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Collettivo Antigone

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Collettivo Antigone

Archivi Mensili: marzo 2018

Welcome to the Smiling Coast: Living in the Gambia Ghetto

29 giovedì Mar 2018

Posted by claudialaferla in 2018, Africa, Cinema, Cinema africano, Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, Gambia, Restiamo umani, Senza categoria, Tornate a Casa Vostra

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Africa, Bas Ackermann, Cinema, Claudia La Ferla, Documentario, Emiel Martens, Gambia, Living in the gambian ghetto, Tornate a Casa Vostra, Welcome to the Smiling Coast

Welcome to the Smiling Coast: Living in the Gambian Ghetto è un documentario che offre una particolare quanto rara visione della vita di un paese in cui quotidianità vuol dire speranza e difficoltà. Il film segue, così, le giornate di quindici ragazzi che lottano per sbarcare il lunario vivendo ai margini dell’industria del turismo. Anche il più piccolo paese dell’Africa occidentale, il Gambia, è diventato, infatti, una popolare destinazione per le vacanze dei turisti europei. Dal 2005 il paese riceve in genere oltre 100.000 visitatori stranieri ogni anno, guadagnandosi la reputazione di Costa del Sol africana. Lo stesso titolo conduce, già, lo spettatore al cuore del problema e al nocciolo delle questioni su cui si vuole indagare: la costa felice meta di vacanze di lusso contro la realtà del ghetto. Molti gambiani, in particolare i giovani, risiedono nei quartieri poveri che sorgono ironicamente a pochi passi di distanza dagli alberghi turistici e dalle spiagge. Il netto contrasto tra le strutture di lusso e la vita povera e arrangiata del popolo, si fa così nettamente evidente attraverso una linea di confine che separa il sogno dalla realtà, il benessere dalla fame, un mondo da un sotto-mondo.

Nel corso degli ultimi anni, il Gambia è diventato una meta scelta prevalentemente da donne bianche e anziani in cerca di sole e mare o turisti interessati ad una vacanza meramente sessuale. Questa è la triste realtà che sta investendo questo paese al pari di tante altre destinazioni orientali che vedono le donne ma soprattutto le bambine schiave e vittime di una ormai consolidata abitudine conosciuta come turismo sessuale. Spinte dalla povertà e dalla disperazione – in nessuno di questi casi è accostabile il termine vita se non nell’accezione di mera sopravvivenza – sfruttano il loro corpo come fonte di guadagno. In quest’ottica, il turista bianco lo trasforma in semplice oggetto del proprio piacere incluso nel suo pacchetto vacanze di lusso.

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I giovani gambiani raccontano nel corso del documentario la loro vita creando, spesso, uno strano corto circuito tra i loro occhi traditi dalla stanchezza e dalla tristezza e le loro labbra sorridenti che riescono comunque a pronunciare parole d’amore per quella terra martoriata. Cercano di cavalcare l’ondata di turismo crescente in modo da guadagnarsi da vivere e lo fanno offrendo servizi di taxi ed escursioni oppure arrangiandosi come musicisti di strada o come procacciatori di donne per i turisti che vanno lì solo alla ricerca di sesso. Il film mostra, quindi, le strategie creative che i ragazzi usano per riuscire a sbarcare il lunario e l’impatto che il turismo ha avuto su questa piccola nazione africana, attraverso uno sguardo critico ma leggero con la presenza di molta bella musica ad accompagnare le immagini. Mostrando le loro lotte, speranze e sogni, il documentario restituisce un volto umano alla realtà che sta dietro lo scintillio della Costa del Sol dell’Africa, fatto di resistenza e desideri da voler realizzare.

Il Gambia viene fuori nelle sue due facce. Da un lato una popolare destinazione turistica favorita del suo clima caldo, dalla bellezza paesaggistica e dal sesso a buon mercato con turisti che soggiornano circondati dal comfort dei resort all-inclusive, lontano dall’esperienza quotidiana che appartiene ai suoi abitanti. Dall’altro la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà ricordando che il Gambia è attualmente, 50 anni dopo la sua indipendenza, una delle nazioni più povere dell’Africa. Confinati “nel ghetto”, ai margini dell’onnipresente industria del turismo, a loro resta soltanto di poter sognare quella vita, la vita dei bianchi. A causa dell’illusione di un futuro migliore in relazione allo stile di vita dei turisti proprio accanto a loro, molti giovani scelgono di intraprendere la “back way”, ovvero la traversata che conduce in Europa con tutti i rischi che essa comporta. Come sottolinea uno dei ragazzi protagonisti del documentario: “i nostri ragazzi credono che l’Occidente sia migliore! Perché pensano che tutto quello che viene dall’Occidente sia meglio della propria cultura.”

Il merito di questo documentario è di mostrare una triste realtà legata anche alle conseguenze che il turismo occidentale ha portato in Gambia ma allo stesso tempo di porre l’accento sulla positività di questo popolo che continua a sorridere e a lottare e in questo senso l’onnipresenza della musica è capace di accompagnare lo spettatore lungo un viaggio fatto di emozioni tangibili. Welcome to the Smiling Coast: Living in the Gambian Ghetto è una storia di ambizioni, opportunità e tentazioni che trova nella creatività la chiave per la sopravvivenza.

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Realizzato dagli olandesi Bas Ackermann (regista) e Emiel Martens (produttore) in collaborazione con il Gambia Media House, con un budget minimo messo insieme dalle loro tasche, senza alcuna forma di sovvenzione, è stato senza dubbio una scommessa vincente. Il film è stato, infatti, presentato in prima mondiale al Pan African Film Festival di Los Angeles, il più grande festival del cinema nero negli Stati Uniti e dopo è stato proiettato in oltre 30 film festival ed eventi, tra cui la Premiere africana al AfricanBamba Human Rights Film Festival di Dakar, in Senegal, e la prima europea al Galway African Film Festival in Galway, Irlanda. Dice il regista Ackermann: “l’idea del film è nata circa otto anni fa, quando ero in Gambia un centro audiovisivo per i giovani con l’obiettivo di formarli come professionisti dei media. Alcuni di loro hanno lavorato come membri della truope in Welcome to the Smiling Coast come Pasquale Manka, ora uno dei principali produttori del suo paese. Mentre il produttore Martens sottolinea: “in tempi di immagini negative, in particolare intorno all’attuale crisi dei profughi, cerchiamo di dare un volto più umano e positivo dell’Africa e degli africani. Vogliamo anche mettere una nota critica circa l’impatto del turismo occidentale nei paesi non occidentali.”

