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Collettivo Antigone

~ Proteggere e custodire le leggi naturali di ogni essere vivente

Collettivo Antigone

Archivi della categoria: Mostre fotografiche

EXODOS – rotte migratorie, storie di persone, arrivi, inclusione

01 mercoledì Feb 2017

Posted by cristallina555 in 2017, Apolidia, Balkan Route, Cristina Monasteri, Mostre fotografiche, Periferie urbane, R-esistenza, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Testimonianze, Torino

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Calais, Exodos, Giorgio Bocca, Idomeni, jungle, lampedusa, Piazza Castello, Regione Piemonte, Sala Mostre, Ventimiglia

Torino – L’Associazione Allievi del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” ha inaugurato, lunedì 24 gennaio presso la Sala Mostre del Palazzo della Regione Piemonte, in piazza Castello 165, una mostra fotografica che documenta il tema dei flussi migratori attraverso i lavori di fotografi e video maker che hanno raccontato, attraverso i loro reportage, i momenti più drammatici degli ultimi tre anni nei campi per rifugiati in Grecia, nella jungle di Calais, a Lampedusa, Ventimiglia e Idomeni.

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Colori, cambiamenti

21 mercoledì Set 2016

Posted by cristallina555 in 2016, Ambiente, Arte, Bologna, Claudio Beorchia, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Disobbedienza, Francesco Malavolta, Mostre fotografiche, No Tav, Olocausto, Olocausto del Mare, Palermo, Photography, R-esistenza, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Sostenibilità, Street Art, Torino

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ambiente, Arte, bellezza, Blu, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Francesco Malavolta

A coloro che, attraverso lenti a vapore, scoprono le stelle e navigano nel filo del vento
George. G. N. Byron

Rosa quarzo, Azzurro Serenity, Orange Peach, Giallo sole, Verde equatoriale, Lilla, Blu elettrico, Blu Navy, Sun set, Scarlatto: questi i colori trend per la primavera/estate 2016; una stagione che stiamo per archiviare insieme alle foto scattate in vacanza: quelle in cui mostriamo leccornie ordinate al ristorante o quelle che ci immortalano a mezz’aria mentre saltiamo sul bagnasciuga manco fossimo Kaori nella pubblicità del Philadelphia.

Oppure.

Oro-coperta termica,
Blu,
Argento-filo spinato.

 

Oro.

mal

La coperta isotermica (detta anche telino isotermico o metallina) è un presidio medicale utilizzato per la stabilizzazione termica dell’organismo. Trattiene il calore in caso di ipotermia e lo riflette in caso di colpi di calore. Foto copyright di Francesco Malavolta

Un materiale estremamente evocativo ed emblematico dei nostri tempi: così Claudio Beorchia definisce i teli oro e argento che dal 2011 impiega per le sue installazioni. Il suo progetto State of Emergency colpisce sin dal nome perché amplifica lo stridore tra due concetti in contrapposizione. Beorchia, infatti, ama i giochi di parole che sfruttano i doppi significati e diversi piani d’interpretazione. Stato. Una condizione, ma anche un luogo delimitato da confini, un territorio organizzato, regolato da norme e convenzioni. Un dato di fatto, una costante. Emergenza, invece, è una parola improcrastinabile e improvvisa: evoca il ritmo incessante che sta dietro l’urgenza, rapidità; chiama in risposta una organizzazione straordinaria per far fronte allo stravolgimento rispetto a una situazione di continuità. L’artista ci provoca e interroga il lessico prima ancora della nostra capacità interpretativa. Vuole che ci chiediamo se si possa ancora parlare di emergenza quando ci interroghiamo su flussi migratori che proseguono da anni, coinvolgendo milioni di persone.
Un lustro è passato da quando Beorchia ha cominciato, con il suo lavoro, a scardinare la percezione secondo cui ogni sbarco sia fine a se stesso, slegato dalle dinamiche che hanno portato alla crisi e, quindi, impossibile da risolvere. Non siamo in uno stato di emergenza e questo è un olocausto. Il concetto di trasformare i teli isotermici in bandiere nazionali nasce a Torino ma è a Gibellina, in occasione di una residenza artistica, che prende vita l’idea di sostituire la bandiera europea con un’ inconsistente omologa d’oro e argento. La bandiera è stata poi issata in altre città del Belice tra cui Castelvetrano e Partanna ma anche a Lampedusa finché il 21 aprile scorso l’artista, insieme al sindaco di Palermo Leoluca Orlando, ha partecipato al fissaggio della sua Coperta/Bandiera presso la sede del Comune.

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Coperta/Bandiera – Palazzo delle Aquile, Palermo

 

Per Claudio Beorchia è di fondamentale importanza che le istituzioni partecipino all’esposizione pubblica della Coperta/Bandiera poiché è necessario tracciare un percorso che da Lampedusa arrivi al cuore dell’Europa la quale non si è dimostrata all’altezza del compito che la Storia le ha assegnato. In proposito vorrei riportare uno stralcio della lettera che Orlando ha indirizzato al Presidente del Parlamento europeo Schulz, al Presidente della Commissione europea Juncker e all’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Mogherini: “Ancora una volta l’Arte è più avanti di meschinerie di Stati e degli egoismi finanziari e la città di Palermo vuole denunciare il genocidio in atto, del quale un giorno l’Europa potrà essere chiamata responsabile come dopo 70 anni italiani e tedeschi siamo chiamati responsabili del genocidio nazifascista.” State of Emergency è un progetto viaggiante. La foto ufficiale, scattata in occasione dell’evento di Palermo è stata esposta a Malaga, in occasione del UPHO Festival e a Salonicco per Urban Layers: “Identity Flows”: festival en plain air, allestiti per le strade delle città che li ospitano. Il 3 settembre Coperta/Bandiera è stata issata presso il Palazzo dei Celestini, sede della Provincia di Lecce: qui l’ultima tappa in occasione di Bitume Photofest che ha anche ospitato la foto in grande formato già esposta in Spagna e Grecia.

