A scuola di resistenza e resilienza generativa, il “Permaculture Design Certificate Course”

Tag

, , , , , , , , , , ,

In passato abbiamo avuto modo di approfondire diversi aspetti della Permacultura definendola come “un sistema integrato di progettazione che coinvolge aspetti ecologici, economici, architettonici e si fonda sull’etica della condivisione, della cura e della restituzione”.
Partendo dalla presa di coscienza del definitivo fallimento dei sistemi attuali, bisogna trovare una soluzione positiva che crei abbondanza; un sistema che, assecondando le leggi naturali, si governi da sé, sia libero.
I sistemi basati sulle monocolture hanno fallito provocando gravi danni relativi a inquinamento, siccità e impoverimento dei terreni per via di interessi economici che risponderebbero alle logiche di mercato ma che, in definitiva, si sono rivelate inutili per la gran parte della popolazione mondiale: su 117 paesi in via di sviluppo, nel 2015, 52 sono stati censiti come paesi in cui il livello della fame è alto.
La permacultura potrebbe essere la risposta che, assecondando i processi naturali, fornisca eccellenza energetica e una concreta alternativa per il futuro delle popolazioni maggiormente colpite e costrette a migrare per sopravvivere.
Per questo motivo, dopo aver seguito il percorso di MEDIPERlab attraverso le diverse fasi di traduzione del Manuale di Bill Mollison, fino alla presentazione del volume nella cornice di Terra Madre nel 2018, siamo liete di presentare un’iniziativa promossa dall’associazione ConMoi di Torino che ha, tra i partner, ARCI Torino e CoopCulture: il “Permaculture Design Certificate” (PDC) è un corso di 72 ore riconosciuto a livello internazionale e prevede un’introduzione alla permacultura con riferimento al Manuale di Mollison.
Durante il corso verrà organizzata una conferenza tenuta da Rhamis Kent (Permaculture Research Institute) e da Ignazio Schettini di MEDIPERlab, che si terrà presso la Caserma Musso di Saluzzo e che si inserisce in un più ampio programma di iniziative, il “Saluzzo Rural Happening” promosso dall’Istituto Garuzzo per le Arti Visive in collaborazione con Conmoi.
La permacultura permette, a differenza della monocoltura, di instaurare un rapporto uomo-natura che sia continuo e che richieda un intervento minimo di manutenzione poiché asseconda, come detto, il naturale scorrere delle stagioni.
Tuttavia la progettazione, proprio per rendere il sistema sostenibile e libero, richiede uno studio ponderato dei diversi fattori e degli elementi integrati nel sistema.

mappa

Ph. Ignazio Schettini – Progettazione permaculturale: Mappa dell’acqua di Zaytuna Farm, Home of the Permaculture Research Institute of Australia

Il corso si terrà dall’8 al 20 settembre 2019 presso il Rifugio Carlo Fissore a Roccabruna.
Completa l’esperienza formativa e il rapporto con il territorio un’escursione notturna naturalistica e archeoastronomica tenuta da Enrico Collo, esperto di riferimento della Val Maira.

Per info e adesioni-> info@mediperlab.com

Piccolo viaggio alla scoperta della frontiera sud

Tag

, , , , , ,

 

Guardare negli occhi un rifugiato è un gesto politico, un modo per ridare il valore, un modo per rimetterlo al mondo. Per dirgli tu ci sei, tu ci sei. E da qui si comincia”, Lorena Fornasir, protagonista di Dove bisogna stare.

Se dovessi riassumere in una sola frase la settimana fra Torino e Lucca, sceglierei questa. Migranti, rifugiati, richiedenti asilo. Semplicemente persone. Persone che aiutano e persone che necessitano aiuto. È stato questo il filo conduttore degli incontri a Chivasso (TO) e Lucca per ritrovare vecchie e nuove amicizie accomunate tutte dall’impegno a fianco di chi viene sistematicamente escluso e marginalizzato.