Le ultime parole vorrei lasciarle proprio a due dei ragazzi intervistati nel documentario simbolo di un amore tormentato quando indissolubile con la propria terra: “in questo mondo oggi non c’è nessuna simpatia, nessuna pietà. Tutti vogliono andare in paradiso, ma nessuno vuole morire”.  “Ringraziamo Dio perché stiamo avendo la pace, lo sai. Ma la povertà è sempre più alta, questo è il problema. Però il Gambia è un paese dolce.”

Di Claudia La Ferla

Immagini prese dal Web.

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Una conversione opaca: il Gambia dopo Jammeh

28 mercoledì Mar 2018

Posted by cristallina555 in 2018, Africa, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Decolonizzazione, Gambia, Go Back to Your Country, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Stay Human, Tornate a Casa Vostra

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Adama Barrow, aiutiamoli a casa loro, Amnesty International, Commonwealth, ECOWAS, Gambia, NIA, Tornate a Casa Vostra, Yahya Jammeh

La Repubblica del Gambia si trova in Africa occidentale ed è uno dei più piccoli stati del continente. È circondata dal Senegal salvo il breve tratto in cui il fiume Gambia sfocia nell’Oceano Atlantico.
La sua capitale è Banjul, sulla riva sud del Gambia, ma i maggiori centri sono la vicina Serekunda, anch’essa affacciata sull’Atlantico e Brikama, poco più lontana dall’oceano.

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Fonte immagine Google Maps

La storia del Gambia affonda le sue radici nel commercio degli schiavi: per questo motivo, prima i portoghesi e poi gli inglesi, avevano bisogno di una colonia sul fiume spiegando, inoltre, la singolarità della forma dei confini di questo stato che sono tracciati a contorno dell’omonimo fiume che nasce nel vicino Senegal.

L’economia del Gambia è fondata sull’agricoltura e, in minima parte, anche pesca e turismo contribuiscono allo sviluppo del paese anche se circa un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
Il PIL (nominale) pro capite del Gambia (dato aggiornato al 2012), è pari a 497 dollari.

Alla fine del XVI secolo il Portogallo cedette i diritti di commercio sul Gambia a dei mercanti inglesi; da allora il paese ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito solo nel 1965, anno in cui entrò a far parte del Commonwealth.
Il paese è abitato da una grande varietà di gruppi etnici tra cui la religione maggiormente praticata è l’Islam. Il restante 10% della popolazione è cristiano. Dopo l’indipendenza il paese ha conosciuto un lungo periodo di relativa tranquillità, considerata la quasi assenza di scontri tra i diversi gruppi etnici e la grande tolleranza religiosa per cui, nonostante la stragrande maggioranza della popolazione sia musulmana, il paese riconosce come ufficiali le festività cristiane come quelle islamiche.

La stabilità politica venne meno trent’anni dopo l’indipendenza quando, nel luglio del 1994, un colpo di stato consegnò il potere nelle mani di Yahya Jammeh, secondo presidente del Gambia e capo del partito “Alleanza Patriottica per il Riorientamento e la Costruzione”. Nel 1996 Jammeh fu poi eletto con l’appoggio del proprio partito ma, nonostante l’elezione formalmente democratica, iniziò ad adottare una politica in contrasto con la difesa dei Diritti Umani facendo imprigionare e uccidere i propri oppositori ed espellendo i giornalisti stranieri.

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Yahya Jammeh ospite alla Casa Bianca nel 2014. Fonte -> https://www.ibtimes.co.in/gambian-president-yahya-jammeh-threatens-slit-throats-gay-men-country-632175

La dittatura di Jammeh, il quale afferma di avere poteri taumaturgici che guariscono dall’infertilità e dall’AIDS, è stata descritta dal relatore delle Nazioni Unite nel suo rapporto sul Gambia del 2014, come un regime che ricorre all’uso della tortura mediante pestaggi, scariche elettriche e soffocamento o annegamento in acqua bollente. Tra le numerose sparizioni forzate ci sarebbe anche un bambino.
Nello stesso 2014 entra in vigore una legge che prevede l’ergastolo per il reato di “omosessualità aggravata”, viene inoltre disposta la ripresa delle esecuzioni, annunciando l’ampliamento del numero dei reati per cui è prevista la pena di morte tra i quali il reato di “rendersi irreperibili” che, nel caso di un respingimento e di un conseguente rimpatrio, consegnerebbe alle autorità chi prova a fuggire.

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Jammeh ospite all’Eliseo nel 2013. Fonte -> http://uk.businessinsider.com/the-story-of-njaga-jagne-2015-1?IR=T

Nel 2013 Jammeh ritira il Gambia dal Commonwealth e, due anni più tardi, nel 2015 stabilisce che l’arabo debba sostituire l’inglese negli organismi statali e nell’ambito dell’istruzione pubblica nonostante l’arabo non sia la lingua madre di nessuna delle etnie gambiane. La decisione è probabilmente collegata agli investimenti di Libano, Giordania e Siria (prima della guerra) nei settori nevralgici dell’economia gambiana.

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Jammeh con Ma Ying-jeou, presidente della Repubblica di Cina dal 2008 al 2016. Fonte -> http://africanarguments.org/2016/01/28/why-does-jammeh-want-to-make-the-gambia-an-islamic-republic/

In seguito alle elezioni del dicembre 2016, Adama Barrow, un imprenditore e membro del Partito Democratico Unito rientrato in Gambia dalla Gran Bretagna dove viveva da molti anni, viene dichiarato vincitore delle presidenziali.
Jammeh ha prima dichiarato che si sarebbe ritirato a seguito della sconfitta ma ha poi considerato nulli i risultati chiedendo una seconda turnata elettorale e innescando una crisi costituzionale oltre che provocando l’intromissione da parte di una coalizione vicina all’ECOWAS.
Il 20 gennaio 2017, Jammeh ha annunciato che si sarebbe ritirato lasciando il paese e un mese dopo, il Gambia ha iniziato le procedure per la riammissione al Commonwealth.

Adama Barrow è diventato leader del suo partito nel 2016, dopo l’arresto del suo predecessore.
La sua campagna elettorale ha puntato molto l’attenzione sulla volontà di costruire un “Nuovo Gambia” ma è ancora presto per fare previsioni dopo ventidue anni di regime, basti ricordare che l’omosessualità in Gambia è ancora un reato.
Le prime iniziative del nuovo presidente, oltre al rientro tra i paesi del Commonwealth, riguardano una riforma dell’Agenzia Nazionale di Intelligence (NIA) e l’istituzione di una commissione per la riforma costituzionale, l’abolizione della pena di morte e l’istituzione di una commissione che provveda alle riparazioni nei confronti delle vittime della dittatura.
Purtroppo nel paese, nonostante sia formalmente vietata, l’infibulazione è ancora diffusa mentre l’aborto resta un reato.

