• About Collettivo Antigone
  • Arte & Bellezza
  • Babel: other languages
  • Cinema
  • Contributors
  • Cookie Policy
  • Disobbedienza e Resistenza civile
  • English
  • I Figli della Fortuna
  • Il Corpo delle Donne
  • Muros
  • Our team
  • Programmazioni
  • Radio Bonn

Collettivo Antigone

~ Proteggere e custodire le leggi naturali di ogni essere vivente

Collettivo Antigone

Archivi della categoria: Africa

Piccolo viaggio alla scoperta della frontiera sud

03 lunedì Giu 2019

Posted by orukov in 2019, Africa, Augusta, MariaGrazia Patania, Refugees Welcome, Scuole Verdi Augusta, Senza categoria

≈ Lascia un commento

Tag

amani nyayo, Augusta, Chivasso, lucca, Maria Grazia Patania, Migrazione, Torino

 

“Guardare negli occhi un rifugiato è un gesto politico, un modo per ridare il valore, un modo per rimetterlo al mondo. Per dirgli tu ci sei, tu ci sei. E da qui si comincia”, Lorena Fornasir, protagonista di Dove bisogna stare.

Se dovessi riassumere in una sola frase la settimana fra Torino e Lucca, sceglierei questa. Migranti, rifugiati, richiedenti asilo. Semplicemente persone. Persone che aiutano e persone che necessitano aiuto. È stato questo il filo conduttore degli incontri a Chivasso (TO) e Lucca per ritrovare vecchie e nuove amicizie accomunate tutte dall’impegno a fianco di chi viene sistematicamente escluso e marginalizzato.

Due telefonate e gli incontri sono fissati. C’è bisogno di ritrovarsi e di conoscersi. C’è bisogno di sapere che esistiamo e che il mondo vero non è quello propagandato dai giornali e dagli sciacalli che ci governano. C’è bisogno di dire che in mare si muore mentre noi portiamo avanti le nostre misere vitepreoccupati da un’invasione che non esiste, ma è funzionale a nascondere una società alla deriva.

A34B534F-2377-4813-B6AB-DBA59D7C20A9

A Torino, in aeroporto, mi aspettano Daniela, Pinuccia e Bea. Era novembre quando Daniela mi scrisse per la prima volta, avevo notato che seguiva sempre i post del Collettivo, ma non conoscevo la sua storia e non immaginavo che saremmo diventate amiche al di là dello schermo. E invece ora siamo in macchina insieme, ci fermiamo a bere un caffè, andiamo a trovare alcuni dei ragazzi che lei e altre volontarie seguono prima della cena di benvenuto per accogliere a nord la frontiera sud. Una enorme tavola imbandita dove siedono persone provenienti da Afghanistan, Pakistan, Gambia, Costa d’Avorio, Burkina Faso e Italia. Intorno, una babele di lingue. C’è parla in farsi, chi in tedesco, chi in inglese o francese. Ognuno trova il modo migliore per conoscere chi gli sta accanto.

36EB2443-6D57-4662-B797-5CE0BE76B90D

Il giorno dopo è il momento delle scuole. Théo e io abbiamo il compito di far capire cosa significhi oggi viaggiare mettendo a repentaglio la propria vita solo perché si è nati nel posto sbagliato. La prima classe è una quarta della scuola primaria di Torrazza, seguono una terza e altre due quarte della scuola primaria della scuola primaria di Caluso. In totale, oltre un centinaio di bambini e bambine hanno ascoltato il viaggio di Théo paragonandolo ai miei spostamenti per lavoro o volontariato.

Théo viene dal Costa d’Avorio, a 21 anni deve abbandonare gli studi universitari a causa dello scoppio di un conflitto nel suo Paese che nel dicembre 2011 lo costringere a fuggire per mettersi in salvo. “Io non volevo venire in Italia, ma dovevo per forza mettermi al sicuro. Così sono arrivato in Libia dove un mio amico mi ha insegnato il mestiere di piastrellista. La Libia è un posto terribile e sono dovuto fuggire anche da lì. Sono arrivato in Italia il 7 ottobre 2016 a bordo di un gommone con 135 persone. Sono vivo per miracolo”. Mentre lui parla, mi rendo conto che la cosa migliore per far capire l’ingiustizia della migrazione forzata è raccontare la mia vita che si svolgeva in parallelo a quella di Théocon molti meno rischi.

Mentre lui si metteva in viaggio a causa della guerra, io maturavo l’idea di abbandonare l’Italia per avere un lavoro migliore. Mentre lui attraversava il deserto per arrivare in Libia, io volavo in Germania in totale sicurezza e con un contratto di lavoro in tasca. Mentre Théo resisteva su un gommone insicuro in mare, io avevo appena rassegnato le dimissioni a Bonn per rientrare in Sicilia. Infine, mentre i documenti -che per me sono scontate garanzie di sicurezza- per lui sono una lotteria che non sai mai se vincerai e che, nell’attesa, ti costringe a non esistere. Ti espone ai pericoli dell’essere invisibile e facile preda di criminali senza scrupoli.

62210B9E-4F86-47F6-B7A6-20C201A24F5D

Le domande si susseguono e alternano questioni pratiche legate al viaggio alla domanda madre di tutte le altre: Perché li costringiamo a questi viaggi, a questi pericoli, a questi orrori? E allora bisogna spiegare dei visti, di come li neghiamo e di come consegniamo ai trafficanti la gestione dei flussi migratori. Io in Burkina Faso sono andata in aereo, comodamente, senza alcun problema. Théo ha dovuto rischiare di morire per essere oggi qui insieme a noi, mentre io non ho meritato nulla di ciò che il mio passaporto mi ha consentito. Alle nostre spalle ci aiutano le cartine geografiche per mostrare dove si trovino il Costa d’Avorio, la Libia, la rotta centrale del Mediterraneo dove Théo è stato soccorso, il Burkina Faso ed infine la Sicilia dove si tocca finalmente terra. Poi c’è un puntino fra Catania e Siracusa ed è lì che si trova Augusta, per anni primo porto di sbarco. Ovvero, primo luogo di salvezza per l’umanità in cammino che ha quasi del tutto perso la sua umanità con becere propagande e qualunquismo istituzionale.

La sera c’è la proiezione del documentario “Dove bisogna stare” che racconta l’impegno giornaliero di quattro donne -diversissime fra loro per età e provenienza- che dedicano la loro vita a supportare migranti e richiedenti asilo abbandonati dalle istituzioni nell’indifferenza generale. In sala c’è Elena Pozzallo che ha aperto le porte di casa a Mathieu che si era smarrito nella neve e rischiava di vedersi amputare i piedi, prima di ripartire di nuovo inseguendo i propri sogni. In ciascuna di quelle donne, nei loro gesti, nel loro sconforto e nella loro rabbia si rispecchiachiunque abbia deciso dove bisogna stare negli ultimi anni di fronte alle barbarie commesse contro i migranti.

Parto per Lucca con le loro parole in testa, con la convinzione che il coraggio debba essere più forte dello scoramento, con la paura di non fare mai abbastanza. In fondo, cos’è abbastanza? Rivedo le persone che avevo conosciuto durante incontri precedenti qui ad Augusta e poi a Lucca, ritrovo chi ho conosciuto durante la missione in Burkina Faso e mi trovo a raccontare il luogo da cui vengo, cosa voglia dire porto di sbarco, cosa abbia significato per noi essere dimenticati dalla stampa e scomparire dall’attualità. Luoghi come Augusta e Cassibile sono difficili da raccontare, ma è necessario parlarne. Si deve sapere che la schiavitù è a un passo da casa nostra, che il mare è pieno di morti, che ignorare l’esistenza di migliaia di esseri umani vuol dire consegnarli alla criminalità organizzata, innescare il caos sociale e lasciare quasi 20.000 lavoratori senza una occupazione. Si deve sapere che un altro mondo è possibile, che il mondo delle foto che ho scorrono mentre parlo -fatte di compleanni e lezioni di italiano- esisteva finché non ce lo hanno portato via, che mia madre ha molti figli benché anagraficamente io risulti l’unica. Si deve sapere che tornare umani è una battaglia da combattere insieme e che nessuno può tirarsi fuori

Di Maria Grazia Patania

foto di Daniela Mussano

La retorica dell’aiutarli in casa loro: le miniere di coltan

21 giovedì Mar 2019

Posted by claudialaferla in 2019, Africa, Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, Coltan, Congo, Guerra, Lavoro Minorile, Restiamo umani, Senza categoria, Tornate a Casa Vostra

≈ Lascia un commento

Tag

Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, Coltan, Congo, Diritti Umani, Guerra, Lavoro Minorile, Miniere di coltan, Sfruttamento

Cosa dovremmo ricordare ogni volta che puntiamo gli occhi sul nostro smartphone, sul nostro pc o sulla nostra tecnologia d’avanguardia? Che esistono parti del mondo in cui la schiavitù è ancora una terribile realtà. Che il nostro benessere passa attraverso la disperazione. Che le miniere di coltan sono dei campi di morte.

Il termine coltan è usato colloquialmente in Africa come crasi di columbite e tantalite ed indica una miscela estratta in alcuni paesi africani, importantissima per il mercato della tecnologia. La polvere del coltan serve, infatti, a produrre dei micro condensatori utilizzati per la fabbricazione dei pc e soprattutto smartphone. È un componente essenziale dei chip di qualunque apparecchio elettronico che serve ad ottimizzare la durata della batteria e dunque a consentire un notevole risparmio di energia elettrica. È talmente importante per la vita di un apparecchio elettronico che l’impossibilità di trovare la PlayStation 2 in Italia, subito dopo il suo lancio nel 2000, pare fosse legata proprio ad un problema nell’estrazione del coltan.

Il coltan è un minerale di superficie e per estrarlo non bisogna scavare costosi tunnel lunghi chilometri, al contempo, però, è un minerale raro che è possibile trovare solo in Congo e in pochi altri paesi. Proprio dal Congo, si stima, infatti, che arrivi circa l’80% del coltan in circolazione, una estrazione che avviene con metodi tutt’altro che all’avanguardia: si lavora prevalentemente a mani nude, con dei setacci e delle piccole pale, immersi mani e piedi nel fango. Il coltan contenendo, tra l’altro, una parte di uranio, è radioattivo e può provocare tumori e impotenza sessuale. Chi lavora in queste miniere ne viene a contatto tutti i giorni e a mani nude.

Miniera di Coltan – Immagine dal web

La manodopera è semplice da reperire: la disperazione conduce queste persone a una schiavitù volontaria mentre la violenza le ingabbia in condizioni disumane. A Rubaya, per esempio, sono moltissime le vittime dei gruppi armati che attaccano la popolazione civile o che si scontrano con l’esercito di Kinshasa, dei mercenari travestiti da milizie etniche o da gruppi rivoluzionari. È così che ottengono la manodopera necessaria: saccheggiando le province limitrofe, violentando e uccidendo. Molta gente, terrorizzata, scappa lasciando spazio allo sfruttamento delle proficue ricchezze del sottosuolo, mentre altra, piegata dall’istinto di sopravvivenza, inizia a scavare nelle miniere di chi quelle guerre le crea e le alimenta.

