ti picchiano. Ho vissuto così, nel terrore, per nove mesi.

Quando alla fine avevo raccolto i soldi per pagare il trafficante che da Sabha mi avrebbe portato a Tripoli, glieli ho consegnati, ma invece di portarmici mi ha derubato. Con immenso dolore sono rimasto lì e ho continuato a lavorare lo stesso per pagare un altro trafficante. Questa volta il trafficante mi ha fatto partire, ma il viaggio verso Tripoli è stato terribile: di solito durerebbe qualche ora, ma noi ci abbiamo messo due settimane e, siccome in quel periodo d’era il Ramadan, non potevamo bere o mangiare. Per tutto il viaggio verso Tripoli abbiamo praticamente bevuto solo acqua quando riuscivamo. Arrivato in città, la mia avventura è continuata e ho ricominciato a lavorare per pagarmi il viaggio sulla barca: era quello l’unico modo per non morire. Dalla Libia si può uscire vivi solo salendo su una barca e sperando di toccare terra.

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*Photo Copyright: Francesco Malavolta, 2018

Dopo aver pagato, un nuovo trafficante ha portato me e altre persone a mare, lasciandoci lì ad aspettare che arrivasse il nostro turno per imbarcarci: io ci ho provato due o tre volte a salire su una imbarcazione in partenza, ma ogni volta non ci riuscivo perché erano in troppi a bordo. L’attesa è stata lunghissima e non avevamo cibo o acqua: siamo sopravvissuti grazie a Dio e abbiamo bevuto acqua salata fin quando non siamo riusciti a imbarcarci. Dopo qualche ora dalla partenza, è arrivata una grande nave italiana che ci ha salvati e da quando siamo saliti a bordo è cominciata una nuova vita. Abbiamo avuto da mangiare e da bere, è cambiato tutto. Per tre notti siamo rimasti sulla nave, poi ci hanno fatti sbarcare a Catania dove ci è stato dato altro cibo e altra acqua fin quando non è arrivata la macchina che ci ha presi e portati qui ad Augusta dove vivo adesso.

Appena sono arrivato al centro, mi sono lavato e ho incontrato delle persone meravigliose che mi vogliono bene e si prendono cura di me. Da quando sono arrivato non mi è mai mancato nulla e ci sono tante persone che si preoccupano per me. Il mio sogno è tornare a fare il sarto, come facevo nel mio paese, e nel frattempo studio italiano e vado a scuola. Non avrei mai immaginato di venire in Italia: il mio piano era di andare in Libia per lavorare lì, ma è impossibile sia viverci che tornare indietro. Non avevo idea di cosa mi aspettasse e non vorrei che qualcun altro facesse lo stesso viaggio che ho fatto io.

Abarakà: grazie


Aliou è uno dei ragazzi del gruppo intermedio cui insegno italiano. È fra i più volenterosi e motivati a imparare la lingua. Credo non sia mai mancato a una lezione, nemmeno con la febbre a 38. Stiamo cercando di realizzare il suo sogno di diventare sarto o quantomeno di valorizzare il suo talento e speriamo di riuscirci presto. In ogni caso, per adesso, siamo felici che sia stato selezionato per un tirocinio nel settore agricolo al termine di un periodo di formazione professionale. Qualunque cosa gli riserverà il futuro, noi speriamo di camminare al suo fianco.

di Maria Grazia Patania

Sedie vuote: la forma dell’assenza

09 lunedì Apr 2018

Posted by orukov in Augusta, I figli della fortuna, MariaGrazia Patania, Refugees Welcome, Senza categoria, Stay Human

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Augusta, I figli della fortuna, Maria Grazia Patania, Refugees Welcome

La prima volta che sono andata al centro è stato per caso. MB e Doumbia lavoravano lì da qualche mese e mi chiedevano di andare a insegnare italiano ai loro amici. Così una sera sono passata a trovare MB che era di turno e ho conosciuto i nuovi Figli della Fortuna. Sono rimasta due ore lì con Moustafa che voleva a tutti i costi imparare l’italiano e Cima che ci ascoltava interessato.

La prima volta che sono entrata in classe erano più di 30: una confusione di sguardi, di mani alzate, di voci in sottofondo e quaderni spiegazzati. Avevamo una piccola lavagna dove annotavo piccole frasi che ripetevamo fino allo sfinimento. Come ti chiami? Da dove vieni? Quanti anni hai? Da quanto tempo sei in Italia? Da quando vivi ad Augusta? Di fronte a me porzioni di Africa: Costa d’Avorio, Mali, Egitto, Gambia, Senegal, Ghana, Guinea (Conakry), Nigeria. Davanti ai miei occhi tanti miracoli quanti erano i sopravvissuti all’inferno del deserto, al mare che ti inghiotte e all’indifferenza che ti spegne una cellula per volta.

Le prime lezioni vanno così, con più volontà che organizzazione e un caos di nomi, occhi e volti in testa. Ci dividiamo in tre gruppi: uno base per l’alfabetizzazione e il primo approccio all’italiano, uno intermedio che seguo io e uno avanzato dove ci sono quelli che hanno maggiore dimestichezza con la lingua. Le prime settimane passano a conoscersi, a inventare un metodo per trasmettere l’italiano e per non farsi sopraffare dalla sensazione di non essere abbastanza. Dopo tre mesi tutto il gruppo ha un livello piuttosto omogeneo, leggono tutti più o meno bene e a forza di ripetere le regole grammaticali le hanno imparate anche i muri.