Jammeh è partito per l’esilio in Guinea Equatoriale portando con sé l’1% del PIL nazionale in forma di denaro, automobili e svariati beni di lusso.

 

Approfondimenti:

Rapporto annuale  Poverty and Shared Prosperity (2016) della Banca Mondiale -> https://openknowledge.worldbank.org/bitstream/handle/10986/25078/9781464809583.pdf

Rapporto annuale di Amnesty International -> https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/africa/gambia/

Di Cristina Monasteri

A nameless happiness

23 venerdì Mar 2018

Posted by francescacola in 2018, Augusta, Babel, Children of Fortune, Go Back to Your Country, Mali, MariaGrazia Patania, Michelangelo Mignosa, Refugees Welcome, Testimonianze, Tornate a Casa Vostra, Translations

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Babel, Children of Fortune, English, Francesca Colantuoni, Go Back to Your Country, Mali, MariaGrazia Patania, Michelangelo Mignosa, Refugees Welcome, Stay Human, Traduzioni

ITA

30th May 2017

A few days ago, the brother of one of our Children of Fortune disembarked on the Apulian coast. We have been waiting for this news with anguish for months. The ordeal we went through since we found out that he was in Libya is finally over because we now know that: he is alive.

For months we received fragmented information and what we didn’t know we heard it on the news which terrified us: tortures, slave trade, shipwrecks.

Every Sunday, while we drank coffee after lunch, we looked at each other in silence, we would chat about anything until one of us touched the sore point.

Maria, when do you think he will arrive? I don’t know. But he will come, right? I don’t know. I told him not to do it. I know. We can only wait, eat your cookies.

*Photo Copyright: Michelangelo Mignosa

And he has finally arrived and we now hope that the bureaucracy will take him here and let him join our colourful family. The wait has a different flavour now: I think about the cakes I want to make for him, all the things he’ll need, the cloths, the notebooks to learn how to read and write and the love needed to mitigate his sorrow and nostalgia.

This is migration: families seeing their children leave without knowing if they’ll ever see them again, other families waiting for them without even knowing them, a sea that can swallow them and prolong this wait forever. It means looking terrified at a body bag and not knowing who’s inside. It means crying for every lost life and wondering why you are alive. It means drinking coffees that taste of poison and not having any answer to offer.

But it also means opening the curtains and the windows to let the fresh air in, making space in the heart for a new Child of Fortune and wondering if the best way to start his integration process is by offering him a lasagna or, since it’s summer and hot, a pistachio ice cream.

After all, sometimes migration rimes with a nameless happiness.

By Maria Grazia Patania

Translator Francesca Colantuoni

Le linee immaginarie si possono calpestare, le persone vanno salvate. Passaggio in Mali.

22 giovedì Mar 2018

Posted by cristallina555 in 2018, Anti-Militarismo, Arte, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Decolonizzazione, Frontiera, Islam, Mali, Olocausto del Mare, Refugees Welcome, Senza categoria, Tornate a Casa Vostra

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Le frontiere, materiali o mentali, di calce e mattoni o simboliche, sono a volte dei campi di battaglia, ma sono anche dei workshop creativi dell’arte del vivere insieme, dei terreni in cui vengono gettati e germogliano (consapevolmente o meno) i semi di forme future di umanità – Zygmunt Bauman

 

Guardo la carta geografica e, cercando il Mali, mi rendo conto di come siano lineari i suoi confini e quelli di molti altri paesi. Come se qualcuno, un bel giorno, avesse deciso di giocare a Risiko con l’Africa: “Toh! Da qui a qui è roba mia, oltre la linea è roba tua.”
Che cosa assurda i confini! Quando vengono tracciati con il righello, poi, mi rendo conto (ancor di più), di quanto siano arbitrari (e insensati). Certo, le etnie e le identità vanno riconosciute e rispettate; certo bisogna riconoscere ai popoli il diritto di appartenenza. Tutto vero, tutto giusto ma se l’idea di nazionalità per gli umani di serie B (i poveri), fosse un concetto utile a farli restare poveri laggiù, in un posto lontano che ci immaginiamo “con le capanne e i leoni della savana”?
Un posto lontano da noi “civilizzati” che i “nostri” poveri li multiamo per aver rovistato nella spazzatura (nella quale sicuramente troveranno i duecento euro per pagare la contravvenzione).

Non divaghiamo, oggi vi porto in Mali Continua a leggere →

Salviamo le persone, portiamole al sicuro. Tutte.

20 martedì Mar 2018

Posted by cristallina555 in 2018, Africa, Anti-Militarismo, Antifascismo, antisemifobia, antisemitismo, Apolidia, Asia, autodeterminazione, Balkan Route, Bambini soldato, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Decolonizzazione, DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO, Disobbedienza, Frontiera, Giulio Regeni, I figli della fortuna, Il silenzio dei vivi, Leva obbligatoria, Mali, Muros, Olocausto, Olocausto del Mare, Parole del Collettivo, R-esistenza, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Siria, Stati Uniti, Stay Human, Sudan, syria, Tornate a Casa Vostra

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Afghanistan, aiutiamoli a casa loro, Al Quaida, Algeria, Birmania, Buonsenso, Clandestino, Darfur, Documenti, Egitto, Iraq, ISIS, lagher, Libia, Manu Chao, Migrante, Thailandia, Turchia, Ucraina, Ungheria

clandestino

fonte: http://www.treccani.it/vocabolario/clandestino/

 

Contro il divieto delle autorità.

Di nascosto.

Illegalmente.

Il termine “clandestino” ha un impiego talmente ampio, come tutte le parole sdoganate dalla narrazione tossica della politica, da essere utilizzato per esprimere il disprezzo verso lo straniero sottolineando la mancanza di regolarità della presenza del detto “straniero sull’italico territorio”.
La malafede è talmente sfacciata che si fa molta attenzione a distinguere tra “immigrati regolari” e “clandestini” quando bisogna “cacciarli da casa nostra” perché non si dica che si tratta di razzismo bensì di “buonsenso”.
Se parliamo di dati effettivi, invece, numeri e percentuali vengono snocciolati al rialzo senza mai fare presente un aspetto che risulta alquanto banale e che, ancor di più per questo motivo, lascia basiti di fronte alla faciloneria con cui certe informazioni vengono dispensate, recepite, filtrate, assimilate: come si fa a parlare di dati se i clandestini, per definizione, sono nascosti?
Si può parlare di numeri quando si documentano gli sbarchi poiché dopo uno sbarco le persone vengono contate, vestite, registrate, fotografate, rifocillate, smistate, accolte. Non sono clandestini, lo diventano quando, senza documenti e incastrati nella zona d’ombra della burocrazia italiana, tentano di passare il confine con la Francia a piedi o sui tetti dei treni, o si nascondono nel retro di un camion per raggiungere le coste inglesi.