Coperta/Bandiera fonde forma e contenuto fino al punto di non riuscire a scindere l’una dall’altro. Due facce dello stesso foglio. Una scalda, l’altra isola. Sfruttando le caratteristiche fisiche e la potenzialità evocativa del materiale isotermico, l’artista nel 2015 ha vinto la quarta edizione di Un’Opera per il Castello, concorso organizzato per Castel Sant’Elmo a Napoli, il cui tema Lo spazio della Comunicazione. Connessione e condivisione è stato espresso al meglio da Beorchia con l’opera Il Tesoro. Uno scoglio coperto del solito materiale ultra leggero. Un colore che si presenta costantemente per proteggere, delimitare, identificare. Il Tesoro è un grande scoglio ma stupisce per la sua inconsistenza, è un’evanescenza che gioca con l’aria spostata dal corpo del visitatore producendo suono all’interno dell’ambiente per l’esposizione permanente ad esso dedicato. Uno scoglio che evoca l’idea del viaggio ma, soprattutto, la speranza di un approdo.

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Il Tesoro – Castel Sant’Elmo, Napoli

 

 

Blu.

Blu Bondi. Blu di Persia, di Prussia. Blu Savoia, Tiffany, Cobalto. Blu fiordaliso. Blu marino. Blu oltremare. Blu scuro, blu elettrico, blu notte. Blu, lo street artist italiano che vive nell’anonimato e che qualche mese fa ha fatto parlare di sé per aver coperto con una mano di grigio i suoi lavori bolognesi. Blu non è pazzo, tantomeno ingrato. È, bensì, uno degli artisti che più mi stanno a cuore per la coerenza e il rigore dimostrati sempre, in ogni luogo abbia avuto occasione di lavorare, mettendo a disposizione di tutti la sua arte ed è proprio questo il motivo per cui ha deciso di cancellare i suoi murales. Ma dico: ve lo immaginate quanto deve essere difficile per un artista cancellare un proprio lavoro? Un’opera concepita, maturata, ripensata, immaginata, realizzata, partorita? Eppure c’è qualcosa di più forte della rinuncia: il rifiuto alla prepotenza, alla prevaricazione, all’impudenza. Ve la ricordate la mostra Banksy & Co, allestita a Bologna da marzo a giugno di quest’anno? Patrocinata da Genus Bononiae, la mostra ha rinchiuso tra quattro mura ciò che è nato per stare per la strada, sui muri scalcinati e nei palazzi abbandonati e sui vagoni dei treni e nei parchi, sulle scuole e davanti alle scuole. Chiudere la street art in un museo significa staccare le opere dai muri, strapparle dagli ambienti in cui sono state pensate e integrate; significa decontestualizzare. L’associazione che ha rimosso i lavori dalle pareti di Bologna ne è di conseguenza diventata proprietaria e non potendo venderle da Statuto, potrà lucrare sugli ingressi alla mostra (13 euro, per persona). Fabio Roversi-Monaco ha risposto alle critiche difendendo la legittimità dell’intervento di spoliazione poiché si tratterebbe, secondo il presidente di Genus Bononiae – Musei nella città, di opere abusive che vengono acquisite da chiunque compri il muro su cui sono ospitate. La protesta di Blu è arte quanto lo sono i suoi murales. Si tratta di conflitto, rifiuto, resistenza contro le logiche di quella parte di società che ha sposato e spostato gli ideali capitalisti anche nei contesti nati per opporvisi. Chiudere la street art in un museo è come tenere in cattività un grande squalo bianco: lo si uccide.

Come membro del Collettivo Antigone mi sono occupata di Tav e Resistenza al Tav e, in proposito, vorrei sottoporre all’attenzione dei lettori un murale realizzato dall’artista in Val di Susa. La realizzazione dell’opera è iniziata nel 2015 ma, dopo l’intervento della polizia, Blu ha dovuto interrompere i lavori. Il murale di Chiomonte è stato completato alla fine di aprile di quest’anno. Alta Voracità rappresenta le figure istituzionali e professionali coinvolte nei lavori per il treno ad alta velocità. Dal politico all’operaio, dal poliziotto al giudice. Posti ginocchioni e in fila indiana, tutti ingurgitano risorse naturali per defecare denaro.

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Alta Voracità – Chiomonte, Val Susa. Fonte: http://blublu.org/sito/blog/?p=2751 

 

 

Argento.

Siamo tutt* clandestin* è lo slogan che ha accompagnato la manifestazione No Borders organizzata a Roma lo scorso Maggio. I partecipanti hanno portato tende, giubbotti di salvataggio e porzioni di filo spinato come simboli della protesta contro la chiusura delle frontiere e contro l’accordo tra Turchia e Unione Europea (un approfondimento in proposito, curato da Maria Grazia Patania e Claudia La Ferla, lo trovate qui).

Si è tanto parlato di lifejackets e altri dispositivi di salvamento ma il filo spinato, giustamente affiancato a oggetti evocativi per quella che è la situazione in cui si trovano i rifugiati, si allontana molto dalla sfera di significato richiamata dai giubbotti arancioni o dalle coperte dorate perché il filo spinato non è un dispositivo umanitario. Non è fatto per proteggere, bensì per imprigionare. Nato alla fine dell’800 viene descritto dal suo inventore come l’accostamento di due fili di ferro e una serie di spine e avrebbe dovuto tenere il bestiame fuori dei campi coltivati. Il bestiame e gli indiani, ça va sans dire. Dopo l’impiego durante la guerra di secessione americana, la consacrazione del filo spinato arriva con la prima guerra mondiale e le decine di migliaia di chilometri di trincee scavate durante gli scontri che dilaniarono l’Europa tra il 1914 e il 1918.