Si crea un nucleo di ragazzi che vengono sempre, che aspettano il mio arrivo e appena mi vedono prendono quaderno, penna e fotocopie precedenti per salire in classe. Parte della lezione è basata sulla disciplina e sulla solidarietà: il tempo insieme ce lo regaliamo pertanto nessuno si può permettere di sprecarlo con ritardi o inutili lamentele. La puntualità tuttavia scarseggia, ma non riesco mai a mandarli via se arrivano tardi. In fondo, l’italiano è importante, ma stare insieme è anche meglio. Mi piace che abbiano una routine: firmare il registro, scrivere il nome su ogni fotocopia, ricopiare i compiti sul quaderno, ascoltare in silenzio mentre a turno facciamo gli esercizi, conservare le lezioni precedenti e aiutarsi a vicenda. Chi è più veloce a finire o ha capito bene deve aiutare chi ha difficoltà affinché nessuno resti indietro o si senta escluso.

Passano i giorni e scorre la vita: qualcuno fa il compleanno e rimediamo torte e candeline, qualcuno arriva dopo l’ennesimo sbarco infernale con dentro agli occhi una paura difficile da dissipare, qualcuno inizia a sillabare o scrivere mentre gli teniamo la mano, qualcuno inizia a sorridere. Dopo ogni arrivo di ragazzi nuovi, torno a casa col loro sguardo conficcato nel cuore: come si fa a vivere in un mondo così ingiusto? Come posso ancora amare la vita se è così crudele? Perché dovrei fidarmi del prossimo se siamo capaci di questa crudeltà?

Alcune volte vorrei mollare tutto perché ho l’impressione di essere seduta sulla riva dell’oceano a svuotarlo con un secchiello. Mi sembra che, per quanto ci impegniamo a restituire umanità a questa tragedia chiamata migrazione forzata, non l’avremo mai vinta. Mi sembra che, per ogni centimetro strappato alla brutalità del reale, chilometri vengano guadagnati da indifferenza, razzismo e semplice noncuranza. Con lo scorrere del tempo, la vita ci passa addosso: ridiamo, piangiamo, ci lamentiamo, impariamo a volerci bene, a rispettarci e comprenderci. Ci sono giorni in cui la grammatica va a farsi benedire perché, imparando il passato prossimo, è necessario consolare la mancanza di casa, abbracciare con mani di madre e parole di sorella o ingannare l’attesa con storie di speranza inventate sul momento.

Ultimamente l’atmosfera generale è sempre più pesante fra attese di trasferimenti, impazienza di iniziare la nuova vita tanto sognata e così diversa dalla precarietà esistenziale attuale, esiti negativi dalle commissioni e tristezza diffusa.

Finché un giorno torno in classe e manca Alì, il gigante buono bravissimo a ballare. Alì, col suo cappellino da superman e il sorriso gentile sempre pronto ad aiutare tutti, è andato via. Alì, con la sua pazienza e la sua voglia di imparare, non c’è. Al suo posto una sedia vuota.

Nemmeno una settimana dopo la burocrazia fa il suo corso: i maggiorenni in attesa da mesi di essere trasferiti vengono portati via per andare in una nuova struttura. Burocrazia è fatta. La legge dice che appena diventi maggiorenne non puoi stare in un centro per minori. Sensato e razionale, ma crudele ed ingiusto perché nuovamente il sottile equilibrio creatosi si spezza. Queste vite già devastate vengono nuovamente stravolte: oltre i minori non accompagnati, al di là dei maggiorenni, superata l’età anagrafica, ci sono le persone. Persone che avevano instaurato legami interpersonali, che avevano imparato a conoscere la città, che avevano fatto amicizia. Persone, non pacchi da depositare tramite corriere allo scadere del tempo.

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Invidio chi riesce a guardare con fiducia a questi meccanismi burocratici e chi trova conforto nel rispetto di regole che io invece non capisco. Il giorno dei trasferimenti, fra un materasso spostato e un letto smontato in un’altra stanza, c’è una tristezza difficile da spiegare. Mentre facciamo lezione, tutti vorremmo consolarci, ma nessuno trova il coraggio di sputare il rospo e ci rifugiamo negli esercizi per evitare di prendere il discorso.

In quel tavolo mezzo vuoto, nello spazio che una volta era riempito dalla presenza di chi ora è andato via, c’è l’altra faccia della migrazione col suo enorme carico di ingiustizia e disumanità. A me quei figli mancheranno ogni giorno e quando non saprò se stanno bene o hanno fame, non troverò nessuna legge ad aiutarmi. Quando mi chiederanno perché non li vogliamo qui, nessun codice mi offrirà risposte plausibili. L’unica speranza che mi resta è che durante la loro vita penseranno a noi che ci ostinavamo a insegnare l’italiano come strumento di riscatto e si ricorderanno dei nostri abbracci dentro cui potevano sentirsi a casa.

Spero che ovunque andranno si ricorderanno il sapore delle ciambelle, il peso delle lacrime piante alla loro partenza e la forma dell’assenza che nessun nuovo arrivo colmerà.

di Maria Grazia Patania

 

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