L’estrazione del coltan è concentrata nella regione di Kivu, nell’est del Congo, la regione più ricca di risorse del paese, ma anche la più povera e la più tormentata da guerre alimentate con lo scopo di rastrellare le sue grandi ricchezze. La capitale Kinshasa è praticamente terra di nessuno, è controllata da guerriglieri che, terrorizzando e massacrando la popolazione, hanno preso il controllo di queste preziosissime risorse. I guerriglieri richiedono ai minatori una tangente sul coltan raccolto, che andrà a finanziare le armi necessarie alla guerra. I minatori, infatti, sono costretti a pagare una quota agli uomini armati per ogni chilo di minerale estratto e solo dopo aver versato la tangente, il materiale può andare fino a Rubaya o fino a Goma e da qui poi partire per il Ruanda, dove finalmente viene acquistato dalle principali multinazionali del settore high-tech. Il fatto che venga acquistato in Ruanda e non in Congo, tra l’altro, non è casuale: per arginare il fenomeno dei “minerali insanguinati”, nel 2010 il presidente Barack Obama ha firmato la riforma Dodd-Frank Act, che prevede l’obbligo di certificazione di provenienza. Una legge fatta per portare alla luce le aziende che si riforniscono nei giacimenti illegali del Congo. Ma per “aggirare l’ostacolo” le multinazionali, tranne quelle poche che hanno avuto i permessi del governo congolese, hanno iniziato ad acquistare il coltan a Kigali, in Ruanda; in questo modo il materiale risulta “pulito”. Se non fosse che in Ruanda non esistano miniere di questo minerale. È tutta roba che proviene comunque dal Congo: in camion, da Goma a Kigali sono meno di tre ore.

Coltan – Immagine dal web

Il trasporto della merce avviene quasi sempre “a spalla” in quanto sono gli stessi lavoratori  a portarla fino alla città in cui possono venderla, camminando per giorni e giorni con addosso sacchi di 30-40 chili. Il percorso del coltan è più o meno riassumibile in questo modo: gli uomini, ma anche molti bambini, estraggono le pietre con le vanghe, le donne e i bambini le lavano a mano nell’acqua e le trasportano al mediatore più vicino camminando per giorni con i sacchi sulle spalle.

Spesso si pensa che alla base di molte guerre africane vi siano dei conflitti tribali, ma non è così. Da più di vent’anni in Congo si combatte per il coltan. E se si guarda, ad esempio, a luoghi come Rubaya non si vedrà altro che un insieme di baracche sorte ai margini di una striscia di fango dove quotidianamente si scrivono pagine di orrore e schiavitù.

In rapporti stilati da Amnesty e Afrewatch si parla di bambini di soli sette anni impiegati nell’estrazione del cobalto, mentre una inchiesta condotta da Sky News Australia ha riferito di piccoli di appena quattro anni sfruttati nelle miniere. In un video pubblicato dall’emittente televisiva si vedono Dorsen e Richard, di otto e undici anni, intenti a lavorare sotto la pioggia battente. E poi i sacchi caricati sulle loro spalle, gli adulti che li incitano a fare in fretta e i tunnel pericolanti per raggiungere la miniera. Gli occhi rossi, la fatica, le lacrime: “Mia mamma è già morta, sono costretto a lavorare tutto il giorno. Quando sono qui soffro tanto”.

Maurizio Giuliano, funzionario Onu la chiama “la maledizione della ricchezza”, ovvero “enorme quantità di risorse ma enorme povertà”. Quello del coltan è purtroppo un terribile circolo vizioso: l’estrazione e la vendita del coltan permettono l’acquisto di armi con le quali si occupano altre miniere e poi altre armi e così via.

Essere ridotti in schiavitù, subire maltrattamenti e rischiare la vita per cosa? Per 3-4 dollari al giorno e i bambini per soli 2 dollari mentre la terra sopra di loro può crollare da un momento all’altro a causa delle pessime condizioni di lavoro. Lo scenario su cui le grosse multinazionali chiudono gli occhi è questo: bambini analfabeti, orfani, condannati a tramandare da una generazione all’altra la maledizione delle miniere. Rapporti Onu parlano di 11 milioni di morti legati al controllo di questo business. 

© Marco Gualazzini/ Getty Images Grants for Editorial Photography Recipient 2013

In conclusione, riporto di seguito due testimonianze pubblicate sul Corriere della sera del 15 Aprile 2017:

Suor Catherine delle sorelle del Buon Pastore, in missione a Kowesi, nell’ex provincia congolese del Katanga si sforza di spiegare la corsa al coltan. «La gente non scava nelle miniere artigianali per diventare ricca. Lì si abbrutiscono, si prostituiscono, si ubriacano, si ammalano e muoiono. Chi comincia sa già quale sarà il suo destino. Eppure arrivano di continuo. C’entra il fatto che sono stati scacciati dalle loro terre, ma anche altro, come spiegare a un europeo?». Nella cornetta si sente un coccodé e Suor Catherine si illumina. «Ecco forse così potrete capire: lo fanno perché non hanno le galline. Questa gente ha fame, in un paradiso ricco d’acqua e piante meravigliose come il Congo, non sono in grado di coltivare o allevare un pollo, sanno solo scavare. Questi minatori «artigianali», dentro la giungla, guadagnano 3-4 dollari al giorno. Donne e trasportatori 2. I bambini anche meno. Però così riescono almeno a mangiare. Il cibo in Congo è carissimo perché importato. Uova dallo Zambia, fagioli dalla Namibia, cavoli e mele dal Sud Africa. Chi compra il minerale dai minatori è spesso lo stesso che gli vende il cibo riprendendosi gli spiccioli che gli ha appena dato. Basterebbero delle galline a dare un’alternativa».

«È la maledizione della ricchezza, sostiene il funzionario Onu Maurizio Giuliano, grande conoscitore dell’Africa. Da 20 anni a questa parte sono quasi scomparse per ragioni politiche le grandi compagnie minerarie che offrivano un certo welfare ai loro operai. C’era paternalismo sì, ma la privatizzazione delle concessioni in assenza di un aiuto alternativo ha distrutto la coesione sociale. Signori della guerra controllano decine di migliaia di lavoratori in schiavitù volontaria. Stupri di massa e abusi di ogni genere sono la regola. E chi non scava o spara, muore di fame». Bambini di 5 anni in miniera, bambine di 11 nei bordelli delle bidonville minerarie, madri abbandonate con 5-10 figli che muoiono di fatica e malattia a trent’anni, orfani, schiavi volontari per un uovo al giorno»

Di Claudia La Ferla

Foto prese dal web


Cara Silvia, non sei sola

07 giovedì Mar 2019

Posted by orukov in 2019, Africa, Augusta, MariaGrazia Patania, Senza categoria

≈ Lascia un commento

Tag

Augusta, Kenya, Maria Grazia Patania, Silvia Romano

Cara Silvia,

sono più di tre mesi che non abbiamo tue notizie e abbiamo perso le tue tracce. Sappiamo cosa stavi facendo prima che arrivasse il buco nero del rapimento seguito da una marea di volgari insulti e autentica solidarietà.

Peggio di leggere la notizia della tua scomparsa, Silvia, c’è stato il dover leggere i commenti per capire ancora meglio cosa è diventato il nostro miserabile Paese. Un mese dopo era Natale, io tornavo dal Burkina Faso e mi chiudevo tre giorni dentro casa per non affrontare la realtà. Ti ho pensata moltissimo in quelle 72 ore di isolamento dal mondo esterno impazzito dietro le luci, i regali, i menu per festeggiare un giorno di cui non ricordiamo più il senso.

Mi sono seduta a tavola e mi chiedevo dove fossi tu. Nel frattempo, dovendo per forza trovare qualcosa di positivo, pensavo “Menomale che non ci sei, Silvia. Non sai quanto è pietoso pranzare con la Sea Watch che balla in mare, non sai che schifo è il pranzo di Natale mentre sai che quelle persone sono lasciate in balìa del mare. Respinte e ignorate da tutti”. E nel frattempo, oltre la nausea, devi ascoltare i commenti di tutti. Tutti sanno, tutti sentenziano e tu sei solo una sprovveduta in cerca di emozioni forti.

Silvia

“Si sopravvive di ciò che si riceve ma si vive di ciò che si dona” / foto presa dal web

Non so come faremo a spiegarti cosa è successo quando tornerai, mi vergogno per quando arriverai e dovrai scoprire cosa ha pensato il tuo Paese mentre tu affrontavi la sfida più difficile della tua vita. Come ti diremo che i tuoi sogni sono stati derisi? Come ti spiegheremo che del tuo desiderio di giustizia non sappiamo cosa farcene? Capirai quando realizzerai che mentre tu vivevi nel terrore noi facevamo battutine sessiste? Non credo.

Silvia, la verità è che se tu fossi andata in Africa con un tailleur e una valigetta piena di contratti per depredare le persone che ti avrebbero ospitata avresti avuto il rispetto del tuo Paese. Se fossi andata lì a rubare qualsiasi risorsa accaparrabile, ti avremmo ammirata. Se fossi andata per conto delle multinazionali che pagano bene la tua ambizione di arricchirti per acquistare cose che non ti servono, non avremmo esitato a trattare con chiunque potesse liberarti. Perché, cara Silvia, la verità è che le cose contano più delle persone e il petrolio, l’oro, i diamanti e i minerali preziosi vengono prima delle vite umane.

Ma tu sei andata lì con il cuore pieno di sogni e il desiderio di conoscere luoghi e persone nuove. Tu eri pronta per il mondo, ma il mondo non è pronto per chi sogna. Si può essere spietati, cinici ed opportunisti. Ma non si può essere sognatori. La solidarietà è un crimine, la generosità qualcosa di cui vergognarsi in un mondo che si contrae e riduce al perimetro del proprio tornaconto.

Tutto quello a cui ambire è un lavoro deprimente e sottopagato che ti consenta di sopravvivere al circo consumista dove sei solo un pezzo di ricambio. Un mutuo impossibile, una casa da arredare con cura risparmiando i soldi per comprare un nuovo smartphone e prenotare una vacanza sempre insufficiente a farti recuperare dalla quotidianità. Ormai si sogna dentro perimetri angusti e qualsiasi aspirazione a fare di più e fare di meglio è ridicolizzata da chi ha dimenticato che un tempo aveva sperato in un mondo più giusto prima di cedere alla convenienza più remunerata.

“Sono pragmatico” è diventato il modo per liquidare qualsiasi tentativo di sfuggire al pericoloso intruppamento emotivo e professionale che ci viene propinato. In realtà, non siamo pragmatici. Siamo stronzi. Viviamo in un mondo becero che ha deciso di rimanere tale. Mentre io e te diventavamo adulte, probabilmente succedevano le stesse nefandezze di oggi, ma adesso le sappiamo e per ignorarle ci vuole una cecità che non tutti possediamo, sai? Un tempo, almeno era lecito aspirare alla giustizia, all’eguaglianza e alle pari opportunità. Oggi no. Oggi bisogna accontentarsi delle briciole del banchetto capitalista, riempirsene la bocca per rimanere in silenzio e sentirsi perfino grati perché qualche padrone dà lavoro.