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Filo spinato

 

Il modello classico di filo spinato è facilmente valicabile dagli uomini, per cui è stato inventato il nastro spinato nel quale le spine sono state rimpiazzate da lame. Lame che squarciano la pelle. Più ci si divincola, più ci si ferisce, si sanguina.

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Nastro spinato

 

Dopo l’intensificazione dei controlli all’ingresso di molti paesi europei tra cui Francia, Norvegia, Svezia e Danimarca è stata la volta dell’Austria e della Slovenia che hanno annunciato un tetto massimo giornaliero di accoglienza per i rifugiati e i richiedenti asilo. L’Ungheria ha costruito barriere lungo il confine con Serbia e Croazia, un muro è stato eretto tra la Bulgaria e la Turchia. L’Estonia si prepara alla realizzazione di una barriera lungo il confine con la Russia e la Macedonia; già dal novembre scorso, ha innalzato una barriera al confine con la Grecia. Anche il Regno Unito, reduce dal referendum sulla Brexit, ha annunciato la costruzione di un muro per arginare i flussi in partenza da Calais, sulla costa francese.
L’unico fabbricante di filo spinato in Europa, così come si legge nel sito dell’azienda, è la European Security Fencing. Gli specialisti della sicurezza passiva. L’impresa nasce nel 2003 e fa parte del gruppo Mora Salazar Cercados, fondato nel 1975 e specializzato nella produzione di materiali di contenimento quali reti, recinzioni, porte e barriere metalliche. Con sedi a Màlaga e Berlino, la ESF vanta tra i propri clienti la Repsol, la NATO, alcuni ministeri spagnoli, l’Ungheria che ha commissionato più di centosettanta chilometri di nastro spinato, la Serbia, la Macedonia, la Polonia, la Turchia, il Marocco, Ceuta, Melilla. Come riportato dal sito dell’azienda, sono più di venti i paesi in cui questi prodotti vengono esportati.

La scorsa estate, in seguito a una gara d’appalto indetta dal governo ungherese per la fornitura di quaranta chilometri di nastro spinato, viene contattata anche la Mutanox. Si tratta di una piccola azienda tedesca di proprietà del signor Talat Deger che da bambino è emigrato in Germania, dalla Turchia. La Mutanox ha 15 dipendenti e si trova nel quartiere turco di Berlino. La commessa avrebbe portato nelle casse dell’azienda una cifra pari a cinquecento mila euro, ma il signor Talat Deger non ha accettato il lavoro. Un uomo che ha conosciuto in prima persona il dramma dell’immigrazione e che è cresciuto in una Berlino spaccata da un muro costruito in una notte, ha scelto di non rendersi complice di quella che è una gravissima violazione del diritto alla vita.

Talat Deger non si sente orgoglioso poiché si è semplicemente comportato da essere umano, perché “bloccare quei disperati è omicidio”.

di Cristina Monasteri

 


Questo pezzo è stato scritto per esprimere il malessere che provo ogni volta che mi scontro con chi non ha più domande ma tanto fiato per urlare risposte stereotipate e prive di spunti personali.
Attraverso un percorso partito dalle opere dorate di Claudio Beorchia, ho sentito la necessità di seguire il fil rouge della resistenza che, anche in questo viaggio, diventa la vera protagonista.
Ogni volta che un uomo si ribella alle leggi scritte dall’uomo per difendere il sacrosanto diritto alla vita, io sento che non è finita. Sento l’urgenza di raccontare queste storie perché è ora di scegliere da noi quali modelli seguire.
Scegliamo l’oro, non il giallo sole.
Scegliamo gli uomini, non i caporali.

R-esistete!

C.

Betania

19 lunedì Set 2016

Posted by orukov in 2016, Collaborazioni, Collettivo Antigone, Eventi, Il Corpo delle Donne, Mostre fotografiche, Progetti, Simona D'Alessi, Valerio Bispuri

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Collettivo Antigone, Il Corpo delle Donne, Parole, Simona D Alessi, Valerio Bispuri

Che Fernandinho mi è morto in grembo
Fernanda è una bambola di seta
Sono le braci di un’unica stella
Che squilla di luce di nome Princesa

Betania ha 35 anni, vive a Buenos Aires e, come la Princesa di De Andrè, è nata di sesso maschile.

Betania ama, in maniera profonda e ineluttabile, Virginia e con lei sceglie di vivere e condividere la loro quotidianità, la loro intimità, per più di cinque anni, con Valerio Bispuri.

Ne nascono un progetto fotografico e, conseguentemente, una mostra che si snodano attraverso scene di vita quotidiana, gesti di tenerezza e di desiderio.

La dolcezza di un abbraccio, la complicità di uno sguardo, la passione di due corpi intrecciati, la delicatezza di un amore intenso e travolgente fatto di sorrisi timidi ed innamorati, la sensualità che scaturisce da semplici gesti, la femminilità fisica ed emotiva.

Sullo sfondo troviamo l’Argentina cattolica che nel 2010 ha legalizzato le unioni omosessuali.

Non sarà di certo stato facile per Betania e Virginia far entrare nella loro vita l’obiettivo di un fotografo e gli occhi di chi, come me, ha visitato la mostra soffermandosi più e più volte ad ammirare quei piccoli e insignificanti particolari senza cui le nostre vite risulterebbero vuote ed anonime. Particolari che trasudano complicità, amore, intimità e che vogliono cercare di abbattere quello spesso muro di omofobia che, in maniera inaccettabile, cresce di giorno in giorno.