Clandestino rispetto a cosa? Rispetto a chi?
Quali sono le autorità riconosciute e da quali Stati europei sono riconosciute? Quali documenti sono validi nel nostro paese? Quali governi democratici sono stati destituiti? Quanti sono i paesi in guerra?
In quanti altri paesi sono presenti, invece, le milizie dei fondamentalisti religiosi?
Qual è il limite di sicurezza sotto il quale è considerata “legittima” una fuga dal proprio paese?
Quanto è stupido pensare che chi scappa stia abbandonando il proprio paese? Chi lo dice? Chi poi si lamenta degli italici cervelli in fuga? Chi è scappato e vive tuttora in Gran Bretagna dall’agosto del 1980 ed è nostalgico di un piccolo omino che si travestì da Carabiniere abbandonando il paese di cui era Duce, negli anni 40?

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La verità?
Tutti si possono spostare purché non siano poveri.

Perché pensiamo che sia giusto per gli altri esseri umani vivere in alcuni paesi quando noi europei non ci andremmo nemmeno in vacanza?

In Algeria sono presenti diversi gruppi islamici fondamentalisti, da Al Quaida ai gruppi militari affiliati all’IS. A fine febbraio, dopo l’uccisione di alcuni soldati, le autorità algerine hanno dispiegato altri cinquemila militari al confine con la Tunisia per rafforzare la sicurezza del paese nel quale il rischio terroristico continua a essere elevato.
In Egitto è in corso una “guerra contro il terrorismo” che porta a centinaia di sparizioni forzate perpetrate da parte dell’esercito (vedi l’approfondimento sul rapporto di Amnesty International).
In Libia è in corso una guerra civile e non sappiamo ancora quanto il paese si senta minacciato dalle dichiarazioni del fascista Di Stefano il quale vaneggiava di un protettorato su gran parte del territorio libico.
In Libia, inoltre, grazie ai trattati con l’Europa, ci sono i campi di concentramento. Non vogliamo esagerare, vorremmo poter dire che si tratta di uno scherzo, di un’infelice iperbole.
Invece, lo ripetiamo, in Libia ci sono i campi di concentramento per i migranti esattamente come fino agli anni Trenta ci sono stati i campi di concentramento (sedici in Libia ma anche in Eritrea e Somalia che, ricordiamo, erano tutte colonie italiane), per detenuti politici ma anche detenuti comuni, per tribù di ribelli e per i deportati.
Il Mali è travagliato da una guerra civile tra ribelli e forze governative che si protrae da sei anni. L’aiuto che è riuscita a dare l’Europa “a casa loro”? L’esercito francese con altre armi, altri spari, altri morti.
In Nigeria Boko Haram continua a seminare il terrore con attentati kamikaze in cui l’attentatore è solitamente una donna rapita mentre era a scuola.
Il Sudan è martoriato da anni da guerra e carestie. Le persone muoiono di fame in Darfur.

A Oriente la situazione è altrettanto drammatica.
La Siria è stata sventrata dalle bombe, rase al suolo le sue città, massacrata la popolazione civile.
La Turchia di Erdogan fa strage di curdi ad Afrin col prestesto di scacciare i terroristi e con la complicità di Europa, Russia e Stati Uniti.
Mi chiedo se l’angelo contro la guerra regalato dal Papa a Erdogan sia da prendere o meno come un insulto agli innocenti uccisi.
L’Afghanistan e l’Iraq stanno ancora pagando il prezzo della pace esportata dall’occidente a suon di bombe.
In Birmania le persone sono costrette a scappare per non finire vittime di una vera e propria pulizia etnica che continuiamo a ignorare.
La Thailandia è governata dall’esercito sin dal golpe di quattro anni fa.

L’Europa non può certo considerarsi lontana dai venti di guerra: non si parla quasi più di Ucraina ma il conflitto tra i ribelli sostenuti dal governo russo e le truppe del governo ucraino prosegue dal 2014.
Viktor Orban governa l’Ungheria dal 1998 e durante il suo ultimo mandato (iniziato nel 2014), ha messo in discussione la forma di governo occidentale di stampo democratico e liberale a favore di un nazionalismo autoritario che sfrutta ancora il terrore rosso in un abile azione demagogica in cui l’opposizione è pressoché inesistente (salvo il partito neofascista Jobbik).

Perché continuiamo a farci prendere in braccio dalla faciloneria e dalla disonestà di omuncoli che aspirano al potere sulle spalle dei poveri? La povertà non ha confini geografici nonostante si cerchi di nasconderla sotto i tappeti con Daspo insani e pericolosi i quali portano alla legittimazione della “pulizia strada per strada” molto redditizia in tempi di campagna elettorale e molto pericolosa allo stesso tempo.

Il Nazionalismo è una bandiera che nasconde ingiustizia sociale, fomenta l’ignoranza e asseconda le conclusioni facili, duali in cui c’è un buono e, per contrappeso, deve esserci un cattivo.
La fobia del terrorismo islamico ha portato al vero terrorismo italico. A farne le spese sono sempre gli Ultimi e gli Innocenti.
Riusciamo a capire che “aiutarli a casa loro” è una bestemmia contro il diritto alla vita?

L’unico modo per aiutarli a casa loro, in tutta onestà e in quanto cittadina di un paese che invecchia e muore (conviene anche a noi, suvvia), è di andare a prenderli.

Tutti.

Organizziamo voli charter per andare a prendere tutti: gli ultimi, i perseguitati, gli afflitti, i miti, i poveri di spirito, quelli che hanno fame e sete di giustizia. Non ci saranno irregolari, non ci saranno clandestini, non ci saranno altri sepolti nel cimitero del Mediterraneo, non ci saranno altri olocausti nei lagher libici, nelle gabbie Ungheresi, sui confini spinati dei balcani, non ci saranno bambini morti, generazioni cancellate, stupri di guerra, sparizioni forzate.
Pensate, non ci saranno più nemmeno i cocci delle fioriere.