Sai, Silvia, io abito ad Augusta che non è uno dei posti peggiori dove nascere, ma nemmeno quello benedetto dal destino. Augusta è in Sicilia, in provincia di Siracusa, e si muore soprattutto di cancro. Ci hanno venduti per poco decenni fa, ci hanno ubriacati con una finta opulenza che è durata giusto il tempo di farci abituare a un certo lusso che si trasforma in rabbia quando svanisce. Ora abbiamo il pane avvelenato e un tasso di disoccupazione spaventoso quanto quello dell’inquinamento ambientale. C’appizzammu l’ammuru e l’isca, Silvia. Abbiamo perso l’amo e pure l’esca. Non ci resta quasi nulla oltre la speranza e i fenicotteri che stagionalmente tornano a trovarci per ricordarci il significato della parola resistenza.

Ma lo sai qual è il problema secondo le persone? I migranti. Altre persone quindi. Perché Silvia devi sapere che Augusta per vari anni è stata il primo porto di sbarco per l’umanità in cammino dall’Africa e dal Medio Oriente. E noi siamo così fessi che preferiamo pensare di essere invasi piuttosto che derubati del futuro, della salute, della dignità. Anzi, quando possiamo, cerchiamo di metterci noi nei panni dei predatori e con la scusa del lavoro andiamo a rubare qualsiasi cosa rimanga nelle terre di origine di quelle stesse persone che respingiamo. Però noi rubiamo in giacca e cravatta, coi titoli di studio e i corsi per il controllo qualità. Mica rubiamo come i pezzenti dei braccianti che muoiono nei roghi che appiccano per scaldarsi. Noi rubiamo per costruirci la piscina, per farci la villa in campagna, per mandare i nostri figli nelle scuole che sognano, per viziarli e coccolarli illudendoli che sia questa la vita che meritano. Noi non rubiamo per fame. Noi rubiamo per ingordigia e per il telefono nuovo. E poi ci accaniamo con chi non ci sta, con chi come te sogna un mondo più giusto.

Il giorno in cui morì Vittorio Arrigoni, piansi, si bruciarono i biscotti al cocco che mi aiutarono a giustificare le lacrime e promisi di non farli mai più. Sono passati anni e non ho più infornato un solo biscotto al cocco, ma ti prometto che se torni te li faccio e te li vengo a portare. O se vuoi vieni tu ad Augusta che è bellissima nonostante tutto e ha una scogliera che quando la guardi ti passa la tristezza. E mentre ce li mangiamo, ti parlerò di tutte le persone che non si arrendono a vivere una vita senza dignità e giustizia, di tutte le persone che ti hanno aspettata e che ti ammirano per il coraggio, di chiunque pensi che nessun lavoro giustifichi l’umiliazione di altri esseri umani, di chiunque resista.

Ti racconterò che non sei sola, Silvia. Non siamo sole, facciamo solo meno rumore.

di Maria Grazia Patania

*Questa lettera è per Silvia Romano, Luca Tacchetto, Edith Blais, Giulio Regeni, Vittorio Arrigoni e per chiunque non si arrenda alla brutalità di questi tempi orribili. C’è chi non cede alla convenienza, al tornaconto personale e alle contropartite economiche. C’è chi crede nella dignità e nell’uguaglianza di ogni essere umano. E oggi più che mai serve rivendicare questo spazio nella vastità dell’egoismo e dell’indifferenza.

Cos’è successo quando i migranti si sono trasferiti nel paesino siciliano della mia famiglia

25 venerdì Gen 2019

Posted by francescacola in 2019, Africa, Alessio Mamo, Antifascismo, antisemifobia, antisemitismo, Auschwitz, Collettivo Antigone, Francesca Colantuoni, Giorni della Memoria, I Giorni della Memoria 2019, Lorenzo Tondo, Nazismo, Olocausto, Olocausto del Mare, Razzismo, Refugees Welcome, Senza categoria, Sicilia, Tornate a Casa Vostra, Traduzioni

≈ Lascia un commento

Tag

Africa, Alessio Mamo, Antigone, Collettivo Antigone, Francesca Colantuoni, I Giorni della Memoria 2019, Olocausto, Olocausto del Mare, Refugees Welcome, Restiamo umani, Testimonianze, The Guardian, The Observer, Traduzioni

Sutera in Sicilia. Fotografia di Alessio Mamo per il The Observer

I rifugiati stanno dando una nuova vita alla morente città natale del suocero di Lorenzo Tondo. Se solo la destra in ascesa riuscisse a capirlo.

Di Lorenzo Tondo
Sabato 27 ottobre 2018 – The Guardian

Ogni pomeriggio alla stessa ora, seduto sulla stessa panchina, mio suocero Rosario Buttaci, guarda in silenzio John Babalola Wale e la sua famiglia incamminarsi sul ripido sentiero del paesino di Sutera che porta da piazza Europa al vecchio quartiere arabo Rabato.

Ai tempi di Rosario, lo “straniero” che veniva in questo pittoresco paesino siciliano arrivava da Palermo, distante 100 km, o dalla vicina Agrigento. Ma Wale, 35 anni, viene dallo stato di Ekiti, in Nigeria e ha raggiunto Sutera quattro mesi fa dopo un viaggio lungo 6000 km. Ora vive con sua moglie e un figlio, come decine di africani richiedenti asilo arrivati dal continente per vivere qui.

“Il mondo sta cambiando”, dice Rosario, architetto in pensione di 65 anni nato, cresciuto e desideroso di invecchiare in questo paesino, come ha fatto la sua famiglia per generazioni. “E Sutera è parte di questo cambiamento”.

Alla fine degli anni ’50, quando Rosario era un ragazzo, a Sutera vivevano 5000 persone e c’erano 5 alimentari, 5 taverne, un calzolaio e un fabbro. “Al tramonto le strade si riempivano di minatori e contadini e le luci delle taverne restavano accese fino a tarda sera”, ricorda. “Sutera era viva, si aveva la sensazione che nulla avrebbe mai potuto cambiare quell’atmosfera gioiosa e accogliente”.

Ma il cambiamento arrivò. Le miniere di zolfo presenti nella valle chiusero e l’agricoltura industriale sostituì i muli e i contadini. La gente di Sutera iniziò ad emigrare in tutta Europa alla ricerca di lavoro, spesso nella cittadina di Dillingen in Germania, o a Woking nel Surrey, dove ancora oggi risiede una numerosa comunità Suterese. Così, Sutera è pian piano divenuta una cittadina fantasma.

“Il mondo sta cambiando”. Rosario Buttaci sulle strade del paesino dove è nato e cresciuto . Fotografia di: Alessio Mamo per il the Observer

Anche mio suocero aveva programmato il suo viaggio: sarebbe andato da suo padre, che l’anno precedente si era trasferito a Herrenberg a sud della Germania dove lavorava come muratore. Ma il 4 giugno 1963, solo qualche mese prima dell’arrivo in Germania di sua moglie e dei loro quattro figli, morì in un incidente sul lavoro. Rosario, che allora aveva 11 anni, non lasciò mai Sutera e fu costretto a disfare la valigia e attendere l’arrivo della bara di suo padre.

Oggi, dopo più di mezzo secolo, la popolazione di Sutera si è ridotta a 1200 abitanti. Mio suocero è uno di loro. Vi ha trascorso tutta la sua vita, ha assistito al graduale spopolamento del paesino che anno dopo anno rischia di scomparire dalla faccia dell’Italia. (Non è una rarità: secondo i dati forniti dall’Associazione Nazionale dei Comuni italiani, negli ultimi sei anni quasi 80.000 cittadini hanno abbandonato le cittadine italiane con meno di 5000 abitanti).

Eppure, la storia a volte si ripete in senso contrario. A ottobre 2013, un barcone pieno di migranti e rifugiati si capovolse nel Mediterraneo: morirono 368 persone e i loro corpi meritavano una degna sepoltura. Sutera, quasi completamente abitata da anziani, aveva già da tempo esaurito i posti al cimitero. Tuttavia, sebbene non ci fosse spazio per i morti, ve ne era molto per i vivi da ospitare nelle centinaia di case lasciate vuote da coloro che avevano abbandonato il paesino per andare all’estero alla ricerca di lavoro. Nel 2014, il sindaco di Sutera consentì che lo stato italiano sistemasse i richiedenti asilo nelle case vuote della sua comunità. Sutera entrò a far parte di un programma di reinsediamento che finanzia le città che ospitano un certo numero di migranti. Come Wale e la sua famiglia.

Famiglie dal Mali e dalla Nigeria a lezione di italiano nella scuola di Sutera. Fotografia di: Alessio Mamo per il The Observer

La scorsa settimana, nel tardo pomeriggio, ho fatto una passeggiata con il nigeriano proveniente da Ayede Ekiti. Appoggiato a una ringhiera, guardava un gruppo di anziani seduti su una panchina e mi diceva che se cinque anni fa qualcuno gli avesse detto che presto avrebbe vissuto in un piccolo paesino siciliano, lui gli avrebbe riso in faccia.

“Assolutamente! Pensavo che avrei vissuto tutta la vita nello stato di Eskiti. Non avrei mai immaginato che un giorno avrei lasciato la mia casa in Nigeria”. Poi, però, dopo la morte dei suoi genitori, non avendo più un posto dove vivere, Wale e la sua famiglia dovettero partire. Si trasferirono in Libia dove Wale lavorava. “Ma le cose non andavano bene in Libia, rischiavamo la vita tutti i giorni”, disse. “Ecco perché decidemmo di venire in Italia. Sono felice qui. Mi considero fortunato. Non vedo l’ora di iniziare a lavorare”.

Per Sutera, alle falde del monte San Paolino nel centro Sicilia, l’arrivo dei migranti è stato una benedizione. La scuola locale rischiava la chiusura perché c’erano solo pochi studenti ma, grazie ai figli dei richiedenti asilo, è rimasta aperta. Ora il paesino è modello di integrazione replicato in diverse città italiane, compresa Riace in Calabria. Qui, il sindaco della città, “Mimmo” Lucano, ha accolto centinaia di migranti i quali, in cambio, hanno portato investimenti nella città.

Il nigeriano John Babalola Wale con sua moglie e suo figlio nella casa a Sutera. Loro con altri migranti proveninti dall’Africa stanno aiutando a ripopolare il paesino. Fotografia di Alessio Mamo per il The Observer

Ma per la destra anti-immigrazione, queste comunità rappresentano la catastrofe del 21esimo secolo: la dispersione degli italiani causata dagli stranieri. Alcuni hanno subito approfittato per diffondere allarmanti storie sul presunto legame tra l’arrivo dei migranti e l’aumento di furti e omicidi. Il ministro degli Interni di estrema destra, Matteo Salvini, non perde mai l’occasione di evidenziare i crimini commessi dai richiedenti asilo sul suo profilo Twitter, ignorando quelli commessi dagli italiani stessi.