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*Scatto preso dall’album FB della mostra


Betania

mostra fotografica di Valerio Bispuri

a cura di Valeria Fornarelli

prodotta da Perugia Social Photo Fest

Gli scatti del progetto li trovate qui

Ho avuto il piacere di visitare questa mostra a Giugno in un nuovo spazio espositivo nato da poco a Palermo. Come si può leggere sul loro sito, Église è un laboratorio culturale artistico, un luogo fisico, ma anche un gruppo di giovani creativi. L’augurio è quello che con le loro “Piccole Ali” possano andare davvero molto lontano.

di Simona D’Alessi

 

 

 

Bonnections, BonnLab, Collettivo Antigone & Summer Fest

25 lunedì Lug 2016

Posted by orukov in 2016, Bonnections, BonnLab, Collaborazioni, Collettivo Antigone, Eventi, Francesco Malavolta, MariaGrazia Patania, Mostre fotografiche, Parole del Collettivo, R-esistenza, Radio Bonn, Refugees Welcome, Restiamo umani, Testimonianze

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Antigone, bellezza, Bonnections, BonnLab, Collettivo Antigone, Francesco Malavolta, MariaGrazia Patania, Parole, Radio Bonn, Testimonianze, Traduzioni

Sabato 23 luglio presso la sede del BonnLab a Bonn Beuel si è svolto il Summer Fest che ha riunito persone di varia provenienza mettendo in campo i migliori strumenti per l’integrazione: cibo&musica. Da inizio luglio e in preparazione del prossimo BookClub presso la Stadtbibliothek di Bonn, BonnLab sta esponendo tre scatti del fotoreporter Francesco Malavolta (di seguito nel testo) con la nostra partecipazione come Collettivo Antigone.

Di seguito una traduzione di alcuni stralci dell’articolo di Sandra Prüfer che spiega cosa siano Bonnections e BonnLab, con cui il Collettivo Antigone collabora a Bonn nel tentativo di restituire un volto umano alle migrazioni.

[..]

Bon­nec­tions è un progetto avviato da un gruppo di rifugiati e volontari che si sono incontrati a Bonn attraverso la rete locale di sostegno ai rifugiati. Quando la scorsa primavera abbiamo intrapreso questo percorso volto a lanciare un progetto interculturale e il club del libro 3.0, non avevamo idea di dove saremmo arrivati. L’idea era quella di mettere in collegamento fra loro gli abitanti di Bonn, nuovi e non, il mondo analogico e quello digitale, abbracciare la nostra diversità culturale e umanità condivisa nonché allargare i nostri orizzonti scoprendo insieme valide letture da tutto il mondo.

Come accade nella maggior parte dei progetti creativi, Bonnections ha sviluppato una dimensione propria divenendo più di quanto inizialmente immaginato. Il nostro gruppo si incontra regolarmente nel nuovo laboratorio cittadino a Beuel (NdT: un quartiere di Bonn) per condividere idee e sviluppare narrazioni creative insieme a nuove idee.

Safety

BonnLab nasce da un’idea di Johanna Schäfer, giovane urbanista laureatasi di recente, convinta che ogni città abbia bisogno di un approccio alla questione dello sviluppo urbano che parta dal basso.  Ha inaugurato BonnLab all’inizio di maggio con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita a Bonn incoraggiando un tipo di innovazione, dialogo e cooperazione che scaturisca dai cittadini stessi. Propone varie iniziative e gruppi di volontari fra cui Bonnections o Code­For­Bonn, un luogo dove incontrarsi e lavorare insieme.

Sulla base di un approccio interattivo e partecipato, Bonnections sta sperimentando nuove tecniche di narrazione multimediale. […] Il tema del prossimo incontro ad Agosto riguarda i racconti di viaggio a partire dall’Odissea di Omero che viene considerata la più antica narrazione sul tema.

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[…] Molti dei nostri nuovi vicini sono arrivati a Bonn l’anno scorso come rifugiati in fuga dalla Siria o altre zone a rischio. Sono estremamente grati per essere riusciti ad arrivare in Germania e per il caloroso benvenuto ricevuto dopo la lunga ed estenuante traversata dell’Europa. Da parte nostra, siamo grati che siano sani e salvi. Nonostante la brutale guerra civile in Siria non sia più una minaccia concreta per loro direttamente, continua ad esserlo per le loro famiglie e i loro amici rimasti nel paese. Vivono perennemente nella paura e rimangono in contatto con le famiglie tramite WhatsApp o parlando al telefono quando possono.

[…]

Maria Grazia è entrata a far parte di Bonnections dopo il primo club del libro tenutosi ad Aprile e viene dalla Sicilia. Come emerso in seguito, ha fondato un progetto simile, chiamato Col­let­tivo Antigone, con amici e amiche in Italia per offrire una voce ai rifugiati e ai migranti che arrivavano sulle coste siciliane. “La crisi dei rifugiati in Europa ha assunto proporzioni epiche“, dice. Maria, appena rientrata dall’Italia, condividerà con noi la sua esperienza.

scrittura

[…]

Original article in English by Sandra Prüfer

Photo Copyright: Francesco Malavolta

Traduzione di Maria Grazia Patania

 

Life Jacket Project

15 venerdì Lug 2016

Posted by orukov in 2016, Andrew Wakeford, Collaborazioni, Collettivo Antigone, Eventi, Fred George, Life Jacket Project, MariaGrazia Patania, Mostre fotografiche, Olocausto del Mare, Parole del Collettivo, Progetti, R-esistenza, Radio Bonn, Refugees Welcome, Restiamo umani, Testimonianze, Traduzioni

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Andrew Wakeford, Antigone, Collettivo Antigone, Fred George, Life Jacket Project, MariaGrazia Patania, Olocausto del Mare, Parole, Testimonianze, Traduzioni

Un muro mobile fatto di giubbotti salvagente recuperati dalle spiagge greche e installato come simbolo di protezione per i rifugiati provenienti da paesi dilaniati dalla guerra.