Portiamoli al sicuro, salviamoli. Tutti.

di Cristina Monasteri

Tornate a casa vostra: i Figli della Fortuna spiegano la Guinea (Conakry)

19 lunedì Mar 2018

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Augusta, Guinea, I figli della fortuna, Maria Grazia Patania, Refugees, Refugees Welcome, Restiamo umani, Tornate a Casa Vostra

Dall’1 gennaio al 13 marzo 2018 sono sbarcate in italia 191 persone provenienti dalla Guinea (Conakry). Nel 2016 ne sono arrivate 13.342 contro le appena 2.800 del 2015 e le 19.305 del 2017 a testimonianza della crescita esponenziale di arrivi da questo paese. Consultando il sito dell’UNHCR, si vede chiaramente come nel periodo compreso fra gennaio 2017 e gennaio 2018 questa nazionalità sia la seconda registrata ai porti di sbarco dopo quella nigeriana.

A maggio 2017 l’UNICEF ha pubblicato un documento relativo ai minori non accompagnati provenienti da questo paese e compresi fra i 16 e i 17 anni su un campione rappresentativo di 71 persone intervistate dal mese di gennaio. Fra essi risulta che il 73% ha ricevuto una istruzione nel paese di origine e il 35% ha dichiarato di aver lavorato prima di giungere in Italia (principalmente lavori fisici e poco qualificati), mentre nell’ordine sono queste le motivazioni alla base della migrazione: persecuzioni politiche o religiose, mancanza di opportunità economiche, violenza domestica, limitato accesso all’istruzione, mancanza delle condizioni essenziali alla sopravvivenza. Pertanto, la decisione di andar via è dettata dalle seguenti aspirazioni: migliori opportunità economiche, migliore istruzione, rispetto dei diritti umani, protezione internazionale e amici nel paese di destinazione. Ad influenzare la decisione di partire è solitamente la famiglia, seguita da parenti e amici oltre ai media locali. Un ruolo di poco rilievo viene svolto dai social, citati solo nel 9% dei casi. La durata media del viaggio è un anno e due mesi fino all’arrivo in Italia e la quasi totalità dei minori (94%) ha intrapreso il viaggio completamente solo. Rispetto ai paesi di transito dove si sono fermati per oltre un mese, viene citato il Niger (39%) e la Libia (97%) dove il 66% degli intervistati è stato rapito e messo in prigione. Solo il 41% del campione intervistato aveva preso in considerazione i rischi relativi al viaggio (fra cui estorsioni, torture e annegamento) prima di intraprenderlo.

Alcuni di questi minori non accompagnati hanno deciso di farci conoscere il loro paese con un cartellone in cui hanno convogliato le informazioni che ritengono fondamentali. Di seguito i punti salienti tradotti in italiano.

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Due ragazzi della Guinea (Conakry) illustrano il cartellone che hanno preparato per spiegare il proprio paese a un gruppo di ospiti

Motto nazionale: Lavoro Giustizia Solidarietà

Inno nazionale: Liberté

Superficie totale: 245.857km2

Popolazione totale: 13.246.049 abitanti

Religione: 95% musulmani; 5% cristiani

Conakry è la capitale e la città più popolosa della Guinea con un porto internazionale che si affaccia sull’Oceano Atlantico

Risorse: riserva d’acqua dell’Africa occidentale; foreste, diamanti, bauxite (di cui è il primo paese esportatore e che serve per fabbricare l’alluminio), oro, ferro, nichel

Animali: montoni, vacche, leoni, asini, tigri, maiali, scimmie, cavalli, agnelli, capre, elefanti, giraffe, ecc

Risorse alimentari: mango (da marzo a agosto), arancia (giugno-settembre), Loukhouré (novembre-dicembre), limone (giugno-settembre), citrus tangelo-pompelmo e mandarino (ottobre-febbraio), ananas (tutto l’anno), Ziziphus, banana (tutto l’anno), papaya, tamarindo (gennaio-marzo), anacardi (febbraio-maggio), arachidi (febbraio-maggio), karité (settembre-novembre)

di Maria Grazia Patania

Torture e malnutrizione estrema: il volto disumano della migrazione forzata negli ultimi sbarchi in Sicilia

16 venerdì Mar 2018

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Augusta, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Porto di Augusta, Pozzallo, Refugees Welcome

Alle otto di mattina del 12 marzo 280 persone sono arrivate nel porto di Augusta dopo essere sopravvissute ad un viaggio che le ha messe a dura prova sia fisicamente che emotivamente. Fra loro 47 donne e 32 minori hanno ricevuto per la prima volta da tempo immemore cibo, acqua e cure mediche in un luogo che per loro resterà sempre simbolo di salvezza. Uno dei minori non accompagnati era Allah, 14 anni, libico e affetto da una leucemia incurabile nel suo paese sventrato da anni di conflitti fomentati dalle nostre democratiche armi. Allah era con due fratelli maggiori che, non vedendo altra soluzione plausibile all’orizzonte, hanno preso un barcone e 200 litri di benzina e hanno affrontato il mare di notte con un coraggio che non credevano di possedere.

La ONG spagnola, una organizzazione umanitaria che instancabile continua a riscattare vite dal Mediterraneo, li ha intercettati la notte del 10 marzo ed è riuscita a trasferirli a bordo prima che il mare li inghiottisse. In seguito, durante la giornata, ha assistito altre 106 persone alla deriva, fra cui molte donne incinte e minori non accompagnati, denunciando ancora una volta sia le terribili condizioni di salute che l’operato della Guardia Costiera Libica che, col plauso e l’appoggio dell’Europa, compie crimini contro l’umanità e abusi degni dei peggiori criminali nazisti. L’11 marzo Oscar Camps, fondatore di Proactiva OpenArms, annunciava che a 40 miglia dalla costa libica erano state intercettate 150 persone alla deriva e, mentre le lance di salvataggio si mettevano in mare per raggiungerle, si avvicinava anche una imbarcazione libica con a bordo solo armi, ma nessun giubbotto salvagente.

L’obiettivo? Riportarle in Libia per ricominciare il ciclo interminabile di torture ed estorsioni finalizzate a ottenere ulteriore denaro dalle famiglie delle vittime che, se incapaci di pagare, vengono brutalmente uccise o vendute come schiavi. Tutto questo con il beneplacito del nostro paese che ha lautamente elargito fondi, motovedette e training al personale libico. Tutto questo in assoluto spregio del Diritto Internazionale codificato che nel “non-refoulement” (non respingimento) trova uno dei principi fondanti e del fatto che la Libia, a cui abbiamo in pratica dato carta bianca nella gestione dei flussi migratori al suo interno, non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sullo Status di Rifugiato. Insomma, siamo disposti a qualunque cosa pur di non assumerci le nostre responsabilità per il salvataggio e l’accoglienza di queste migliaia di vite umane.