Ho pensato alla sua retorica dell’odio mentre guardavo Wale appoggiato al busto di marmo di un poliziotto locale, Calogero Zucchetto, ucciso dalla stessa mafia siciliana che l’Italia ha esportato in tutto il mondo. Ho anche pensato al boss mafioso di New York, Lucky Luciano, il quale non proveniva dallo stato di Ekiti ma da Lercara Friddi, a soli 30 minuti da Sutera.

La scorsa settimana, mentre passeggiavamo per il villaggio, Wale aspettava i documenti necessari per iniziare a cercare lavoro. Rosario ed io lo guardavamo giocare con il figlio in piazza. In quel momento ho capito che quel bimbo nigeriano di due anni aveva più cose in comune con mio suocero di qualsiasi altro italiano. Quel bambino, 50 anni fa, sarebbe potuto essere lui a Herrenberg – se una gru non avesse tolto la vita a suo padre.

Non ebbi il coraggio di chiederglielo ma vidi il suo sorriso mentre guardava il piccolo giocare con la palla. Per me, quel sorriso, valeva più di mille risposte.

 

Traduzione di Francesca Colantuoni

Soyez les bienvenus: viaggio in Burkina Faso

07 lunedì Gen 2019

Posted by orukov in 2019, Africa, Burkina Faso, Francesco Malavolta, MariaGrazia Patania, Senza categoria

≈ Lascia un commento

Tag

2019, Africa, Burkina Faso, Francesco Malavolta, MariaGrazia Patania

Soyez les bievenus, Bien arrivés, Ça va bien? Se avessi a disposizione solo poche parole per descrivere la permanenza nella Terra degli Uomini Integri, userei queste per trasmettere lo spirito di accoglienza dei burkinabé.

Appena usciti dall’aeroporto di Ouagadougou, la prima cosa che vedo è un enorme edificio abbandonato la cui costruzione è stata interrotta e mi sento a casa. Questo vizio di cominciare le cose senza mai finirle, da siciliana, lo conosco bene. L’aria è un misto di smog e sabbia particolarmente clemente in quel momento dato che è sera e non c’è nemmeno l’ombra del traffico. Guidare nelle ore di punta in capitale mette a dura prova i polmoni nella bolgia di clacson e tubi di scappamento. Andiamo subito a dormire perché l’indomani si parte presto in direzione nord verso Kaya e Tougouri dove la ONLUS Amani Nyayo cura alcuni progetti legati all’erogazione di energia elettrica, al sostegno all’agricoltura bio e all’assistenza sanitaria. Per uscire dalla capitale servono una decina di minuti durante cui, a ogni semaforo, gruppi di ragazzini vengono a offrirci le loro mercanzie. Ridono e ci salutano con gentilezza. La stessa scena si ripete a quello che possiamo considerare un casello dove pagare il pedaggio: due gabbiotti verniciati di giallo dove un funzionario ti dice quanto pagare in base alla distanza da percorrere. Qui a venirci incontro ai lati della macchina sono bambini, donne e ragazze coi loro vassoi stracolmi di papaie, arachidi, biscotti caramellati al sesamo (deliziosi!), banane e altro ancora. Anche se non compriamo nulla, ci salutano con dolcezza e alcune donne, quando si accorgono che scrutiamo i bambini, provano a svegliarli con delicatezza. Accoccolati sulle loro schiene, avvolti nei loro tipici tessuti coloratissimi, i piccoli aprono a stento gli occhi e anche loro accennano un sorriso prima di tornare a dormire mentre le mamme scoppiano a ridere coprendosi il volto con le mani.

b33i1511_edited

*Ph. Francesco Malavolta

Nelle oltre due ore di viaggio del primo giorno, percorriamo la strada nazionale numero tre: 310 km di asfalto più o meno compatto che da Ouaga arrivano in Niger passando per Kaya dove troviamo quel che resta della “bataille de fer” di Thomas Sankara, il presidente rivoluzionario assassinato il 15 ottobre 1987. Quel tratto di ferrovia che Sankara concepiva come uno strumento per “de-schiavizzare” il Sahel faceva parte di un progetto mirato a modernizzare i trasporti nel Paese e fortemente osteggiato dalla Banca Mondiale che rifiutò di garantire i fondi necessari. Ma questo non scoraggiò il Che Guevara africano che anzi chiamò a raccolta il popolo, l’unico verso destinatario e fautore del progresso. Così, è proprio il popolo a posare volontariamente i primi 100km di rotaie che all’altezza di Kaya ora sono in stato di abbandono e quasi divelte in alcuni punti.

Ai bordi della strada, esplode la vita: donne che vanno al mercato, bambini e bambine dirette a scuola, adolescenti coi libri in mano e la divisa beige o azzurra, asini che indugiano ai bordi della strada, capre che spingono i cuccioli per scansare i mezzi di trasporto, bambini che giocano con qualsiasi cosa capiti a tiro. In cumuli ordinati sono allineate le angurie, accanto si friggono dolci, le donne allattano prima di infagottare nuovamente i bambini. Arrivati a Tougouri, è tutto una confusione di polli e altri animali da cortile che si affannano a scansare biciclette e scooter che sfrecciano. In questo villaggio, l’associazione Amani Nyayo nel 2006 avviò il progetto per la fornitura dell’energia elettrica che da giugno scorso purtroppo non viene erogata a causa di un impasse burocratico. Dopo il tramonto, si sente il rumore dei generatori che illuminano botteghe e perfino discoteche con luci verdi e blu e musica a tutto volume. Altri si riuniscono attorno a piccoli fuochi e chiacchierano in gruppo. A tratti mi sembra di tornare indietro nel tempo nei racconti di mio nonno e di quando la sera non ci si chiudeva nella propria casa, ma si stava in gruppo a parlare e raccontarsi la vita. Durante la permanenza a Tougouri, di mattina sarà il richiamo alla preghiera e il raglio degli asini a svegliarci. Di ritorno a Ouaga, al tramonto, abbiamo la fortuna di incontrare quattro cammelli coi rispettivi padroni che si lasciano fotografare, mentre i loro animali sbadigliano annoiati. Nel frattempo, una madre con tre bambini si ferma a godersi la scena, approfittando della pausa per allattare il più piccolo. Dopo averci salutati, anche loro riprendono in cammino in direzione delle capanne che si profilano poco più lontano.

Il secondo giorno visitiamo dei progetti agricoli interamente bio e destinati ad aree particolarmente vulnerabili al cambiamento climatico. Il primo a Korsimoro e il secondo a Tangasogo, nella provincia di Sanmatenga che, trovandosi in prossimità della regione del Sahel, subisce desertificazione, siccità e carestie crescenti. Benché appaia tutto lontano e remoto, sono molte le somiglianze che riscontro con “casa mia”. Quasi nessuno crede davvero al cambiamento climatico per cui ci si dispera solo di fronte agli effetti più evidenti e devastanti senza attuare una strategia di lungo periodo. Dopo anni di uso indiscriminato di prodotti fitosanitari, in alcuni si è deciso di abbandonare l’uso di sostanze chimiche dannose per la salute e optare per concimi naturali. Un grosso ostacolo è dato dal fatto che i tempi sono lunghi e i profitti dilazionati spingono molti lavoratori a inseguire effimeri sogni di ricchezza abbandonando i campi e dedicandosi all’estrazione dell’oro. Sono in aumento le miniere informali in prossimità dei cantieri delle multinazionali straniere che danno lavoro a migliaia di persone. La ricchezza, però, soprattutto per i minatori informali, rimane un semplice miraggio dato che trovare l’oro non è così semplice e comunque nessuna cifra giustificherebbe i danni permanenti che provocano alla propria salute. In questa corsa all’oro dettata dall’avidità dell’uomo che rinuncia a se stesso inseguendo il dio denaro, come posso non pensare al disastro ambientale che nel siracusano abbiamo scelto in nome di un falso mito di progresso col polo petrolchimico? Non rinunciamo anche noi alla salute per il pane quotidiano che ci avvelena?

xNel nostro viaggio fra agricoltura e malnutrizione, scopro il grande paradosso del Burkina Faso dove non si muore per mancanza di risorse alimentari tout court, bensì per un fatale mix di mancanza di accesso costante alle stesse e ignoranza su come usare ciò che si ha a disposizione. Teoricamente nessuno dovrebbe morire di fame, la malnutrizione potrebbe essere solo un triste ricordo del passato e non una piaga che affligge milioni di persone in tutta la fascia del Sahel. Secondo il Cadre Harmonisé dello scorso novembre, in Burkina Faso attualmente oltre 300.000 persone (che l’anno prossimo potrebbero arrivare a quasi 700.000) soffrono crisi alimentari e, secondo le stime, da giugno 2019 quasi 4 milioni saranno sottoposte a stress alimentari. Quando incontriamo le madri che partecipano alle sessioni di sensibilizzazione, molte si fanno avanti per spiegare che grazie a questi programmi hanno imparato che essere povere non significa necessariamente morire di fame. Sono forti e concrete, mentre parlano. Sono aperte e felici di condividere le loro storie, sono consapevoli di poter fare la differenza. In un caso ci sono anche i mariti che ci accolgono a braccia aperte, ridono, scherzano e si mettono in disparte su due panche laterali distinte da quelle delle donne che sono tantissime.