Due telefonate e gli incontri sono fissati. C’è bisogno di ritrovarsi e di conoscersi. C’è bisogno di sapere che esistiamo e che il mondo vero non è quello propagandato dai giornali e dagli sciacalli che ci governano. C’è bisogno di dire che in mare si muore mentre noi portiamo avanti le nostre misere vitepreoccupati da un’invasione che non esiste, ma è funzionale a nascondere una società alla deriva.

A34B534F-2377-4813-B6AB-DBA59D7C20A9

A Torino, in aeroporto, mi aspettano Daniela, Pinuccia e Bea. Era novembre quando Daniela mi scrisse per la prima volta, avevo notato che seguiva sempre i post del Collettivo, ma non conoscevo la sua storia e non immaginavo che saremmo diventate amiche al di là dello schermo. E invece ora siamo in macchina insieme, ci fermiamo a bere un caffè, andiamo a trovare alcuni dei ragazzi che lei e altre volontarie seguono prima della cena di benvenuto per accogliere a nord la frontiera sud. Una enorme tavola imbandita dove siedono persone provenienti da Afghanistan, Pakistan, Gambia, Costa d’Avorio, Burkina Faso e Italia. Intorno, una babele di lingue. C’è parla in farsi, chi in tedesco, chi in inglese o francese. Ognuno trova il modo migliore per conoscere chi gli sta accanto.

36EB2443-6D57-4662-B797-5CE0BE76B90D

Il giorno dopo è il momento delle scuole. Théo e io abbiamo il compito di far capire cosa significhi oggi viaggiare mettendo a repentaglio la propria vita solo perché si è nati nel posto sbagliato. La prima classe è una quarta della scuola primaria di Torrazza, seguono una terza e altre due quarte della scuola primaria della scuola primaria di Caluso. In totale, oltre un centinaio di bambini e bambine hanno ascoltato il viaggio di Théo paragonandolo ai miei spostamenti per lavoro o volontariato.

Théo viene dal Costa d’Avorio, a 21 anni deve abbandonare gli studi universitari a causa dello scoppio di un conflitto nel suo Paese che nel dicembre 2011 lo costringere a fuggire per mettersi in salvo. “Io non volevo venire in Italia, ma dovevo per forza mettermi al sicuro. Così sono arrivato in Libia dove un mio amico mi ha insegnato il mestiere di piastrellista. La Libia è un posto terribile e sono dovuto fuggire anche da lì. Sono arrivato in Italia il 7 ottobre 2016 a bordo di un gommone con 135 persone. Sono vivo per miracolo”. Mentre lui parla, mi rendo conto che la cosa migliore per far capire l’ingiustizia della migrazione forzata è raccontare la mia vita che si svolgeva in parallelo a quella di Théocon molti meno rischi.

Mentre lui si metteva in viaggio a causa della guerra, io maturavo l’idea di abbandonare l’Italia per avere un lavoro migliore. Mentre lui attraversava il deserto per arrivare in Libia, io volavo in Germania in totale sicurezza e con un contratto di lavoro in tasca. Mentre Théo resisteva su un gommone insicuro in mare, io avevo appena rassegnato le dimissioni a Bonn per rientrare in Sicilia. Infine, mentre i documenti -che per me sono scontate garanzie di sicurezza- per lui sono una lotteria che non sai mai se vincerai e che, nell’attesa, ti costringe a non esistere. Ti espone ai pericoli dell’essere invisibile e facile preda di criminali senza scrupoli.

62210B9E-4F86-47F6-B7A6-20C201A24F5D

Le domande si susseguono e alternano questioni pratiche legate al viaggio alla domanda madre di tutte le altre: Perché li costringiamo a questi viaggi, a questi pericoli, a questi orrori? E allora bisogna spiegare dei visti, di come li neghiamo e di come consegniamo ai trafficanti la gestione dei flussi migratori. Io in Burkina Faso sono andata in aereo, comodamente, senza alcun problema. Théo ha dovuto rischiare di morire per essere oggi qui insieme a noi, mentre io non ho meritato nulla di ciò che il mio passaporto mi ha consentito. Alle nostre spalle ci aiutano le cartine geografiche per mostrare dove si trovino il Costa d’Avorio, la Libia, la rotta centrale del Mediterraneo dove Théo è stato soccorso, il Burkina Faso ed infine la Sicilia dove si tocca finalmente terra. Poi c’è un puntino fra Catania e Siracusa ed è lì che si trova Augusta, per anni primo porto di sbarco. Ovvero, primo luogo di salvezza per l’umanità in cammino che ha quasi del tutto perso la sua umanità con becere propagande e qualunquismo istituzionale.

