Per realizzare Fuocoammare Rosi si è trasferito per più di un anno sull’isola di Lampedusa tendendo fede al suo metodo di totale immersione consistente in una lunga preparazione e ambientazione, incontro con la comunità, identificazione di alcuni personaggi, mesi di riprese in cui che consegnano la sensazione di una camera mimetizzata nella quotidianità. Questo approccio permette, attraverso il racconto dei destini diversi di chi sull’isola ci abita da sempre e di chi ci arriva approdando ad un sogno di speranza, di compiere una reale e profonda esperienza: la vita in uno dei confini più simbolici e tragici d’Europa. Rosi ha insistito che anche il suo montatore, Jacopo Quadri, montasse il film a Lampedusa, invece che a Cinecittà seguendo uno stile che è quello del cinema diretto: nessuna voce over, nessuna musica.
Protagonista del documentario è prima di tutto l’isola di Lampedusa, scissa in due diverse facce che si incontrano solo nella figura del medico locale, il quale in un momento di forte coinvolgimento, esibisce il significato profondo di accogliere e curare i migranti, o troppo spesso di constatarne la morte, una morte a cui non ci si abitua mai. Rosi consegna, infatti, da un lato l’immagine di una Lampedusa calata nella quotidianità e scandita della pesca, dalla vita di famiglia, da una trasmissione radiofonica e dal girovagare di un ragazzino che appare anacronistico nel suo modo di crescere e giocare (vengono esclusi del tutto computer e cellulare). Dall’altro lato c’è la Lampedusa dei migranti, delle navi che individuano e assistono gli scafi in cui sono stati ammassati, dei militari e dei carabinieri per lo più senza volto perché sempre coperti da maschere igieniche. Come già accadeva nel film precedente Sacro GRA vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2013, Rosi presta attenzione ad alcuni personaggi e alle loro storie caratterizzate dal consueto montaggio alternato. Fuocoammare intreccia la vita di Samuele, un ragazzino di dodici anni, alle prese con i compiti e le esperienze in campagne, appassionato di tiro con la fionda e con un occhio pigro, figlio di pescatori ma sofferente di mal di mare. A Samuele piacciono i giochi di terra, anche se si scontra con una realtà che parla di mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Intorno a lui le figure del padre, pescatore, uomo schivo con una profonda tristezza negli occhi, che racconta al figlio le lunghe uscite dei pescherecci di una volta quando rimanevano anche sei mesi senza toccare quasi mai terra e la nonna che passa tutto il tempo a cucinare e a fare altri lavori domestici. Intorno a loro altre figure caratterizzano lo scorrere del tempo quasi fiabesco dell’isola di Lampedusa congelata quasi in un tempo – non-tempo: un sub in cerca di ricci, Peppe il deejay che porta avanti da solo la radio dell’isola, una donna devota di padre Pio che gli richiede brani musicali e le voci disperate verso la guardia costiera che fanno eco in quest’isola solo apparentemente tranquilla, attraversata da una tristezza che forse solo i bambini come Samuele non sono ancora in grado di percepire. Su questo sfondo irrompe la drammaticità degli sbarchi, con le stive piene di corpi, le persone disidratate e i morti, quelli che come ricorda il medico non ci si può abituare, perché se un uomo è veramente degno di chiamarsi tale non può non aiutare queste persone. In questo senso Samuele e i lampedusani diventano testimoni a volte inconsapevoli, a volte inermi, a volte attivi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi, in cui tra l’altro elementi come il mal di mare di Samuele e il suo occhio pigro diventano fortemente metaforici. Le immagini hanno spesso la composizione del dipinto, il montaggio è sapiente e il coinvolgimento dello spettatore veicolato con pudore e rispetto. Uno dei vantaggi che ha il cinema rispetto al giornalismo è la vicinanza diretta e la possibilità di concedersi il proprio tempo e il proprio spazio, andando oltre il reportage. Ciò che ne consegue, tuttavia, è l’impressione di avere due diversi film: uno in cui prevale il documento (i migranti) l’altro in cui prevale la ricostruzione secondo un modello che si potrebbe considerare neorealista. Proprio in questo senso è di particolare efficacia il momento in cui i migranti giunti sull’isola pregano cantando rievocando la loro odissea e racconta il loro tragico viaggio attraverso un toccante rap nel centro di accoglienza.
In Fuocoammare sono presenti tutti i quattro elementi: la terra (un’isola al largo dell’Africa); il fuoco (ripreso dal titolo e ricorda quello delle guerre); l’aria (si indugia spesso su un cielo nuvoloso e piovoso); l’acqua (il mare, fonte di vita e incontri diventato il cimitero di oltre quindicimila persone in fuga dalle loro terre).
Fuocoammare non può essere definito un vero e proprio documentario, quanto meno nel senso in cui i canoni di categoria ci hanno abituato, poiché finzione e realtà si fondono ibridandosi. Quello a cui assistiamo è un cinema di montaggio usato in chiave creativa attraverso rimandi, allusioni e suggestioni. Non è esattamente chiaro quanto di ciò che i personaggi dicono o fanno sia spontaneo, aleggia sempre l’intervento dell’autore che interagisce con la realtà. Ne è un esempio la sequenza in cui si spiega il titolo in cui la nonna di Samuele spiega che il maltempo non è buono per chi sta in mare a pesca; sembra tempo di guerra, quando c’era “il fuoco a mare”. Da qui Rosi opera uno stacco verso la signora fa una richiesta telefonica alla radio: la canzone Fuocoammare.
Alcune scene del finale sono state contestate, accusando Rosi di superare il confine tra ciò che è lecito o non lecito mostrare. Il regista, infatti, riprende alcune salme già chiuse in sacchi, issate sul ponte di una nave militare, poi entra nella stiva di un barcone alla deriva dove si trovano altri cadaveri. Successivamente torna all’esterno e indugia sul cielo velato e inquadra un’eclissi parziale di sole e attraverso l’efficacia dell’utilizzo del montaggio in funzione creativa e narrativa consegna una chiara allusione. Rosi poi torna di nuovo a terra per mostrare uno dei momenti più poetici del film: Samuele trova un uccello in un rovo, gli si avvicina fischiando e l’uccello risponde quasi i due potessero veramente comprendersi. Per una volta le barriere si abbattono e i giochi di guerra fanno spazio ad una apertura verso la comunicazione e la comprensione. Rosi con Fuocoammare fa una scelta ben precisa e forse la più necessaria: mostrare una realtà con cui dobbiamo necessariamente fare i conti e che non può essere rimossa perché non si tratta di numeri ma di vite meritevoli di dignità e valore.
Foto prese dal web.
Di Claudia La Ferla.