Devo interrogarmi su molte cose, ma non mentre sono lì. Calpestando la terra rossa e ascoltando le storie che mi vengono affidate, devo liberarmi di ogni filtro che la mia mentalità occidentale impone. Soprattutto, devo cedere al senso di bellezza e di comunione col creato che inonda ogni cellula. In Africa, lungo la route numero tre e al barrage del Giardino delle Donne vedo il primo tramonto della mia vita con i rami dei baobab che come mani si arrampicano per accarezzare il cielo. La sera del 12 dicembre dopo la cena dalle suore di Tougouri vedo il cielo per la prima volta e mi rendo conto di non aver mai saputo niente delle stelle. Di fronte a due uomini di 36 e 40 anni di nome Omar, minatori informali ricoperti di polvere per la maggior parte del tempo, mi chiedo cosa sia la felicità, cosa siano i diritti e che peso abbia la vita. Se Omar mi dice di essere felice facendo quel lavoro, chi sono io per pensare il contrario? Se mi spiega di poter mantenere le sue tre mogli e i loro dieci figli mandandoli a scuola, come potrei contraddirlo? In fondo, anche io devo sembrargli strana con le lauree, i capelli impolverati e l’insolenza di rifiutare la sua proposta di matrimonio per un bizzarro progetto di viaggiare da sola in giro per il mondo. Quando Enzo gli dice che Maria non ne vuole sapere di famiglia, ma vuole vedere il mondo, Omar ha la mia stessa espressione di stupore e sgomento nel vederlo ricoperto di polvere bianca, ma mi augura di cuore di riuscire a realizzare i miei sogni, come io auguro a lui di conservare quella gioia intima e profonda che lo muove. Dopo aver chiacchierato con i minatori, devo abbandonare ogni idea preesistente di felicità. Devo chiedermi se in Omar posso davvero vedere una vittima inconsapevole dello sfruttamento, uno schiavo che non sa nemmeno di esserlo o un artefice del proprio destino che costruisce la sua vita coi limitati mezzi a disposizione. Mi domando se Sankara lo avrebbe considerato uno schiavo che non lotta per la propria liberazione e dunque non la merita oppure un uomo da forgiare per costruire il mondo a venire. Circondata da quegli uomini che mi raccontano la loro idea di libertà, non so davvero cosa sia auspicabile fra un grigio ufficio di una metropoli in mezzo a colleghi incattiviti e capi stronzi e il bianco riverbero della cava puntellata da esseri umani impolverati di ogni età che col sorriso inseguono la loro chimera. So di non sapere. Questo viaggio non serve a trovare risposte, ma a sviluppare nuove domande.

l1030708

*Ph. Francesco Malavolta

Tuttavia, sono le donne a incuriosirmi di più. Bellissime, statuarie, perfette nei lineamenti del viso, aggraziate in qualsiasi movimento, con le loro schiene ritte e i vassoi in testa, coi loro figli raggomitolati sulla schiena e altri tenuti per mano, sono il vero enigma di quei giorni. La loro fierezza traspare dai gesti sicuri e dal fatto che spesso prendono la parola o si infilano nelle foto di gruppo. Sono sempre l’unica donna bianca e mi guardano come un’amica mentre mi mettono in braccio i bambini o li svegliano per farli fotografare. Alcuni toccano la mia pelle chiara per capire dove sia il trucco, ma si rassegnano quando capiscono che sono proprio fatta così: bianca! Vorrei tanto sapere cosa sognano quelle donne, mi chiedo il limite fino a cui si possano spingere i sogni: puoi sognare una cosa che non sai nemmeno se esiste?Cosa sono io per loro? Come mi vedono? Sognano anche loro di diventare medici o ingegneri anche se il destino le ha fatte nascere in un villaggio remoto e senza scuole dove l’unica prospettiva è il matrimonio e la nascita di molti figli? Sognano di poter sfamare la propria famiglia, considerando il cibo una benedizione inaspettata? In alcune, poche per la verità, traspare un dolore primordiale che impedisce qualsiasi accenno di sorriso. Lontane, estranee ed impermeabili alla gioia contagiosa della comunità che le circonda, rimangono in disparte come in un bozzolo inaccessibile. Fra loro c’è Salimata che non ride mai, tranne mentre imbraca i suoi due figli per pesarli. Quando la lancetta decreta i progressi fatti dai bambini non più malnutriti, il sorriso diventa quasi una risata prima di scivolare nella distante tristezza di prima. Vedendola per la prima volta, non avrei mai pensato che proprio lei avrebbe preso la parola. E invece è la prima ad alzarsi quando suor Hélène chiede alle madri di affidarmi le loro storie, facendo da apripista per le altre. Benché non avessimo nessuna lingua in comune, ci guardavamo in attesa della traduzione della suora che era con noi, riconoscendoci sorelle e responsabili del reciproco destino.

“Allora tu racconterai le nostre storie?”. Sì. Perché nessuna storia merita di essere perduta.

di Maria Grazia Patania

Da quando abbiamo saputo di Edith Blais e Luca Tacchetto, scomparsi proprio nei giorni in cui ci trovavamo in Burkina Faso, non abbiamo smesso un attimo di pensare a loro che speravano di arrivare in Togo per unirsi come volontari ad una organizzazione attiva in quel Paese. L’unico nostro augurio è che stiano bene e che presto possano mettersi in contatto con le proprie famiglie.

Il mondo dopo la Grande Bomba.

14 giovedì Giu 2018

Posted by cristallina555 in 2018, Africa, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Frontiera, Guerra, La memoria del futuro, R-esistenza, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Stay Human, Tornate a Casa Vostra

≈ Lascia un commento

Tag

Cristina Monasteri, Distopia, mondo, racconti, Short stories

Da quando anche le scuole clandestine sono chiuse vado col vecchio a raccogliere carta e cartone. Ci pagano in semi di zucca e legumi secchi, sempre troppo pochi. Raccogliamo anche oggetti che possono essere riutilizzati: vecchie scarpe, pezzi di coccio, contenitori di plastica. Magari una macchina da cucire può diventare una piccola màcina, una canna da pesca può farsi stampella e una caffettiera, con qualche sapiente modifica, potrebbe essere utile a distillare un po’ d’alcol dalle radici che ancora crescono in questa terra dura, piena di sale e polverosa.
Questa infinita landa rossa è l’unica cosa che si vede dalle poche alture della regione.
Terra e polvere a perdita d’occhio mentre io e il vecchio alziamo piccole nuvole intorno ai nostri piedi scalzi.
Rame non se ne trova più da anni. È come l’acciaio ma di un colore tra l’oro e il marrone, dice.

Com’è l’oro?

Oggi dobbiamo andare a prendere l’acqua, ché è finita. Abbiamo sistemato le taniche di plastica e i bottiglioni e i fiaschi sul carretto arrugginito.
Dice che l’ha fatto suo padre assemblando pezzi di un Continua a leggere →

Nessun Uomo è un’isola

13 mercoledì Giu 2018

Posted by cristallina555 in 2018, Africa, Antifascismo, Arruolamento forzato, Asia, Balkan Route, Bambini soldato, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Decolonizzazione, DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO, Disobbedienza, Frontiera, IOM / OIM, Leva obbligatoria, Michelangelo Mignosa, Olocausto del Mare, Photography, R-esistenza, Razzismo, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Stay Human

≈ Lascia un commento

Tag

Accoglienza, aprite i porti, Aquarius, Arruolamento forzato, Balkan Route, Carestia, Collettivo Antigone, Governo Italiano, Guardia Costiera, Guerra, human rights, Immigrazione, IOM, John Donne, Libia, Mediterraneo, Michelangelo Mignosa, Migrations, OIM, ONG, open borders, Photography, Poveri Cristi, Refugees Welcome, resistenza, Rohingya, SOS Mediterranée, Turchia, Umanità, umanità aperta

Nessun uomo è un’Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra.
Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare,
la Terra ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una Magione amica o la tua stessa Casa.
Ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io partecipo all’Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.

John Donne

 

2

Photo Copyright: Michelangelo Mignosa – Poveri Cristi

 

L’abbiamo scritto in più occasioni ma è il caso di ribadirlo: i flussi migratori provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente coinvolgono i paesi Mediterranei a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento e cioè dalla caduta del Muro di Berlino. Non si tratta di un’emergenza bensì di una situazione che non può continuare a essere ignorata nascondendosi dietro le linee immaginarie dei confini, senza considerare che ogni Stato appartiene a un contesto globale fatto di interconnessioni e di equilibri economici, sociali e culturali in continua trasformazione proprio alla luce delle strategie politiche di ogni paese.

I confini esistono proprio perché nessun paese è una zattera alla deriva nello Spazio. Perché non iniziare a considerarli come “giunture” piuttosto che barriere?

I flussi migratori non cesseranno ora, ne’ nei prossimi anni perché nel Mondo esistono conflitti che causano milioni di sfollati.
Non si può però pensare alla guerra come all’unico “motivo valido” per fuggire dal proprio paese. Le altre cause di migrazione massiva sono i disastri naturali causati dalla deforestazione, i terremoti e gli tsunami che da decenni colpiscono i paesi asiatici e quelli africani; le carestia e le condizioni di estrema povertà (Sudan e Sud Sudan, ad esempio); le persecuzioni religiose (ricordiamo la tragedia vissuta dal popolo Rohingya ); le numerose dittature e le forme di governo autoritarie che privano la propria popolazione dei diritti umani o che obbligano all’arruolamento forzato.

 

Tutta l’Africa in Italia non ci sta.

Nel settembre del 2015, il Consiglio europeo per la Giustizia e gli Affari Interni, ha adottato nuove misure per la ridistribuzione dei richiedenti asilo provenienti da Italia e Grecia. Tra il 2015 e il 2018, l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (IOM) ha assistito alla ricollocazione in altri paesi europei di quasi 35 mila persone bisognose di protezione internazionale, poco meno di 600 tra loro sono i minori non accompagnati.

Assegnazioni_da_Gr_It

Fonte: IOM – sezione Relocated

 

La tratta*

La presenza di conflitti o disastri ambientali nel paese di partenza (non necessariamente è il paese di origine), rende i migranti più vulnerabili al traffico di esseri umani durante il viaggio verso l’Europa, soprattutto sulla route del Mediterraneo centrale, rispetto alla route balcanica.
Quando parliamo di tratta, di traffico di esseri umani, intendiamo in primis le condizioni di detenzione e schiavitù in cui versano le persone in stallo nei campi libici: spesso i trafficanti tengono uomini, donne e bambini in ostaggio e, solo quando le condizioni di salute sono tanto critiche da impedire ulteriori sfruttamenti, vengono imbarcati e lasciati alla deriva in mare. Molte donne subiscono violenze sessuali: è questo il motivo per cui ci sono molte donne incinte a bordo delle imbarcazioni recuperate dalle ONG e dalla Guardia Costiera.

Libia e Turchia, porte verso l’Occidente?**

La Libia è uno tra i paesi di transito e la situazione politica attuale la rende uno degli stati in cui i migranti sono maggiormente vulnerabili allo sfruttamento e al traffico di esseri umani.
Molti rifugiati dichiarano di essere stati imbarcati con la forza, altri con l’inganno di una prospettiva lavorativa, altri ancora con proposte di matrimoni combinati. I minori non accompagnati sono le vittime più comuni della tratta.

La Turchia ha rappresentato, negli ultimi decenni, un paese di passaggio per le popolazioni dell’Asia provenienti soprattutto dal Medio Oriente, ma rappresenta anche una destinazione per molti di loro: secondo il DGMM (Direzione Generale Turca per le Migrazioni), quasi 4 milioni di migranti sono presenti nel territorio turco, la maggior parte di loro proviene dalla Siria, dall’Iraq, dall’Iran e dall’Afghanistan.

 

Al di là della propaganda elettorale e delle notizie parziali o addirittura false, al di là delle ridicole moltiplicazioni tra il numero di persone in arrivo e i fantomatici trentacinque euro al giorno, al di là della cattiva fede di un Governo che tiene in ostaggio più di 600 persone in mare aperto in condizioni disumane perché poco avvezzo alla diplomazia e alle pratiche democratiche nel rispetto della legge e degli accordi siglati, ci chiediamo come poter estirpare il germe d’odio che soffoca gli italiani.