Da molti mesi migliaia di persone sono in fuga da paesi in guerra del Vicino Oriente. Cercano la pace in Europa, in cui ripongono le loro speranze. A testimonianza di ciò i media ci sottopongono una marea di foto, fra cui numerosi giubbotti salvagente recuperati nell’isola di Lesbo e recinti di filo spinato provenienti dalle frontiere della regione balcanica.

L’installazione di Fred George e Andrew Wakeford ci permette di posare un nuovo sguardo su questo dramma. Si tratta di una visione introspettiva perché qui le singole persone sono in primo piano e confidano storie riguardanti fuga ed espulsione dal proprio paese.

Entrambi gli artisti con foto ed interviste si sono avvicinati ai rifugiati e hanno ottenuto il permesso di realizzare dei ritratti personali. L’obiettivo dell’installazione è costruire un muro mobile composto da giubbotti salvagente recuperati dalle coste greche e ritratti di singoli rifugiati. Attaccato ad ogni giubbotto c’è un codice cui è annodata la peculiare storia del singolo rifugiato.

Il massiccio impiego di filo spinato nell’installazione illustra le condizioni estreme della guerra in Siria. I giubbotti salvagente -autentici e presi in Grecia- erano necessari per proteggere i rifugiati durante la pericolosa traversata. Tuttavia le frontiere chiuse li obbligano dentro lager dotati di recinti e filo spinato.

In occasione della mostra nella Johanneskirche di Saarbrücken  dal 15 luglio al 26 agosto 2016 verrà riprodotto un esemplare di questo muro di circa 10m di lunghezza e 3m di altezza con annessi i singoli ritratti dei rifugiati.

Le pagine seguenti mostrano esempi dei sovracitati ritratti e delle persone che si sono fatte intervistare e fotografare da Wakeford e Georg.

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*All rights reserved / Taken from here


Suo zio vive da tempo a Stoccarda e ha incoraggiato Abdalrhmar a venire in Germania. Alla fine si è deciso ad abbandonare una Aleppo dilaniata dalle bombe.

L’allora 17enne Abdalrhmar ha trascorso quattro mesi in Turchia prima di intraprendere la ben nota rotta balcanica diretto in Germania. Questa rotta lo ha portato ad attraversare il mare per arrivare in Grecia e Macedonia dove ha dormito quattro giorni in strada. Spesso la sua vita è stata messa a repentaglio e una volta ha dovuto nascondersi nei boschi. Dopo 17 giorni di cammino a piedi è arrivato infine a Stoccarda.

La cosa più difficile è la lingua. Tuttavia, quando si riesce a padroneggiarla in qualche modo, si può sperare in un lavoro o in una casa. Non gli viene difficile imparare nuove lingue, dice Abdalrhman in un buon tedesco che nel frattempo impara a ritmi serrati presso il centro Diakonie. Parla anche turco e francese.

Ad Abdalrhman le persone nel Saarland sembrano gentili, mentre a Stoccarda era un po’ diverso. Abdalrhman ora ha 18 anni e la sua richiesta di asilo procede. Dopo aver terminato gli studi scolastici, vorrebbe diventare meccanico preferibilmente a Sindelfingen (nel Baden-Württemberg), presso la Mercedes.

Quando finirà la guerra in Siria, vorrebbe ritornare ad Aleppo.

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*All rights reserved / Taken from here


Aya e Walaa sono gemelle e sono arrivate in Grecia attraversando il Mediterraneo con una imbarcazione malmessa. Dopo un lungo viaggio a piedi, in treno o autobus sono arrivate in Germania dove vive la sorella maggiore di nome Diyala. Diyala da due anni vive col marito e due figlie in Germania. I genitori non sono sopravvissuti alla guerra in Siria: il padre è morto dopo un attentato e la madre si è spenta poco dopo per un tumore.

Walaa ha iniziato a studiare farmacia, mentre Aya ha studiato informatica. Entrambe sperano di poter proseguire gli studi in Germania. Vivevano a Damasco e si erano trasferite in Giordania per completare gli studi. Avendo ottenuto ottimi voti hanno iniziato gli studi universitari, ma le opportunità di trovare un lavoro in Giordania per i Siriani sono alquanto ridotte. Pertanto si sono risolte a raggiungere la sorella in Germania che vi abitava da 6 mesi.

Il viaggio è durato oltre una settimana, a volte hanno dormito sul freddo pavimento o, nel migliore dei casi, in un caldo autobus. Avevano poco cibo e anche l’acqua scarseggiava. Senza smartphone sarebbe stato quasi impossibile viaggiare, così come usufruire della funzione navigatore e comunicare.

Tuttavia ce l’hanno fatta ed erano felicissime di rivedere la sorella dopo la lunga separazione. Sono rimaste un mese nel centro di Lebach e queste giovani donne, aperte ed amichevoli, hanno goduto della sicurezza offerta dalla Germania e apprezzano le persone. Si sentono le benvenute. L’unica difficoltà riguarda l’apprendimento della lingua.

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*All rights reserved / Taken from here

Traduzione di Maria Grazia Patania

Deutscher Artikel hier


Nota della Traduttrice: Tradurre dal tedesco mi pone sempre di fronte a molti interrogativi relativi alla validità del testo finale che, purtroppo, non viene nemmeno rivisto mancandomi una collega di riferimento. Tuttavia, ho deciso di concedermi il lusso di sbagliare e considerare i testi tradotti dal tedesco come un laboratorio cui chi ci legge può partecipare con osservazioni e suggerimenti. Contravvenendo alla regola aurea del traduttore, ho creduto che fosse più importante parlare piuttosto che tacere.