La sera c’è la proiezione del documentario “Dove bisogna stare” che racconta l’impegno giornaliero di quattro donne -diversissime fra loro per età e provenienza- che dedicano la loro vita a supportare migranti e richiedenti asilo abbandonati dalle istituzioni nell’indifferenza generale. In sala c’è Elena Pozzallo che ha aperto le porte di casa a Mathieu che si era smarrito nella neve e rischiava di vedersi amputare i piedi, prima di ripartire di nuovo inseguendo i propri sogni. In ciascuna di quelle donne, nei loro gesti, nel loro sconforto e nella loro rabbia si rispecchiachiunque abbia deciso dove bisogna stare negli ultimi anni di fronte alle barbarie commesse contro i migranti.

Parto per Lucca con le loro parole in testa, con la convinzione che il coraggio debba essere più forte dello scoramento, con la paura di non fare mai abbastanza. In fondo, cos’è abbastanza? Rivedo le persone che avevo conosciuto durante incontri precedenti qui ad Augusta e poi a Lucca, ritrovo chi ho conosciuto durante la missione in Burkina Faso e mi trovo a raccontare il luogo da cui vengo, cosa voglia dire porto di sbarco, cosa abbia significato per noi essere dimenticati dalla stampa e scomparire dall’attualità. Luoghi come Augusta e Cassibile sono difficili da raccontare, ma è necessario parlarne. Si deve sapere che la schiavitù è a un passo da casa nostra, che il mare è pieno di morti, che ignorare l’esistenza di migliaia di esseri umani vuol dire consegnarli alla criminalità organizzata, innescare il caos sociale e lasciare quasi 20.000 lavoratori senza una occupazione. Si deve sapere che un altro mondo è possibile, che il mondo delle foto che ho scorrono mentre parlo -fatte di compleanni e lezioni di italiano- esisteva finché non ce lo hanno portato via, che mia madre ha molti figli benché anagraficamente io risulti l’unica. Si deve sapere che tornare umani è una battaglia da combattere insieme e che nessuno può tirarsi fuori

Di Maria Grazia Patania

foto di Daniela Mussano

Le radici contano solo se sei un albero

Tag

, , ,

“Maria, me ne vado. Io non posso stare qua a non fare niente”

“Ma dove te ne vai? Ma sei pazzo? Porta pazienza. Vedrai che si sistema tutto”

“Maria, io non sono venuto qua per avere pazienza. Io devo aiutare la mia famiglia a casa, devo lavorare. Ho tante cose qui ad Augusta ma mi serve un lavoro”

Era il 2015, io vivevo a Bonn, maturavo l’intenzione folle di mollare un lavoro a tempo indeterminato corredato di solida carriera e capo unico al mondo mentre Youba mi spiegava perché voleva scappare via dalla città dove io ero nata e lui era sbarcato dopo un viaggio rischiosissimo l’uno maggio 2014. Augusta, il luogo dove siamo diventati amici, perdeva ogni attrattiva ai suoi occhi di fronte all’impossibilità di trovare un lavoro decente e alle tante promesse non mantenute.

“Lavoretti, lavoretti. Poi non mi pagano e io devo stare zitto”.

“Lo so, ci sono passata anche io. Però fidati che se vai solo in Francia, allo sbando, non so se te la passi meglio. E comunque ovunque andrai verrò a dartele con la scopa”

15203124_1460869713942357_5685331122061352037_n

Ph. Francesco Malavolta

Conversazioni di questo tipo si sono susseguite nel tempo con lui e con MB che faticavano a credermi quando dicevo che, nonostante tutto, loro erano fortunati. Credevo davvero che la mia terra potesse offrire qualcosa in più di sole, mare e trallallalà. Vedevo con quanto impegno accettassero lavoretti di qualsiasi tipo, affrontassero le delusioni, conservassero la gentilezza anche verso chi non li pagava e li prendeva in giro.