Soprattutto, ci chiediamo come persone con due gambe e due braccia, soprattutto due occhi e una testa, persone che vivono intorno a noi, che amano i propri figli, che amano gli animali, persone stese in spiaggia accanto a noi, in fila alla posta con noi, persone in coda alla cassa del supermercato, persone che preparano i nostri pasti, che ci vendono gli abiti, persone che ci aggiustano i telefonini o che ci consegnano la pizza a casa; ci chiediamo come sia possibile per queste persone cedere alla faciloneria di assenteisti e ipocriti piuttosto che fare seriamente propri i valori cristiani fondativi della nostra civiltà.

Possibile che i protettori della cultura cattolica si battano per un crocifisso e non per un povero Cristo?

 

 

R-esistete


*
http://migration.iom.int/docs/Migrant_Vulnerability_to_Human_Trafficking_and_Exploitation_Brief_November_2017.pdf

 

** http://migration.iom.int/docs/DTM%20Libya%20Round%2018%20Migrant%20Report%20(March%202018).pdf

http://migration.iom.int/docs/Flow_Monitoring_Surveys_Analysis_Report_Turkey_May_2018.pdf

Welcome to the Smiling Coast: Living in the Gambia Ghetto

29 giovedì Mar 2018

Posted by claudialaferla in 2018, Africa, Cinema, Cinema africano, Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, Gambia, Restiamo umani, Senza categoria, Tornate a Casa Vostra

≈ Lascia un commento

Tag

Africa, Bas Ackermann, Cinema, Claudia La Ferla, Documentario, Emiel Martens, Gambia, Living in the gambian ghetto, Tornate a Casa Vostra, Welcome to the Smiling Coast

Welcome to the Smiling Coast: Living in the Gambian Ghetto è un documentario che offre una particolare quanto rara visione della vita di un paese in cui quotidianità vuol dire speranza e difficoltà. Il film segue, così, le giornate di quindici ragazzi che lottano per sbarcare il lunario vivendo ai margini dell’industria del turismo. Anche il più piccolo paese dell’Africa occidentale, il Gambia, è diventato, infatti, una popolare destinazione per le vacanze dei turisti europei. Dal 2005 il paese riceve in genere oltre 100.000 visitatori stranieri ogni anno, guadagnandosi la reputazione di Costa del Sol africana. Lo stesso titolo conduce, già, lo spettatore al cuore del problema e al nocciolo delle questioni su cui si vuole indagare: la costa felice meta di vacanze di lusso contro la realtà del ghetto. Molti gambiani, in particolare i giovani, risiedono nei quartieri poveri che sorgono ironicamente a pochi passi di distanza dagli alberghi turistici e dalle spiagge. Il netto contrasto tra le strutture di lusso e la vita povera e arrangiata del popolo, si fa così nettamente evidente attraverso una linea di confine che separa il sogno dalla realtà, il benessere dalla fame, un mondo da un sotto-mondo.

Nel corso degli ultimi anni, il Gambia è diventato una meta scelta prevalentemente da donne bianche e anziani in cerca di sole e mare o turisti interessati ad una vacanza meramente sessuale. Questa è la triste realtà che sta investendo questo paese al pari di tante altre destinazioni orientali che vedono le donne ma soprattutto le bambine schiave e vittime di una ormai consolidata abitudine conosciuta come turismo sessuale. Spinte dalla povertà e dalla disperazione – in nessuno di questi casi è accostabile il termine vita se non nell’accezione di mera sopravvivenza – sfruttano il loro corpo come fonte di guadagno. In quest’ottica, il turista bianco lo trasforma in semplice oggetto del proprio piacere incluso nel suo pacchetto vacanze di lusso.

omslagfoto

I giovani gambiani raccontano nel corso del documentario la loro vita creando, spesso, uno strano corto circuito tra i loro occhi traditi dalla stanchezza e dalla tristezza e le loro labbra sorridenti che riescono comunque a pronunciare parole d’amore per quella terra martoriata. Cercano di cavalcare l’ondata di turismo crescente in modo da guadagnarsi da vivere e lo fanno offrendo servizi di taxi ed escursioni oppure arrangiandosi come musicisti di strada o come procacciatori di donne per i turisti che vanno lì solo alla ricerca di sesso. Il film mostra, quindi, le strategie creative che i ragazzi usano per riuscire a sbarcare il lunario e l’impatto che il turismo ha avuto su questa piccola nazione africana, attraverso uno sguardo critico ma leggero con la presenza di molta bella musica ad accompagnare le immagini. Mostrando le loro lotte, speranze e sogni, il documentario restituisce un volto umano alla realtà che sta dietro lo scintillio della Costa del Sol dell’Africa, fatto di resistenza e desideri da voler realizzare.

Il Gambia viene fuori nelle sue due facce. Da un lato una popolare destinazione turistica favorita del suo clima caldo, dalla bellezza paesaggistica e dal sesso a buon mercato con turisti che soggiornano circondati dal comfort dei resort all-inclusive, lontano dall’esperienza quotidiana che appartiene ai suoi abitanti. Dall’altro la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà ricordando che il Gambia è attualmente, 50 anni dopo la sua indipendenza, una delle nazioni più povere dell’Africa. Confinati “nel ghetto”, ai margini dell’onnipresente industria del turismo, a loro resta soltanto di poter sognare quella vita, la vita dei bianchi. A causa dell’illusione di un futuro migliore in relazione allo stile di vita dei turisti proprio accanto a loro, molti giovani scelgono di intraprendere la “back way”, ovvero la traversata che conduce in Europa con tutti i rischi che essa comporta. Come sottolinea uno dei ragazzi protagonisti del documentario: “i nostri ragazzi credono che l’Occidente sia migliore! Perché pensano che tutto quello che viene dall’Occidente sia meglio della propria cultura.”

Il merito di questo documentario è di mostrare una triste realtà legata anche alle conseguenze che il turismo occidentale ha portato in Gambia ma allo stesso tempo di porre l’accento sulla positività di questo popolo che continua a sorridere e a lottare e in questo senso l’onnipresenza della musica è capace di accompagnare lo spettatore lungo un viaggio fatto di emozioni tangibili. Welcome to the Smiling Coast: Living in the Gambian Ghetto è una storia di ambizioni, opportunità e tentazioni che trova nella creatività la chiave per la sopravvivenza.

Model-Dreaming

Realizzato dagli olandesi Bas Ackermann (regista) e Emiel Martens (produttore) in collaborazione con il Gambia Media House, con un budget minimo messo insieme dalle loro tasche, senza alcuna forma di sovvenzione, è stato senza dubbio una scommessa vincente. Il film è stato, infatti, presentato in prima mondiale al Pan African Film Festival di Los Angeles, il più grande festival del cinema nero negli Stati Uniti e dopo è stato proiettato in oltre 30 film festival ed eventi, tra cui la Premiere africana al AfricanBamba Human Rights Film Festival di Dakar, in Senegal, e la prima europea al Galway African Film Festival in Galway, Irlanda. Dice il regista Ackermann: “l’idea del film è nata circa otto anni fa, quando ero in Gambia un centro audiovisivo per i giovani con l’obiettivo di formarli come professionisti dei media. Alcuni di loro hanno lavorato come membri della truope in Welcome to the Smiling Coast come Pasquale Manka, ora uno dei principali produttori del suo paese. Mentre il produttore Martens sottolinea: “in tempi di immagini negative, in particolare intorno all’attuale crisi dei profughi, cerchiamo di dare un volto più umano e positivo dell’Africa e degli africani. Vogliamo anche mettere una nota critica circa l’impatto del turismo occidentale nei paesi non occidentali.”

Le ultime parole vorrei lasciarle proprio a due dei ragazzi intervistati nel documentario simbolo di un amore tormentato quando indissolubile con la propria terra: “in questo mondo oggi non c’è nessuna simpatia, nessuna pietà. Tutti vogliono andare in paradiso, ma nessuno vuole morire”.  “Ringraziamo Dio perché stiamo avendo la pace, lo sai. Ma la povertà è sempre più alta, questo è il problema. Però il Gambia è un paese dolce.”

Di Claudia La Ferla

Immagini prese dal Web.

Una conversione opaca: il Gambia dopo Jammeh

28 mercoledì Mar 2018

Posted by cristallina555 in 2018, Africa, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Decolonizzazione, Gambia, Go Back to Your Country, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Stay Human, Tornate a Casa Vostra

≈ Lascia un commento

Tag

Adama Barrow, aiutiamoli a casa loro, Amnesty International, Commonwealth, ECOWAS, Gambia, NIA, Tornate a Casa Vostra, Yahya Jammeh

La Repubblica del Gambia si trova in Africa occidentale ed è uno dei più piccoli stati del continente. È circondata dal Senegal salvo il breve tratto in cui il fiume Gambia sfocia nell’Oceano Atlantico.
La sua capitale è Banjul, sulla riva sud del Gambia, ma i maggiori centri sono la vicina Serekunda, anch’essa affacciata sull’Atlantico e Brikama, poco più lontana dall’oceano.

Gambia_map

Fonte immagine Google Maps

La storia del Gambia affonda le sue radici nel commercio degli schiavi: per questo motivo, prima i portoghesi e poi gli inglesi, avevano bisogno di una colonia sul fiume spiegando, inoltre, la singolarità della forma dei confini di questo stato che sono tracciati a contorno dell’omonimo fiume che nasce nel vicino Senegal.

L’economia del Gambia è fondata sull’agricoltura e, in minima parte, anche pesca e turismo contribuiscono allo sviluppo del paese anche se circa un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
Il PIL (nominale) pro capite del Gambia (dato aggiornato al 2012), è pari a 497 dollari.

Alla fine del XVI secolo il Portogallo cedette i diritti di commercio sul Gambia a dei mercanti inglesi; da allora il paese ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito solo nel 1965, anno in cui entrò a far parte del Commonwealth.
Il paese è abitato da una grande varietà di gruppi etnici tra cui la religione maggiormente praticata è l’Islam. Il restante 10% della popolazione è cristiano. Dopo l’indipendenza il paese ha conosciuto un lungo periodo di relativa tranquillità, considerata la quasi assenza di scontri tra i diversi gruppi etnici e la grande tolleranza religiosa per cui, nonostante la stragrande maggioranza della popolazione sia musulmana, il paese riconosce come ufficiali le festività cristiane come quelle islamiche.