#RefugeeCameras: Un progetto di Kevin McElvaney

21 martedì Giu 2016

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Antigone, bellezza, Collettivo Antigone, Kevin McElvaney, Parole, RefugeeCameras, Testimonianze, Traduzioni

A partire dal 2015 la crisi dei rifugiati è stata uno dei temi più trattati dai media di tutto il mondo. Ogni giorno siamo sommersi di immagini e i giornalisti sembrano aver documentato la crisi in ogni suo aspetto. Eppure il fotografo tedesco Kevin McElvaney era convinto che mancasse una prospettiva: quella che nessun fotografo o giornalista avrebbe potuto documentare.

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La macchina fotografica usa-e-getta è stata mandata indietro in una busta impermeabile affrancata e con l’indirizzo di Kevin

Tutto è cominciato quando Kevin, parlando con vari rifugiati intervenuti a eventi organizzati ad Amburgo, la sua città natale, ha chiesto di vedere le foto scattate durante il loro viaggio coi cellulari. Ma non ne avevano. In quel momento Kevin ha capito che “spesso usano i cellulari solo per comunicare e navigare, ma molto raramente per raccontare le loro storie. Ho pensato che sarebbe diverso, se avessero delle macchine fotografiche usa-e-getta“. E quindi ha deciso di prendere un aereo per Izmir con una borsa piena di macchine fotografiche usa-e-getta e unirsi a chi ancora doveva affrontare il viaggio verso l’Europa, fornendo ad alcuni di loro uno strumento per documentare ogni avversità dalla loro prospettiva.

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Camera #1: Zakaria (Siria): Un ragazzo appare sollevato mentre guarda l’obiettivo e tiene in braccio una bambina dopo essere arrivati in un porto sicuro

Quando Kevin ha parlato coi rifugiati e ascoltato le loro storie, molti hanno accolto favorevolmente la sua proposta. Ha distribuito 15 macchine fotografiche usa-e-getta, ognuna delle quali con 27 scatti insieme a una busta affrancata e antistrappo con sopra il suo indirizzo per rispedirgliele.

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Camera #2: Hamza (Aleppo, Siria) – Abdulmonem (Aleppo, Siria): Dopo aver camminato su e giù per le colline in direzione del villagio più vicino, il gruppo fa una pausa. I vestiti che indossano sono bagnati e hanno pochissima acqua.

Da Izmir in molti continuano il viaggio verso Lesbo, Atene, Idomeni affidandosi ai trafficanti che li stipano su gommoni che attraversano il mare diretti in Europa. Mentre i rifugiati erano costretti a intraprendere un viaggio illegale, estremamente pericoloso e talvolta rischioso per la loro stessa vita, Kevin McElvaney è andato in macchina a Ayvalik, ha preso il traghetto per Lesbo e continuato fino a Idomeni con traghetto e autobus. “[Qui] Ho vissuto uno dei momenti più tristi: dopo aver parlato coi rifugiati che pianificavano il viaggio su un gommone malmesso, io mi trovavo su un traghetto grande, al sicuro, con soltanto altre due persone a bordo. A volte credevo di vedere una barca in mezzo al mare. Era frustrante e in quel momento il viaggio che dovevano intraprendere i rifugiati mi è parso tutto una sorta di stupida sfida. E’ triste che debbano usare questa via illegale mentre io ho solo  il passaporto giusto e pago molto meno di loro“.

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Camera #3: Firas (Iraq): Rifugiati guardano fuori da un treno sovraffollato in Macedonia. A destra una donna tiene in braccio il suo bimbo in lacrime. Le porte non si chiudevano e sono rimaste aperte per il tutto il viaggio.

In merito alle sfide principali legate al progetto, Kevin richiama alla memoria alcuni momenti alquanto pericolosi. Le poche ore di sonno e la dura realtà intorno rendevano molto complicato concentrarsi sul progetto stesso. Spesso, dopo solo due o tre ore di riposo, insieme ad altri volontari, aspettava che le imbarcazioni raggiungessero la costa di Lesbo. “Tutti aspettavamo di vedere comparire un puntino nero all’orizzonte. Quando un gommone si avvicinava, diventavamo tutti nervosi. A volte le persone sui gommoni stavano bene, altre erano sfinite o in stato di ipotermia . Quando arrivavano, li aiutavo a scendere senza farsi del male e poi facevo giusto un paio di scatti”.

Refugees sit on the floor in an overcrowded train in Germany

Camera #4: Amr (Siria): Rifugiati nel corridoio di un treno sovraffollato in Germania

Sette macchine fotografiche su quindici sono ritornate in Germania, una è andata perduta lungo il cammino, due sono state confiscate durante i controlli alle frontiere e due non hanno mai lasciato Izmir perché le autorità turche hanno fermato i proprietari. Le ultime tre e i rifugiati a cui erano state date risultano scomparsi. Fino a ora, dice il fotografo, ha ricevuto per lo più riscontri positivi in merito al progetto. “Sembra che la gente percepisse veramente la mancanza di questa prospettiva. C’è grande partecipazione emotiva. Scatta qualcosa quando ci si rende conto che quelle foto non sono state fatte da un fotografo, bensì dai rifugiati. Affiorano più domande e la scarsa qualità delle immagini costringe ad avvicinarsi scoprendo dettagli che a prima vista non erano emersi“. Le foto scattate dai rifugiati verranno esposte ad Amburgo insieme a quelle di fotografi fra cui Jacobia Dahm, Souvid Datta, Daniel Etter, Jan Grarup, Ciril Jazbec, Kai Löffelbein, Alessandro Penso, Espen Rasmussen, Lior Sperandeo, Nicole Tung e Patrick Witty. Chi visita la mostra potrà apprezzare due prospettive diverse una accanto all’altra e potrà così riflettere sulle differenze e somiglianze fra esse. Kevin sta anche valutando la possibilità di ampliare il progetto, dando ai rifugiati l’opportunità di documentare la propria vita in Germania. “Ancora una volta non posso controllare l’esito che avrà il progetto“.