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Foto d’archivio_Photo Copyright: Francesco Malavolta

Quello stesso giorno le 108 persone a bordo della Open Arms sono state trasferite a bordo della Aquarius gestita da SOS Méditérranée e MSF dove avevano già trovato accoglienza altri 62 naufraghi precedentemente salvati dalla nave mercantile Asso Trenta in prossimità di una piattaforma petrolifera al largo della Libia. A quel punto, la Aquarius ha fatto rotta verso Augusta mentre la nave di Open Arms si dirigeva a Pozzallo, facendo sbarcare 93 sopravvissuti le cui condizioni fisiche e psicologiche ricordano tragicamente quelle dei prigionieri dei campi di concentramento nazisti.

Dopo la corsa contro il tempo del personale medico a bordo per assistere le emergenze più gravi, anche gli operatori di terra e le autorità locali hanno denunciato il diffuso stato di profonda denutrizione e le ferite delle torture o delle armi da fuoco riportate. Tuttavia, lo sbarco questa volta non ha rappresentato per tutti la fine dell’incubo e l’inizio di una seppur stentata vita nuova: se il piccolo Allah è stato subito assistito prima nell’ospedale di Augusta e poi a Catania, un altro ragazzo sbarcato a Pozzallo è morto poco dopo. Segen, 22 anni, eritreo era troppo deperito, troppo denutrito e il suo fisico troppo provato per farcela. Nemmeno il tempo di assaggiare la libertà, di sentirsi al sicuro, di toccare con mano quella salvezza per cui aveva sopportato l’insopportabile che Segen è morto di fame e problemi respiratori.

Nella Sicilia dell’abbondanza, nella terra in cui la convivialità è la base di ogni rapporto umano, nella regione conosciuta in tutto il mondo per la sua cucina, un ragazzo tocca terra e non riesce a rimanere in piedi perché gli mancano le forze e nessun alimento o farmaco può compensare la devastazione vissuta in un anno e 7 mesi di Libia. Volendo ricorrere a una simbologia del paradosso, possiamo concludere che abbiamo toccato il fondo e stiamo già scavando la nostra stessa fossa comune dove ci seppelliremo tutti e tutte insieme alla nostra umanità tradita.

Gli attuali flussi migratori, i conflitti in corso, le crisi umanitarie e le carestie che serpeggiano in tutto il pianeta costringendo masse sempre più ingenti di disperati a spostarsi per trovare sostentamento, salvezza e acqua potabile non hanno affatto compromesso il nostro sistema democratico, né l’economia mondiale, europea e italiana in particolare. Hanno piuttosto messo a nudo ciò che siamo veramente oltre i proclami, oltre l’illuminismo, oltre i diritti umani sbandierati nelle convenzioni, oltre le tutele millantate negli accordi fra paesi che lasciano circolare le merci e bloccano le persone, oltre Norimberga e Ginevra.

E così emerge la dura verità: siamo incapaci di vivere pacificamente, ma perfettamente in grado di chiudere gli occhi e silenziare la coscienza di fronte a un ragazzino di 14 anni che arriva su un gommone per curarsi o a un giovane eritreo di 22 anni che non conoscerà mai i sapori della nostra terra e della libertà che inseguiva. L’anno scorso nel solo mese di marzo sono sbarcate quasi 9mila persone in Italia, quest’anno solo 693 secondo i dati del Ministero degli interni italiano aggiornati al 13 marzo. Eppure nessun miglioramento si è registrato in Libia dove rimane bloccato un numero imprecisato di persone in condizioni da lager nazista, mentre una domanda dovrebbe tormentarci costantemente: dove sono gli altri?

di Maria Grazia Patania

*la foto non si riferisce ai salvataggi oggetto del post. L’articolo è stato pubblicato sull’edizione cartacea de La Civetta di Minerva

Storie Personali

15 giovedì Mar 2018

Posted by francescacola in 2018, Africa, Francesca Colantuoni, I figli della fortuna, Prigioni, Refugees Welcome, Restiamo umani, Stay Human, Tornate a Casa Vostra, Traduzioni

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Africa, Francesca Colantuoni, Guinea Conakry, Refugees Welcome, Restiamo umani, Stay Human, Stories, Testimonianze, Tornate a Casa Vostra, Traduzioni

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Due migranti ricevono cibo e acqua dall’organizzazione Al-Salam a Bani Walid, dove il nostro testimone è stato ridotto in schiavitù e torturato.

Migranti ridotti in schiavitù in Libia (1/2):

“Sono stato rapito, venduto e poi buttato in prigione”

La Libia è stata costretta a confrontarsi con le vergognose pratiche perpetrate al suo interno dopo la pubblicazione online a novembre di un video dell’emittente americana CNN che mostrava le immagini di un’asta per la vendita di schiavi. Il Team di Osservatori FRANCE 24 ha ricevuto diversi messaggi da persone che hanno dichiarato di essere state vittime del traffico di esseri umani, tra cui un uomo guineano che è ora tornato a vivere a Conakry, Guinea. Questo è il suo racconto.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazione (OIM) stima che ci sono tra 700,000 e 1 milione di migranti in Libia. Il traffico dei migranti è la seconda attività più lucrativa del Paese dopo il traffico illegale di petrolio e rappresenta tra il 5% e il 10% del PIL nazionale.

Nella prima delle due parti di questo rapporto, il nostro testimone, un guineano di 22 anni, descrive l’infernale esperienza vissuta in Libia. Nella seconda parte descrive la sua raccapricciante e disperata fuga.

“Il mio amico è stato torturato con scosse elettriche. È morto sotto i miei occhi”

Ousmane K., un guineano di 22 anni, è stato venduto come schiavo in Libia nell’estate del 2016.

[Potete vedere la rotta seguita da Ousmane su questa mappa interattiva. Ogni marcatore rosso rappresenta una parte del viaggio di Ousmane. Per ulteriori informazioni cliccare sui marcatori rossi.]

“Dopo aver affrontato numerosi ostacoli sulla rotta da Conakry a Agadez, sono arrivato a Bani Walid durante il Ramadan [giugno 2016]. Qui sono stato rapito, gettato in prigione e venduto dai sequestratori alle guardie della prigione”

Il nostro testimone non era presente al momento della transazione. Pensa di essere stato venduto alla guardia con tutti gli altri migranti del suo gruppo. Coloro che comprano i migranti fanno soldi ricattando le famiglie.

Le famiglie devono comprare la libertà dei loro cari – e se non hanno i soldi richiesti, le vittime vengono torturate.