La stabilità politica venne meno trent’anni dopo l’indipendenza quando, nel luglio del 1994, un colpo di stato consegnò il potere nelle mani di Yahya Jammeh, secondo presidente del Gambia e capo del partito “Alleanza Patriottica per il Riorientamento e la Costruzione”. Nel 1996 Jammeh fu poi eletto con l’appoggio del proprio partito ma, nonostante l’elezione formalmente democratica, iniziò ad adottare una politica in contrasto con la difesa dei Diritti Umani facendo imprigionare e uccidere i propri oppositori ed espellendo i giornalisti stranieri.

imgpresident-barack-obama-first-lady-michelle-obama-gambian-president-yahya-jammeh-wife-white

Yahya Jammeh ospite alla Casa Bianca nel 2014. Fonte -> https://www.ibtimes.co.in/gambian-president-yahya-jammeh-threatens-slit-throats-gay-men-country-632175

La dittatura di Jammeh, il quale afferma di avere poteri taumaturgici che guariscono dall’infertilità e dall’AIDS, è stata descritta dal relatore delle Nazioni Unite nel suo rapporto sul Gambia del 2014, come un regime che ricorre all’uso della tortura mediante pestaggi, scariche elettriche e soffocamento o annegamento in acqua bollente. Tra le numerose sparizioni forzate ci sarebbe anche un bambino.
Nello stesso 2014 entra in vigore una legge che prevede l’ergastolo per il reato di “omosessualità aggravata”, viene inoltre disposta la ripresa delle esecuzioni, annunciando l’ampliamento del numero dei reati per cui è prevista la pena di morte tra i quali il reato di “rendersi irreperibili” che, nel caso di un respingimento e di un conseguente rimpatrio, consegnerebbe alle autorità chi prova a fuggire.

holland-gambia-jammeh

Jammeh ospite all’Eliseo nel 2013. Fonte -> http://uk.businessinsider.com/the-story-of-njaga-jagne-2015-1?IR=T

Nel 2013 Jammeh ritira il Gambia dal Commonwealth e, due anni più tardi, nel 2015 stabilisce che l’arabo debba sostituire l’inglese negli organismi statali e nell’ambito dell’istruzione pubblica nonostante l’arabo non sia la lingua madre di nessuna delle etnie gambiane. La decisione è probabilmente collegata agli investimenti di Libano, Giordania e Siria (prima della guerra) nei settori nevralgici dell’economia gambiana.

jammeh-islamic-republic_china

Jammeh con Ma Ying-jeou, presidente della Repubblica di Cina dal 2008 al 2016. Fonte -> http://africanarguments.org/2016/01/28/why-does-jammeh-want-to-make-the-gambia-an-islamic-republic/

In seguito alle elezioni del dicembre 2016, Adama Barrow, un imprenditore e membro del Partito Democratico Unito rientrato in Gambia dalla Gran Bretagna dove viveva da molti anni, viene dichiarato vincitore delle presidenziali.
Jammeh ha prima dichiarato che si sarebbe ritirato a seguito della sconfitta ma ha poi considerato nulli i risultati chiedendo una seconda turnata elettorale e innescando una crisi costituzionale oltre che provocando l’intromissione da parte di una coalizione vicina all’ECOWAS.
Il 20 gennaio 2017, Jammeh ha annunciato che si sarebbe ritirato lasciando il paese e un mese dopo, il Gambia ha iniziato le procedure per la riammissione al Commonwealth.

Adama Barrow è diventato leader del suo partito nel 2016, dopo l’arresto del suo predecessore.
La sua campagna elettorale ha puntato molto l’attenzione sulla volontà di costruire un “Nuovo Gambia” ma è ancora presto per fare previsioni dopo ventidue anni di regime, basti ricordare che l’omosessualità in Gambia è ancora un reato.
Le prime iniziative del nuovo presidente, oltre al rientro tra i paesi del Commonwealth, riguardano una riforma dell’Agenzia Nazionale di Intelligence (NIA) e l’istituzione di una commissione per la riforma costituzionale, l’abolizione della pena di morte e l’istituzione di una commissione che provveda alle riparazioni nei confronti delle vittime della dittatura.
Purtroppo nel paese, nonostante sia formalmente vietata, l’infibulazione è ancora diffusa mentre l’aborto resta un reato.

Jammeh è partito per l’esilio in Guinea Equatoriale portando con sé l’1% del PIL nazionale in forma di denaro, automobili e svariati beni di lusso.

 

Approfondimenti:

Rapporto annuale  Poverty and Shared Prosperity (2016) della Banca Mondiale -> https://openknowledge.worldbank.org/bitstream/handle/10986/25078/9781464809583.pdf

Rapporto annuale di Amnesty International -> https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/africa/gambia/

Di Cristina Monasteri

Salviamo le persone, portiamole al sicuro. Tutte.

20 martedì Mar 2018

Posted by cristallina555 in 2018, Africa, Anti-Militarismo, Antifascismo, antisemifobia, antisemitismo, Apolidia, Asia, autodeterminazione, Balkan Route, Bambini soldato, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Decolonizzazione, DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO, Disobbedienza, Frontiera, Giulio Regeni, I figli della fortuna, Il silenzio dei vivi, Leva obbligatoria, Mali, Muros, Olocausto, Olocausto del Mare, Parole del Collettivo, R-esistenza, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Siria, Stati Uniti, Stay Human, Sudan, syria, Tornate a Casa Vostra

≈ Lascia un commento

Tag

Afghanistan, aiutiamoli a casa loro, Al Quaida, Algeria, Birmania, Buonsenso, Clandestino, Darfur, Documenti, Egitto, Iraq, ISIS, lagher, Libia, Manu Chao, Migrante, Thailandia, Turchia, Ucraina, Ungheria

clandestino

fonte: http://www.treccani.it/vocabolario/clandestino/

 

Contro il divieto delle autorità.

Di nascosto.

Illegalmente.

Il termine “clandestino” ha un impiego talmente ampio, come tutte le parole sdoganate dalla narrazione tossica della politica, da essere utilizzato per esprimere il disprezzo verso lo straniero sottolineando la mancanza di regolarità della presenza del detto “straniero sull’italico territorio”.
La malafede è talmente sfacciata che si fa molta attenzione a distinguere tra “immigrati regolari” e “clandestini” quando bisogna “cacciarli da casa nostra” perché non si dica che si tratta di razzismo bensì di “buonsenso”.
Se parliamo di dati effettivi, invece, numeri e percentuali vengono snocciolati al rialzo senza mai fare presente un aspetto che risulta alquanto banale e che, ancor di più per questo motivo, lascia basiti di fronte alla faciloneria con cui certe informazioni vengono dispensate, recepite, filtrate, assimilate: come si fa a parlare di dati se i clandestini, per definizione, sono nascosti?
Si può parlare di numeri quando si documentano gli sbarchi poiché dopo uno sbarco le persone vengono contate, vestite, registrate, fotografate, rifocillate, smistate, accolte. Non sono clandestini, lo diventano quando, senza documenti e incastrati nella zona d’ombra della burocrazia italiana, tentano di passare il confine con la Francia a piedi o sui tetti dei treni, o si nascondono nel retro di un camion per raggiungere le coste inglesi.

Clandestino rispetto a cosa? Rispetto a chi?
Quali sono le autorità riconosciute e da quali Stati europei sono riconosciute? Quali documenti sono validi nel nostro paese? Quali governi democratici sono stati destituiti? Quanti sono i paesi in guerra?
In quanti altri paesi sono presenti, invece, le milizie dei fondamentalisti religiosi?
Qual è il limite di sicurezza sotto il quale è considerata “legittima” una fuga dal proprio paese?
Quanto è stupido pensare che chi scappa stia abbandonando il proprio paese? Chi lo dice? Chi poi si lamenta degli italici cervelli in fuga? Chi è scappato e vive tuttora in Gran Bretagna dall’agosto del 1980 ed è nostalgico di un piccolo omino che si travestì da Carabiniere abbandonando il paese di cui era Duce, negli anni 40?

E7FEC95D-0312-4209-8F60-9E8539BC2075.jpeg

La verità?
Tutti si possono spostare purché non siano poveri.

Perché pensiamo che sia giusto per gli altri esseri umani vivere in alcuni paesi quando noi europei non ci andremmo nemmeno in vacanza?

In Algeria sono presenti diversi gruppi islamici fondamentalisti, da Al Quaida ai gruppi militari affiliati all’IS. A fine febbraio, dopo l’uccisione di alcuni soldati, le autorità algerine hanno dispiegato altri cinquemila militari al confine con la Tunisia per rafforzare la sicurezza del paese nel quale il rischio terroristico continua a essere elevato.
In Egitto è in corso una “guerra contro il terrorismo” che porta a centinaia di sparizioni forzate perpetrate da parte dell’esercito (vedi l’approfondimento sul rapporto di Amnesty International).
In Libia è in corso una guerra civile e non sappiamo ancora quanto il paese si senta minacciato dalle dichiarazioni del fascista Di Stefano il quale vaneggiava di un protettorato su gran parte del territorio libico.
In Libia, inoltre, grazie ai trattati con l’Europa, ci sono i campi di concentramento. Non vogliamo esagerare, vorremmo poter dire che si tratta di uno scherzo, di un’infelice iperbole.
Invece, lo ripetiamo, in Libia ci sono i campi di concentramento per i migranti esattamente come fino agli anni Trenta ci sono stati i campi di concentramento (sedici in Libia ma anche in Eritrea e Somalia che, ricordiamo, erano tutte colonie italiane), per detenuti politici ma anche detenuti comuni, per tribù di ribelli e per i deportati.
Il Mali è travagliato da una guerra civile tra ribelli e forze governative che si protrae da sei anni. L’aiuto che è riuscita a dare l’Europa “a casa loro”? L’esercito francese con altre armi, altri spari, altri morti.
In Nigeria Boko Haram continua a seminare il terrore con attentati kamikaze in cui l’attentatore è solitamente una donna rapita mentre era a scuola.
Il Sudan è martoriato da anni da guerra e carestie. Le persone muoiono di fame in Darfur.

A Oriente la situazione è altrettanto drammatica.
La Siria è stata sventrata dalle bombe, rase al suolo le sue città, massacrata la popolazione civile.
La Turchia di Erdogan fa strage di curdi ad Afrin col prestesto di scacciare i terroristi e con la complicità di Europa, Russia e Stati Uniti.
Mi chiedo se l’angelo contro la guerra regalato dal Papa a Erdogan sia da prendere o meno come un insulto agli innocenti uccisi.
L’Afghanistan e l’Iraq stanno ancora pagando il prezzo della pace esportata dall’occidente a suon di bombe.
In Birmania le persone sono costrette a scappare per non finire vittime di una vera e propria pulizia etnica che continuiamo a ignorare.
La Thailandia è governata dall’esercito sin dal golpe di quattro anni fa.

L’Europa non può certo considerarsi lontana dai venti di guerra: non si parla quasi più di Ucraina ma il conflitto tra i ribelli sostenuti dal governo russo e le truppe del governo ucraino prosegue dal 2014.
Viktor Orban governa l’Ungheria dal 1998 e durante il suo ultimo mandato (iniziato nel 2014), ha messo in discussione la forma di governo occidentale di stampo democratico e liberale a favore di un nazionalismo autoritario che sfrutta ancora il terrore rosso in un abile azione demagogica in cui l’opposizione è pressoché inesistente (salvo il partito neofascista Jobbik).

Perché continuiamo a farci prendere in braccio dalla faciloneria e dalla disonestà di omuncoli che aspirano al potere sulle spalle dei poveri? La povertà non ha confini geografici nonostante si cerchi di nasconderla sotto i tappeti con Daspo insani e pericolosi i quali portano alla legittimazione della “pulizia strada per strada” molto redditizia in tempi di campagna elettorale e molto pericolosa allo stesso tempo.