Ogni tanto mi raccontavano episodi spiccioli di razzismo che, però, avevano più il sapore amaro di una miserabile guerra fra poveri. La nostra nostalgia di casa era fatta di parole comuni, la mancanza di un posto nostro nel mondo era identica come la nostra ambizione a fare il massimo.

Per mesi, io e Youba ci telefonavamo la sera per sentirci meno soli e raccontarci i piccoli progressi del giorno. Andare a mangiare la pizza con i nuovi amici, gestire la propria casa, giocare a pallone, litigare coi clienti. Ed infine, quasi a esorcizzare la cosa, parlavamo della mamma e di quanto ci mancasse.

“Prenditi la mia, te la presto”

“Lo so Maria, lo so. Domenica ci vado”

A 16 anni ho capito che io non avrei mai potuto vivere ad Augusta e che nascere in un posto non significa passarci tutta la vita a meno che tu non sia un albero. O non abbia il passaporto sbagliato. Ma io ancora la storia dei passaporti non la sapevo e l’Africa con i suoi conflitti irrisolti erano tema per la beneficienza di Pasqua e Natale. A 18 anni finalmente me ne sono andata e ascoltavo le persone parlare di radici, mancanza e dolore verso il paese natale e non capivo cosa volessero dire.

Io ero felice, non mi mancava niente della mia città natale priva di speranza ed opportunità. Ero felice di aprire la porta di casa al mattino senza sapere chi avrei incontrato. Studiavo per diventare interprete rincorrendo il sogno della diplomazia e l’ambizione di far comunicare persone senza una lingua in comune. Quando tornavo a casa, sentivo solo la felicità di essermene andata. Tiravo un sospiro di sollievo, pensando che quello squallore non avesse nulla a che fare con me. Fogne a mare, petrolchimico come unica prospettiva lavorativa, aria appestata da gente senza scrupoli che per arricchirsi farebbe qualsiasi cosa, connivenze per un tozzo di pane.

La domenica dopo pranzo ripartivo, salutavo i miei e iniziavo a programmare la mia settimana col sogno dell’Europa in mente. Varie vicissitudini mi hanno fatta spostare prima a Roma e poi a Bonn dove appena atterrata mi sono innamorata della città. Una volta trasferita nell’ex capitale tedesca, nonostante non capissi nulla di ciò che ascoltavo o leggevo, mi sono sentita subito a casa. Il fatto che non riuscissi a comprare agevolmente manco uno struccante (vallo a sapere che si dice Reinigungsmilch mentre tu cerchi un banale make-up remover), non intaccava minimamente la mia ambizione.

Otto ore di ufficio, tre di corso di tedesco e i compiti per l’indomani sono stati la mia routine quotidiana per i primi mesi. Più forte delle case impossibili da trovare, del dottore cui spiegare in maniera fantasiosa cosa mi servisse, c’era la mia determinazione a non farmi mandare a casa ad agosto alla fine della maternità della donna che sostituivo.  Dopo le mie prime ferie, tornata a Bonn, mi venne a prendere il mio capo con un cartello di bentornato, mi portò fuori a pranzo e mi chiese “Come ti trovi da noi? Ci stai bene? Ti va di rimanere a tempo indeterminato?” Io mi sono mezza affogata e sono scoppiata a piangere facendo spaventare la cameriera di fronte che il mio capo si è sentito di rassicurare “Penso sia felice. Alles ist gut”. “Unbefristet weitergeführt” era il mio lasciapassare per la Germania, il mio tempo indeterminato. E per sancirlo di pomeriggio sono andata a farmi la tessera della ferrovia per viaggiare ovunque nel Paese. “Vuole quella di 3, 6 o 12 mesi” “12 per favore. Io resto qui”.