“Sul tragitto per la prigione, due dei miei amici hanno provato a fuggire. Uno di loro ci è riuscito e ora vive in Germania. L’altro è stato ricatturato. L’ho visto mentre veniva legato ad un palo e poi torturato con scosse elettriche e picchiato [questo tipo di tortura sembra essere la più comune, secondo i testimoni oculari. Gli aguzzini collegano cavi elettrici alla pelle delle vittime o li avvolgono intorno alle loro gambe o braccia]. È morto dopo una lunga agonia sotto i miei occhi. Il suo cadavere non è stato toccato per tre giorni. Poi le guardie ci hanno detto di lasciare il suo corpo sul ciglio della strada.”

A Bani Walid, almeno due organizzazioni libiche provano a lavorare ed occuparsi dei migranti illegali vittime di torture, schiavitù e costretti alla prostituzione. L’organizzazione Al-Salam si occupa del ‘cimitero dei migranti’ – un pezzo di terra dove seppelliscono da 25 a 30 corpi al mese: le salme dei migranti lasciate sui cigli delle strade.

Un dignitario locale, Alhusain Khire, gestisce l’Hotel Ivoire, un rifugio per i migranti che sono scappati dalle prigioni. Qui si assicura che i migranti siano al sicuro e ricevano sostegno umanitario e cure mediche. In un rapporto del mezzo d’informazione francese France 2, ci spiega che gli individui che gestiscono queste prigioni illegali per i migranti sono ben radicati nella città, pertanto l’unica cosa che riesce a fare è fornire aiuto umanitario a queste persone solo dopo la loro fuga dalla prigionia.

“Questa prigione era una specie di hangar situata nella periferia della città. C’erano guardie armate e telecamere di sorveglianza. Direi che c’erano circa 200 persone all’interno. Non potevamo vedere il sole, non sapevamo mai che giorno fosse, ci privavano di cibo e acqua, non ci potevamo lavare. Facevamo lavori forzati – per esempio, mi hanno fatto trasportare massi pesanti o lavare tutti i tappeti nella casa del direttore della prigione.”

“Un amico è riuscito a nascondere un piccolo telefono cellulare permettendomi di avvertire la mia famiglia e indicargli dove mi trovavo. Una delle guardie ci ha scoperto, ha iniziato a sparare in aria e poi ci ha fatto mettere in fila. Voleva che gli dicessimo chi aveva il cellulare. Noi ci siamo rifiutati e lui ci ha picchiato; alcuni di noi sono stati puniti con scosse elettriche. Poi la persona che aveva il cellulare ha confessato. È stato picchiato “, continua il nostro testimone.

“Ci facevano chiamare i nostri genitori e contemporaneamente ci torturavano per spingerci a supplicarli di pagare il riscatto.”

“Le guardie ci dicevano che dovevamo aspettare lì prima di poter partire per Sabratah [una città sulla costa situata a circa 200 km a nord-ovest di Bani Walid e punto di partenza per il viaggio verso l’Italia]. Ci chiamavano uno per uno. Ci dicevano ‘Tranquillo, potrai partire’ ma poi ci mettevano tutti in una stanza, ci facevano chiamare i nostri genitori per spingerci a supplicarli di pagare il riscatto. Io non sono stato torturato perché i miei genitori hanno subito accettato di pagare 1,500 dollari [circa 1,200 euro]. Io sono uno dei pochi che è riuscito ad uscire da lì.

La mia famiglia ha fatto di tutto per trovare i soldi. Mio padre ha preso in prestito moltissimi soldi dai suoi amici e vicini.

Quelli che pagavano il riscatto erano un po’ più privilegiati degli altri prigionieri. Siamo diventati una specie di assistenti delle guardie e avevamo diritto a un po’ più di cibo degli altri – sostanzialmente riso con un po’ di sale. Io ero l’assistente di una guardia del Ciad.”

In Libia, i migranti venivano sempre privati dei loro cellulari. Il nostro testimone non ha potuto documentare la sua esperienza. Una volta tornato a Conakry, ha trovato il profilo Facebook di una delle guardie, un altro uomo guineano. La guardia aveva pubblicato sul suo profilo una foto (successivamente cancellata) dove era con il direttore della prigione, un uomo conosciuto come Abdulkarim.

“Grazie alla mia posizione all’interno della prigione, un giorno mi è stato permesso di andare in città con la guardia del Ciad. Sono riuscito a chiamare i miei genitori e trovare persone che mi aiutassero a fuggire. Il manager della prigione mi ha scoperto e ha chiesto ai miei genitori altri soldi per lasciarmi andare. Hanno dovuto pagare altri 1,000 dollari [930 euro]. Ma ovviamente non sono stato liberato.”

Di Liselotte Mas  
Traduzione di F. Colantuoni

Il cinema aiuta a pensare: Cheick Fantamady Camara

15 giovedì Mar 2018

Posted by claudialaferla in 2018, Africa, Cinema, Cinema africano, Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, Senza categoria, Tornate a Casa Vostra

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Africa, Cheick Fantamady Camara, Cinema, Cinema africano, Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, Guinea, Morbayassa, Tornate a Casa Vostra

Cheick Fantamady Camara è stato un regista e attore guineano scomparso, purtroppo, il 7 gennaio del 2017. Nato nel 1960 a Conakry, Camara ha iniziato la sua carriera da  autodidatta per poi dedicarsi alla regia dopo aver frequentato un corso di sceneggiatura all’INA e uno di regia all’Ecole Nationale Louis Lumière. Gira nel 2000 Konorofili, il suo primo cortometraggio, seguito nel 2004 da Bé Kunko. Nel 2007 gira, invece,  Il va pleuvoir sur Conakry (Pioverà su Conakry), suo primo lungometraggio, che gli vale il Prix Ousmane Sembène nel 2008 a Khouribga, in Marocco e il premio del pubblico RFI al Fespaco 2007. Un importante Festival quest’ultimo, dedicato alle eccellenze del cinema africano, istituito nel 1969 e organizzato ogni due anni a Ouagadougou (Burkina Faso), che si è affermato come vetrina essenziale per molti giovani professionisti. Oltre a premiare i migliori film, attori e registi, il Fespaco è anche sede di necessari dibattiti e riflessioni su tematiche legate all’attualità africana, promuovendo il cinema come strumento per risvegliare la coscienza dei popoli africani.