Il Nazionalismo è una bandiera che nasconde ingiustizia sociale, fomenta l’ignoranza e asseconda le conclusioni facili, duali in cui c’è un buono e, per contrappeso, deve esserci un cattivo.
La fobia del terrorismo islamico ha portato al vero terrorismo italico. A farne le spese sono sempre gli Ultimi e gli Innocenti.
Riusciamo a capire che “aiutarli a casa loro” è una bestemmia contro il diritto alla vita?

L’unico modo per aiutarli a casa loro, in tutta onestà e in quanto cittadina di un paese che invecchia e muore (conviene anche a noi, suvvia), è di andare a prenderli.

Tutti.

Organizziamo voli charter per andare a prendere tutti: gli ultimi, i perseguitati, gli afflitti, i miti, i poveri di spirito, quelli che hanno fame e sete di giustizia. Non ci saranno irregolari, non ci saranno clandestini, non ci saranno altri sepolti nel cimitero del Mediterraneo, non ci saranno altri olocausti nei lagher libici, nelle gabbie Ungheresi, sui confini spinati dei balcani, non ci saranno bambini morti, generazioni cancellate, stupri di guerra, sparizioni forzate.
Pensate, non ci saranno più nemmeno i cocci delle fioriere.

Portiamoli al sicuro, salviamoli. Tutti.

di Cristina Monasteri

← Vecchi Post

seguici su

  • Visualizza il profilo di antigonecollettivo su Facebook
  • Visualizza il profilo di @collet_antigone su Twitter

Redazione

  • antigoneblog2015
  • babybutterfly04
  • claudialaferla
  • cristallina555
  • francescacola
  • morfea
  • orukov

Articoli recenti

  • A scuola di resistenza e resilienza generativa, il “Permaculture Design Certificate Course”
  • Piccolo viaggio alla scoperta della frontiera sud
  • Le radici contano solo se sei un albero
  • Agricoltura sostenibile e cambiamento climatico in Burkina Faso
  • Take her away. Away from here

Commenti recenti

simona su Un anno di scuola con Antigone…
Cristina Mattiello su Ai fratelli sconosciuti morti…
Agnes su Siamo tutti terroristi?
Hauke Lorenz su ViaCrucis Migrante
Anna Teresi su Un uomo di nome Giacinto. Un s…

Archivi

  • luglio 2019
  • giugno 2019
  • Mag 2019
  • aprile 2019
  • marzo 2019
  • gennaio 2019
  • dicembre 2018
  • novembre 2018
  • ottobre 2018
  • settembre 2018
  • agosto 2018
  • luglio 2018
  • giugno 2018
  • Mag 2018
  • aprile 2018
  • marzo 2018
  • febbraio 2018
  • gennaio 2018
  • dicembre 2017
  • novembre 2017
  • ottobre 2017
  • settembre 2017
  • agosto 2017
  • luglio 2017
  • giugno 2017
  • Mag 2017
  • aprile 2017
  • marzo 2017
  • febbraio 2017
  • gennaio 2017
  • dicembre 2016
  • novembre 2016
  • ottobre 2016
  • settembre 2016
  • agosto 2016
  • luglio 2016
  • giugno 2016
  • Mag 2016
  • aprile 2016
  • marzo 2016
  • febbraio 2016
  • gennaio 2016
  • dicembre 2015
  • novembre 2015
  • ottobre 2015
  • settembre 2015
  • agosto 2015
  • luglio 2015
  • giugno 2015

Categorie

  • #MeToo
  • 2016
  • 2017
  • 2018
  • 2019
  • Africa
  • Ai Weiwei
  • Alberto Caviglia
  • Alejandro González Iñárritu
  • Alessandra Lucca
  • Alessia Alicata
  • Alessio Mamo
  • Alterrative
  • Ambiente
  • America Latina
  • Andrea Lucheroni
  • Andrew Wakeford
  • Annalisa Imperi
  • Anonimous
  • Anonyme
  • Anti-Militarismo
  • Antifascismo
  • antisemifobia
  • antisemitismo
  • Antonella Taravella
  • Antonio Parrinello
  • Apolidia
  • Architettura
  • Arruolamento forzato
  • Arte
  • Asia
  • Associazione italiana psichiatria sociale
  • Augusta
  • Aurora di Grande
  • Auschwitz
  • autodeterminazione
  • Babel
  • Balkan Route
  • Bambini soldato
  • Baobab Camp
  • Baobab Experience
  • Basilicata
  • Bologna
  • Bonnections
  • BonnLab
  • Burkina Faso
  • Carla Colombo
  • Children of Fortune
  • Children's Day
  • Chivasso
  • Christoph Probst
  • Cina
  • Cinéma du Desert
  • Cinema
  • Cinema africano
  • Cinema coreano
  • Cinema Italiano
  • Cinema Maliano
  • Cinema Messicano
  • Cinema palestinese
  • Cinema postcoloniale
  • Cinema siciliano
  • Claudia La Ferla
  • Claudio Beorchia
  • Collaborazioni
  • Collettivo Antigone
  • Collettivo's Words
  • Coltan
  • Como
  • Congo
  • Cooperativa Sicomoro
  • Crazy for football
  • Crazy for football-il libro
  • Cristina Monasteri
  • Daniel Libeskind
  • Daniela Mussano
  • Decolonizzazione
  • Denis Bosnic
  • Denis Mukwege
  • Desaparecidos
  • Deutsch
  • deutsche Widerstand
  • DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO
  • Die weiße Rose
  • DIE ZEIT ONLINE
  • Disobbedienza
  • Dissidenti
  • Domenico Monteleone
  • Doumbia
  • Egon Schiele
  • Eleonora Rossi
  • Elisa Springer
  • Elisabetta Evangelisti
  • Else Gebel
  • Emerson Marinho
  • English
  • Ernesto Montero
  • Esilio
  • español
  • Etiopia
  • Eventi
  • Events
  • Exile
  • Federica Loddi
  • Federica Simeoli
  • Federico Scoppa
  • Firenze
  • Fotogiornalismo
  • Français
  • Francesca Colantuoni
  • Francesco Faraci
  • Francesco Malavolta
  • Fred George
  • Free Open Arms
  • French
  • Frontiera
  • Fuocoammare
  • Gambia
  • Gaza
  • Giacomo d’Aguanno
  • Giada Pasqualucci
  • Gianfranco Rosi
  • Gianmarco Catalano
  • Giornata della Memoria 2017
  • Giornata della Memoria 2019
  • Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne
  • Giornata Internazionale del Rifugiato
  • Giornata Internazionale delle Donne 2018
  • Giorni della Memoria
  • Giorni delle Donne
  • Giulio Regeni
  • Go Back to Your Country
  • Guerra
  • Guinea
  • Hans Scholl
  • Hauke Laurenz
  • I figli della fortuna
  • I Giorni della Madre
  • I giorni della Madre 2018
  • I Giorni della Memoria 2018
  • I Giorni della Memoria 2019
  • I Giorni delle Donne, 2017
  • Il Corpo delle Donne
  • Il silenzio dei vivi
  • Innenansichten aus Syrien
  • IOM / OIM
  • Islam
  • Jüdisches Museum Berlin
  • Jean-Claude Chincheré
  • Johanna Schäfer
  • Jugend rettet
  • Julie Ristic
  • Kenya
  • Kevin McElvaney
  • Kim Ki-duk
  • L'isola che non c'è
  • La Macchina Sognante
  • La memoria del futuro
  • La Palermo degli Ultimi
  • La Rosa Bianca
  • Larissa Bender
  • Lavoro Minorile
  • Les enfants de la Fortune
  • Leva obbligatoria
  • Libano
  • Life Jacket Project
  • ll Corpo delle Donne
  • Lorenzo Tondo
  • Luana Bruno
  • Lucia Cupertino
  • MA-EC
  • Madri
  • Madri di Plaza de Mayo
  • Mali
  • Marc Rothemund
  • Margine Protettivo
  • MariaGrazia Patania
  • Marina Galici
  • Marta Bellingreri
  • Marzamemi
  • Massimo Micheli
  • MateriaPrima
  • Maternità Universale
  • MB
  • MEDIPERlab
  • MEDU-Medici per i Diritti Umani
  • Mely Kiyak
  • Messico
  • MeToo
  • Michael
  • Michael Verhoeven
  • Michela Gentile
  • Michelangelo Mignosa
  • Milano
  • Mockumentary
  • Monaco
  • Mostre
  • Mostre fotografiche
  • Muros
  • Musica
  • Nazismo
  • No Tav
  • Olocausto
  • Olocausto del Mare
  • Ornella SugarRay Lodin
  • Oswiecim
  • Pablo Neruda
  • Palermo
  • Panzi Hospital Congo
  • Papis
  • Parole del Collettivo
  • Pecore in Erba
  • Periferie urbane
  • Permacultura
  • Photography
  • Plaza de Mayo
  • Poesia
  • Português
  • postcolonial cinema
  • Prigioni
  • Progetti
  • Projects
  • Puglia
  • Punta Izzo Possibile
  • R-esistenza
  • Radio Bonn
  • Ramadan
  • Rami
  • Razzismo
  • Refaei Shikho
  • RefugeeCameras
  • Refugees Welcome
  • Resistenza tedesca
  • Restiamo umani
  • Riccardo Pareggiani
  • Roberta Conigliaro
  • Roberta Indelicato
  • Rodrigo Galvàn Alcala
  • Roma
  • Scultura
  • Scuole Verdi Augusta
  • Segregazione
  • Senza categoria
  • Sguardi dalla Siria
  • Sicilia
  • Simona D'Alessi
  • Siria
  • Sophie Scholl
  • Sostenibilità
  • Souleymane Cissé
  • Spanish
  • Stati Uniti
  • Stay Human
  • Stealthing
  • Street Art
  • Sudan
  • Sylvie Pavoni
  • syria
  • Tamara de Lempicka
  • Teatro
  • Teatro Atlante
  • Teatro dell´assurdo
  • Terremoto
  • Testimonianze
  • The Dawn of Recovery – MSF Giordania
  • Torino
  • Tornate a Casa Vostra
  • Traduzioni
  • Translations
  • Ugo Borga
  • Uomo Vs Soldato
  • Valentina Rossi
  • Valentina Tamborra
  • Valerio Bispuri
  • ViaCrucis Migrante
  • VOCES DE SIRIA
  • Voices from Syria
  • Willi Graf
  • Women's Day
  • WordSocialForum
  • World Press Photo 2018
  • Yacob Fouiny
  • Youba
  • Zentrum für politische Schönheit
  • Ziad Homsi

Meta

  • Registrati
  • Accedi
  • Flusso di pubblicazione
  • Feed dei Commenti
  • WordPress.com

Blog su WordPress.com.

Annulla
Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
Per ulteriori informazioni, anche sul controllo dei cookie, leggi qui: Informativa sui cookie