Tutto facile, tutto lineare, tutto giustamente meritocratico. Nessun trafficante, nessuna estorsione, nessuno sfruttamento, nessuno stupro, nessuna violenza fine a se stessa. Poi le radici hanno cominciato a tirare mentre casa mia diventava primo porto di sbarco. Non sarei mai tornata per frequentare le stesse persone ogni giorno. Ma ora il mondo veniva a casa mia e andava accolto. Bisognava stare sulle banchine del porto, bisognava fare le lasagne e iniziare subito l’integrazione a tavola. Bisognava scolarizzare i figli del mare e amarli con l’intensità di una sorella che aspetta i suoi fratelli da sempre.

Così ho deciso di tornare. Per stare dove bisogna stare. Lo rifarei mille volte anche se ora mi sento in una prigione invisibile da cui conto di fuggire prima possibile. Mi sono serviti altri 18 anni per mettere a fuoco -con una certezza che sfugge al pregiudizio- che qualsiasi luogo è invivibile quando si chiude in se stesso. A 16 ho capito di non avere quasi nulla in comune con chi viveva nella città dove ero nata. A 34 so di essere molto più simile a qualsiasi uomo, donna, bambino che tenta la lotteria della vita per un futuro migliore che con chi tace di fronte all’ingiustizia e si accontenta del quieto vivere e del pane avvelenato.

Ad maiora

di Maria Grazia Patania

Agricoltura sostenibile e cambiamento climatico in Burkina Faso

Tag

, , , , , , , , ,

Per arrivare a Korsimoro, provincia di Sanmatenga nel centro-nord del Burkina Faso, bisogna mettere in conto di perdersi fra strade polverose e sterrate dove un errore è fatale per le macchine. E infatti ci perdiamo un paio di volte nell’intrico di sentieri usati indifferentemente da uomini in moto o su un asino. Il paesaggio intorno oscilla fra il rosso intervallato dal giallo della terra da cui si innalzano spogli baobab e altri arbusti, rarissimo il verde che punteggia il paesaggio con sparuti cespugli sopra cui si stende un cielo azzurro ed immenso. Basta guardarsi intorno per capire che si è già nella fascia del Sahel, il grande deserto che attraversa sei Paesi fra cui Burkina Faso, Mali e Niger dove solo nel mese di aprile ci sono stati 150 episodi di violenze che hanno causato oltre 300 vittime. Desertificazione e cambiamento climatico sono evidenti mentre arriviamo al villaggio dove ci aspettano le persone coinvolte in un progetto di Caritas Austria finalizzato alla sicurezza alimentare che coinvolge 160 lavoratori, fra cui molte donne selezionate fra le famiglie più povere ed esposte agli effetti del cambiamento climatico.

Una volta arrivati, la nostra guida, Fernando Ouedraogo della Caritas locale (OCADES: Organisation Catholique pour le Développement et la Solidarité), ci indica dei solchi nel terreno e dei bordi rialzati, spiegandoci che si tratta di una tecnica messa a punto per trattenere meglio l’acqua. Sottolinea più volte come il clima qui giochi un ruolo cruciale nella vita delle persone e come negli ultimi 20 anni il cambiamento climatico abbia portato ad un inasprimento senza precedenti delle condizioni del lavoro agricolo. “Nessuno crede veramente che il clima stia cambiando. O quantomeno nessuno ci pensa seriamente. Quando non piove, si disperano, ma quando arrivano le piogge, si dimenticano quanto hanno sofferto per la mancanza di acqua. Quello che noi cerchiamo di fare è sviluppare una visione d’insieme, una strategia che guardi al futuro con prudenza in modo da mettere da parte le eccedenze per quando saranno necessarie”. Il progetto prevede solo l’uso di materiale organico, “quindi è interamente bio e sostenibile”, aggiunge Fernando con orgoglio.