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Camera #5: Dyab (Siria): il figlio Kerim salta su e giù sorridendo dopo il loro arrivo in un ricovero temporaneo, probabilmente in Germania.

[…]

Per conoscere meglio Kevin McElvaney visitate il suo sito web e la sua pagina FB.

English Article here

Deutscher Artikel hier

Traduzione di Maria Grazia Patania / All pictures come from here

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Camera #6: Saeed (Iran): Un padre siriano dorme col figlio in braccio su un autobus da Atene a Idomeni.

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Camera #7: Mohammad (Siria): Avvolti nelle coperte, alcuni rifugiani aspettano in fila davanti un campo temporaneo mentre comincia ad albeggiare.


Era un po’ che osservavo questo progetto. L’inaugurazione è stata ad Amburgo l’1 Aprile e ci sono stati moltissimi visitatori, idem a Berlino. Ho contattato Kevin a metà maggio e, visto che è impegnatissimo con l’allestimento del tour di mostre, abbiamo optato per una traduzione che raccontasse il suo progetto. Le foto qui presenti non sono quelle dell’articolo originale ma provengono dal portfolio di Kevin che le ha messe a disposizione per questo post.

Mi preme sottolineare la partecipazione di Alessandro Penso, fotoreporter di grande rilievo e unico italiano presente in mostra. Il suo lavoro merita tutta la nostra attenzione.

Il Collettivo Antigone visto da Claudia

01 mercoledì Giu 2016

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Antigone, bellezza, Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, La Macchina Sognante, Olocausto del Mare, Parole, Testimonianze

Non è facile parlare del Collettivo Antigone, sarebbe come chiedere a una madre di parlare di suo figlio. Amore, dedizione, passione, questo è il Collettivo Antigone; penne fatte di inchiostro, sogni e speranze. Collettivo Antigone è il bisogno di non passare oltre, ma di esserci. Il giorno che Maria Grazia, attraverso lo schermo di un pc mi parlò di questo progetto che non rappresentava tanto l’esigenza quanto l’urgenza di creare una cassa di risonanza di fronte ai troppi silenzi, non pensai che tutto questo fosse una assurdità… ma una meravigliosa follia. Con un tono quasi timido mi chiese se avessi conoscenze di cinematografia africana e quello fu l’inizio di questa avventura per cui non smetterò mai di ringraziarla.

Collettivo Antigone è la penna di uomini e donne che hanno un unico fine: difendere il diritto alla vita. Parlare di un diritto così elementare in un tempo che chiamiamo “nuovo millennio”, un tempo in cui scopriamo nuovi pianeti e pianifichiamo vacanze spaziali in giro tra le stelle, appare quanto meno surreale. La triste e rabbiosa verità è che il diritto alla vita non è per tutti, come se la pura casualità che ci ha permesso di nascere “nella parte giusta del mondo” arrecasse il diritto di smontare le orecchie dalla nostra testa, strappare gli occhi dal nostro viso e inchiodare le nostre labbra per non recarci il disturbo di pensare agli altri… D’altronde “il lato giusto del mondo” è uno luogo molto comodo. Ma dimentichiamo che, volendo citare Dante, anche gli ignavi vanno all’inferno colpevoli del loro non agire. Credo nella veridicità della teoria analizzata da Lorenz conosciuta come Butterfly effect: “Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?” Sì, possiamo attraverso la nostra non-indifferenza, cambiare le sorti di una realtà diventata “massacro di anime”.

Non è il sogno della pace nel mondo di una ragazzina che si appresta a ricevere la corona di reginetta di bellezza, ma l’azione consapevole di dare gran voce a chi passa ormai quasi inosservato nella routine di fatti che appaiono scadalosamente “normali”. I corpi inghiottiti dal mare non sono una tacita quotidianità su cui cambiare canale per passare al ben più interessante programma di cucina e noi, quel “lato giusto del mondo”, siamo colpevoli di nascondere la testa sotto la sabbia attraverso l’alibi dell’impotenza. Ognuno può fare qualcosa se, come dice Malala, basta un bambino, un insegnante, un libro e una penna per cambiare il mondo. Allora basta il coraggio di ognuno per fermare una strage silenziosa. Non esistono recinti che connotano “il nostro mondo”, la vita ha eguali diritti ovunque essa sia e il nostro dovere è di preservarla con ogni mezzo, fosse anche un foglio e una penna… Perché ci potranno chiamare pazzi o sognatori ma la più grande e meravigliosa follia è la vita stessa e ognuno deve avere il diritto di poterla vivere. Non c’è sogno che non possa essere realizzato se si ha il coraggio di non voltarsi dall’altra parte.

Ringrazio di cuore chi lavora ogni giorno per tutto questo, chi ha sacrificato molto per vedere nascere un sorriso sul viso di ha scampato la morte… Tutti i collaboratori, i fotografi che ritagliano emozioni rendendole indelebili e chiunque abbia orecchie per sentire… sentire nel profondo.

di Claudia La Ferla

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*Photo Copyright: Alessandra Lucca


Questo testo era stato scritto a Gennaio per la presentazione di Antigone a Francoforte insieme alla Macchina Sognante e noi -mantenendo fede alla promessa di non dimenticare quel giorno-  pubblichiamo le sue parole nel giorno del primo compleanno di Antigone.

