Tag
Albania, Arbeit Macht Frei, Borders, Claviere, Collettivo Antigone, Confine liquido, Francia, indesiderabili, Modigliani, Monginevro, Montgenevre, Olocausto, Olocausto del Mare, olokautosis, Salvatore Cavalli, Visegrad, Vlora
Tante, troppe volte abbiamo paragonato le morti in mare all’Olocausto.
Un nuovo Olocausto, l’Olocausto del mare come spesso abbiamo scritto su Antigone, sbagliavamo: non esiste un Olocausto del mare.
Le parole sono importanti, lo dico almeno una volta al giorno.
Olokautosis, in greco “bruciato intero”, deriva dal rituale del holokautein durante il quale la vittima sacrificale veniva arsa al fine di ingraziarsi gli dèi.
È evidente come quello del mare non sia un Olocausto visto che non vi è alcuna pianificazione dell’eliminazione fisica; non è stata decretata alcuna Soluzione Finale perciò non possiamo parlare di Olocausto.
Se l’assetto democratico della comunità europea continuerà a subire attacchi quotidiani tramite il ribaltamento di ogni significato attraverso la propaganda, aizzando le fasce più deboli della popolazione contro un nemico “altro”, allora non escludo che i posteri potranno titolare quest’epoca come prodromo all’Olocausto del mare.
Ora no, non si può dire perché non è la stessa cosa.
I campi in Libia non possono essere paragonati ai campi di concentramento nazisti: non ci sono tatuaggi sulle braccia dei prigionieri ma segni di elettrochoc e bruciature di sigaretta, stupri, frustate, digiuni e ogni tipo di tortura fisica e psicologica. Non ci sono file di baracche di legno in mezzo al fango, solo gabbie o celle o filo spinato (ma quello c’era anche nei lager). Non ci sono le SS coi cani e i fucili e i loro ordini urlati senza tregua, ci sono solo trafficanti di schiavi e una guardia costiera farsesca finanziata per impedire all’umanità di attraversare il mare.
Non possiamo parlare mica di Olocausto se non c’è eliminazione fisica pianificata, se non c’è sterminio degli indesiderabili.
Noi non possiamo parlare di Olocausto e forse non potranno farlo i posteri visto che non resterà traccia: non ci sarà la conta delle valigie ne’ delle scarpe o dei capelli che vediamo nelle teche di Oswiecim. Oggi lasciamo fare il lavoro sporco alla Natura matrigna e nessuno ci chiederà cosa facevamo, dove eravamo, cosa dicevamo perché mancheranno le prove fisiche per incriminarci.
La storia semplifica, così oggi tendiamo a identificare i nazisti e i fascisti coi militari in divisa ma non ci rendiamo conto che in un regime totalitario tutti sono nazisti e fascisti per mancanza d’alternative o per fede.
I revisionisti esistono persino laddove le prove sono evidenti: le camere a gas esistono, ci sono entrata e anche i forni crematori stanno lì, cosparsi ancora di quella cenere sottile che somiglia alla cipria ma non è cipria e Arbeit Macht Frei si legge ancora sulla Porta Infernale; figuriamoci con quanto zelo rinnegheremo questo non-Olocausto, d’altronde ci limitiamo al non-salvataggio, alla non-accoglienza e alla non-integrazione. Mica li deportiamo, sgomberiamo soltanto. Mica li rimpatriamo, lo urliamo tante volte finché non sembra vero.
Durante questo non-Olocausto facciamo rimbalzare ogni responsabilità da un confine all’altro dell’Europa, Unione che è preda di un bipolarismo le cui parti, seppur avversarie, sembrano fare l’una il gioco dell’altra mantenendo di fatto uno stallo insopportabile il cui prezzo viene pagato in vite umane.
In questo contesto che vede i nazionalisti apertamente xenofobi contrapporsi agli europeisti, l’Italia strizza l’occhio ai primi definendo a dir poco vantaggiosi i rapporti con il gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca) che, per la cronaca, deve il suo nome a un accordo economico tra Boemia, Polonia e Ungheria risalente alla prima metà del 1300. Continua a leggere