La pellicola Il va pleuvoir sur Conakry è una co-produzione tra Guinea, Burkina Faso e Francia e porta sul grande schermo la storia d’amore tra un giornalista e una programmatrice di computer all’interno di un intricato panorama politico-religioso. Bibi, vignettista satirico e la sua compagna Kesso, aspettano un figlio ma il padre di Bibi, imam del villaggio, non accetta che questo bambino nasca fuori del matrimonio, imponendo al figlio, come vuole la tradizione, di recarsi in Arabia. Bibi non vuole, però, piegarsi agli antichi costumi e sceglie di ribellarsi. Il film si pone come denuncia degli intricati legami che uniscono stato e religione all’interno di un gioco di potere che mira a mantenere lo status quo e a frenare lo sviluppo. Ciò che ne consegue è l’evidente paralisi di moltissimi villaggi africani. Il va pleuvoir sur Conakry, presentato al Festival di Cannes del 2007, è stata una pellicola molto apprezzata anche all’interno delle numerose manifestazioni cinematografiche a cui ha partecipato, vincendo tra l’altro il premio del pubblico al Festival del Cinama Africano di Verona.

Cheick-FantamadyCheick Fantamady Camara

Senza ombra di dubbio, però, per Cheick Fantamady Camara la notorietà arriva nel 2014 con la sua seconda opera:  Morbayassa. Si può considerare un film difficile dal punto di vista produttivo per due ragioni: i tempi lunghi e il budget che stentava ad arrivare.  Le riprese sono, infatti, iniziate già nel 2010 e Camara è stato costretto ad autoprodurlo parzialmente con  i ricavi della pellicola precedente, Il va pleuvoir sur Conakry. Anche questo film ha concorso al Fespaco, ottenendo nel 2015 il premio Paul Robeson e permettendo al regista di ritagliarsi di diritto un posto all’interno della cinematografia africana. Morbayassa racconta la storia di Bella, una giovane donna della Guinea che lavora a Dakar in un cabaret gestito da mafiosi di Kèba, i quali la costringono a prostituirsi. La sola speranza di abbandonare quel posto e salvarsi è quella di guadagnare abbastanza soldi per poter scappare e andare cercare sua figlia. Quando era solo una ragazzina, infatti, l’aveva dovuta abbandonare, poco dopo il parto, in un orfanotrofio. Una sera incontra un collaboratore delle Nazioni Unite suo connazionale, Yelo, il quale, innamoratosi di lei, la spinge a fuggire da Kèba. Bella, inizia così una nuova vita che la porta a riappropriarsi del suo nome di nascita, Koumba, e la conduce lungo un epico viaggio di redenzione dalla Guinea a Parigi alla ricerca di sua figlia, adottata da una coppia dell’alta borghesia parigina.

Il titolo Morbayassa fa riferimento ad una leggenda che affonda le sue radici nella magia e nel rito. Con questo termine si indica una danza gioisa mandinga la cui etimologia del vocabolo deriva dall’unione dei nomi di una coppia: Mori (marito) e Yassa (moglie). Il rituale viene eseguito dalle donne che hanno avuto problemi durante il parto o che si sono ricongiunte a un figlio dopo una lunga separazione. Il regista, per questo film, trae ispirazione da un racconto personale ma compie una operazione molto efficace: innesta la modernità del suo pensiero di denuncia politico-culturale nella tradizione della religione animista e del culto feticista.

Danse-Morbayassa-Guine72Scena tratta dal film. Danza Morbayassa

Il film delinea l’affresco di una donna coraggiosa che sfugge al proprio destino per ricongiungersi alla figlia perduta e si pone come celebrazione di un punto di vista ben specifico: quello delle donne ma anche quello dell’Africa. In Morbayassa sono, infatti, le donne a portare avanti l’azione, costringendo gli uomini a un ruolo subordinato e quasi del tutto complementare e secondario. Il ruolo della protagonista è affidato alla cantante maliana Fatoumata Diawara, alla quale va il merito di aver saputo interpretare un personaggio di spessore, articolato su più livelli e costruito secondo diverse sfumature: prostituta, madre, donna. Proprio alla protagonista è affidata la necessità di riscatto e la possibilità di cambiamento in quanto con la forza che contraddistingue moltissime delle figure femminili all’interno della cinematografia africana, è una donna che lotta per la sua libertà e in nome di un amore indissolubile: quello tra una madre e sua figlia. Liberandosi dalle catene del passato, diventa simbolo della lotta per un futuro diverso e soprattutto, in un senso più ampio, metafora di un’Africa che non si arrende e rivendica la possibilità di liberarsi dalla schiavitù della fame, della povertà, della morte, della guerra. Precisa lo stesso Cheick Fantamady Camara: “l’Africa è il solo continente che ha un vissuto atroce, è la preda degli avvoltoi ma essa rifiuta di morire”.

Come Il va pleuvoir sur Conakr, anche Morbayassa è un film di denuncia e lo si può ben comprendere in battute come “noi facciamo lo stesso mestiere: voi alle Nazioni Unite siete i papponi dei capi di Stato”, oppure “l’Africa è una cosa, gli Africani sono un’altra cosa!”, facendo riferimento all’ipocrisia occidentale ma anche all’immobilità dell’Onu davanti a molte questioni sferrando, così, un attacco alle istituzioni internazionali. Ma non è tutto, Cheick Fantamady Camara prende di mira anche le istituzioni africane facendo diretti riferimenti alla loro corruzione e all’incapacità di portare il popolo ad un degno sviluppo.

Come diceva spesso lo stesso Camara: “Il cinema non ha mai cambiato nessuno, ma aiuta a pensare”.

Di Claudia La Ferla

Foto prese dal Web.

 

Aginaw – Breve viaggio in Guinea Conakry

14 mercoledì Mar 2018

Posted by cristallina555 in 2018, Africa, autodeterminazione, Collettivo Antigone, I figli della fortuna, R-esistenza, Razzismo, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Tornate a Casa Vostra

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a casa loro, Aboubacar Camara, Africa, aiutiamoli a casa loro, Alpha Condé, Amnesty International, casa loro, Conakry, Guinea, La voix du peuple, Tornate a Casa Vostra

La Guinea è uno stato dell’Africa occidentale che si affaccia sull’Oceano Atlantico e confina con Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Liberia, Sierra Leone e Guinea Bissau.
Il nome deriva dal berbero aginaw il cui significato originario è “terra dei negri” (adottato dai portoghesi)

Guinea_C

fonte: Google Maps

Spopolata dalla tratta degli schiavi, la Guinea è stata colonia francese dal 1890 al 1958, anno in cui ha avuto inizio il governo non democratico di Ahmed Sékou Touré, in carica fino al 1984. La forma non democratica di governo, diciamo pure dittatoriale considerato il controllo sui media, prosegue con Lansana Conté fino al 2008, anno della sua morte. Continua a leggere →

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