Ma io non vedo nessuno

20 venerdì Mag 2016

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Antigone, Collettivo Antigone, Francesco Faraci, Parole, Simona D Alessi, Testimonianze

“Chi sei? Il tuo incubo peggiore!”

Quanti di noi leggendo questa citazione hanno sorriso pensando ai tempi in cui John Rambo influenzava i nostri giochi da bambini? E quanti sanno che ancora oggi lui continua ad essere fonte d’ispirazione dei giochi dei più piccoli? Capita, infatti, di aggirarsi nel Parco Santa Maria di Reggio Emilia e talvolta di ritrovarsi catapultati in una guerriglia urbana in cui bambini in mimetica e dotati di armi giocattolo lottano, fuggono, sparano a nemici immaginari.

Quello che stupisce, guardando queste foto scattate durante la permanenza a Reggio Emilia per il progetto Residenza d’Artista del Circuito OFF di Fotografia Europea, è proprio l’emulazione fedele ed esasperante di quello che gioco non è; bambini in pose da cecchino; bambini accerchiati, catturati, costretti alla resa, caduti sotto il fuoco nemico; bambini ancora troppo piccoli per capire le reali atrocità della guerra, ma abbastanza grandi da sapere quello che fanno.

Dieci foto a colori che si prestano a tante interpretazioni e riflessioni sulla società moderna senza però dimenticare che, in fondo, in questo caso si tratta di un gioco alimentato dalla vivida fantasia infantile e dalla voglia di esser già grandi.

Circuito OFF Fotografia Europea

“Ma io non vedo nessuno”

Mostra di Francesco Faraci

Via Roma 22, Reggio Emilia

www.ghirbabiosteria.it

mostra

mostra1

mostra2

mostra3

di Simona D’Alessi – foto e testo

Exile

15 domenica Mag 2016

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bellezza, Collettivo Antigone, Francesco Faraci, I Giorni della Madre, Parole, Simona D Alessi, Testimonianze

Occhi disperati
Occhi determinati
Occhi di chi lotta
Occhi che ti scrutano dentro
Occhi di chi ha abbandonato le proprie radici
Occhi di chi ha abbracciato l’incertezza tenendo sulle spalle l’unica certezza
Occhi pieni d’amore
Occhi di donna, cuore di madre.

simo

Non vi è alcun ordine storico, geografico, cronologico.
Non vi sono distinzioni di razza, etnia, religione, età.
Libia, Vietnam, Tunisia, Sudan.
1968, 2007, 2011.
E’ un unico grande racconto fotografico: bambini, donne, uomini che scappano lasciandosi tutto alle spalle; persone che abbandonano le loro case, la povertà che vi abita, la disperazione che vi risiede, la guerra che li affama; enormi flussi migratori che nessuno potrà mai fermare perché l’unica speranza di vita migliore è andare via.
Pellegrin, Maioli, Sessini e altri fotografi della Magnum in un’unica bellissima e commovente mostra fotografica.

Ogni uomo è la propria terra. Ne sono certo. Se la perde, viene privato della sua solvibilità e di un frammento della sua anima, che tenterà di riconquistare per il resto della vita.
The World from my Front Porch, Larry Towell.

La mostra è composta da mattoni. Come se qualcuno avesse tirato giù un muro a testate. Un mattone una fotografia che raffigura un Mediterraneo andato in frantumi in questi tempi sgretolati dove le destre d’Europa proliferano di pari passo all’ignoranza della gente.  Un pugno allo stomaco di occhi e bocche spalancate.
Madri che tengono bambini, molti dei quali si perdono e poi, una mattina, li ritrovano lì, con le facce affossate nella sabbia, esanimi.
Muri che stanno nascendo in questa nostra Santa Europa malmessa e ormai sconfitta che ha perso, agli occhi delle persone ancora civili, ogni credibilità.
“Exile” non ci dice che di mettere un punto alla miopia prima ancora che l’apocalisse, già in atto, si compia e di tornare a ragionare, a focalizzarsi sul fatto che di essere umani si parla, se ancora qualcuno non l’avesse capito.

EXILE
A cura di Andrea Holzherr
Chiostri di San Pietro
Via Emilia San Pietro
Reggio Emilia

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di Simona D’Alessi e Francesco Faraci (sia il testo che le foto della mostra)

Binario18

07 giovedì Apr 2016

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Antigone, bellezza, Collettivo Antigone, Francesco Malavolta, Olocausto del Mare, Parole, Testimonianze, Yacob Fouiny

*Se si insegnasse la bellezza alla gente, le si fornirebbe un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. […] Bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore*

Peppino Impastato

E’ con queste parole in mente che visiteremo la mostra organizzata dall’associazione Legal@rte  a Torino che ha come tema centrale le migrazioni, vecchie e nuove. Una selezione di foto illustrerà quei percorsi migratori che oggi sono al centro di molti dibattiti, generando opinioni diverse. Lasciare il proprio paese per necessità è sempre una scelta dolorosa, una ferita a cui ci si abitua, ma che in sordina continua a provocare dolore.

Una riflessione sui flussi migratori assume oggi una rilevanza peculiare in ragione della sua attualità e la presenza di sguardi diversi su questo fenomeno aiuterà a sviluppare punti di vista molteplici. Interverranno infatti diversi artisti, ognuno dei quali offrirà il proprio contributo.

Fra questi ci è particolarmente caro Francesco Malavolta, le cui foto abbiamo sempre abbinato alle parole del nostro Yacob Fouiny. E quindi, come Collettivo Antigone, avremo una ragione in più per essere presenti a Torino augurandoci di essere in tanti a farlo.

La mostra sarà visitabile fino al 30 Aprile in via delle Orfane 7 e al suo interno ospiterà numerose iniziative.

Qui il Link al sito di Francesco Malavolta

Qui il Link alla mostra

Qui un video sulla mostra

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