B33I9962

Photo Copyright: Francesco Malavolta

Il progetto è partito nove anni fa in tre fasi: l’avviamento, la fase intermedia di tre anni e quella in corso di cinque. È partito in via sperimentale proprio in Burkina Faso ed Etiopia prima di essere esteso a Senegal, Eritrea e Somalia. Annualmente i responsabili dei vari Paesi si incontrano per mettere a punto le strategie da portare avanti e abbozzare la programmazione dell’anno a venire. “Non basta insegnare come e cosa fare. Occorre anche monitorare costantemente i risultati per migliorarli”, precisa Fernando. Fondamentale è anche la lotta alla malnutrizione infantile, con un focus speciale sui bambini sotto i cinque anni. La nostra guida spiega che la Caritas ha coperto le spese dei semi per il primo anno e per l’acquisto della motopompa, mentre il resto è stato autofinanziato con la vendita dei raccolti che hanno permesso di sfamare le famiglie coinvolte e creare delle scorte con un circolo virtuoso. Da poco il progetto è stato avviato anche in Sud Sudan dove da anni è in corso una devastante crisi umanitaria. A Korsimoro si producono cipolle, due tipi di melanzane, miglio, sorgo e gombo usati soprattutto per le salse dei condimenti, ma purtroppo il barrage da cui si prende l’acqua per irrigare i campi risale agli anni 70 e, mancando una regolare manutenzione, sul fondo si accumulano costantemente detriti che ne riducono la capacità di utilizzo e spesso vanificano il lavoro svolto.

“Lo scopo del progetto è molteplice: da un lato, dare i mezzi economici e alimentari per vivere a chi ci lavora, dall’altro incentivare la gestione dei raccolti facendo vendere o conservare le eccedenza per creare delle riserve”, prosegue Fernando. Intorno al granaio, appositamente costruito per stoccare i semi che ogni famiglia porta, ruota un sistema di deposito che crea resilienza di fronte alle oscillazioni del mercato, dei suoi prezzi e del ciclo delle stagioni stesse. “In questo modo siamo meno esposti all’imprevisto e le famiglie che in tempi di maggiore abbondanza hanno donato dei semi possono ricevere supporto quando hanno bisogno”, continua. All’interno di questo processo, particolare rilevanza hanno le cipolle che possono essere stoccate finché i prezzi di mercato non sono convenienti. Nel 2016 le coltivazioni si estendevano per circa 10 ettari e il riso era ormai quasi pronto per essere raccolto, ma l’acqua è finita, rovinando tutto. Così, l’anno dopo si è deciso di ridurre la piantagione a 5 ettari per poter coprire il fabbisogno idrico pur sapendo che quella quantità non sarebbe bastata per l’intera comunità.

B33I1041

Photo Copyright: Francesco Malavolta

Dal Burkina Faso Metsi Makhetha a nome delle Nazioni Unite ha dichiarato che “è in gioco l’avvenire di un’intera generazione”, mentre dal Niger Fatou Bintou Djibo ha chiarito come sia essenziale agire sul piano socio-economico dato che “nel Sahel la violenza è profondamente radicata in sentimenti di marginalizzazione e negazione dei diritti”. In questo scenario di violenza e diritti umani negati, mentre in Europa si sbraita di aiutarli a casa loro, l’ipocrisia di questa frase viene smascherata dalla perenne mancanza di fondi. L’appello delle Nazioni Unite che chiedono 600 milioni di dollari per coprire i bisogni più urgenti di quasi 4 milioni di persone – a fronte degli oltre 5 milioni che necessitano assistenza – è caduto nel vuoto e solo il 19% dei fondi sono pervenuti fino ad ora.

L’esempio di Korsimoro dimostra che l’agricoltura ha sicuramente tempi lunghi, ma con le giuste tecniche può garantire raccolti costanti e contrastare la piaga della malnutrizione le cui conseguenze pesano sullo sviluppo dell’intera nazione. Pertanto, soprattutto in una fase storica così tragica con oltre 170 mila sfollati, 25 mila rifugiati maliani e 670 mila persone cui serve assistenza alimentare, progetti come quello di Korsimoro costituiscono un’àncora di salvezza per sopravvivere alla violenza, alle catastrofi naturali e al menefreghismo della comunità internazionale.

di Maria Grazia Patania

*Grazie alla onlus lucchese Amani Nyayo per averci accompagnati a visitare questo progetto.

Take her away. Away from here

Tag

, , , , , , ,

ITA

It’s July and it’s hot on the pier. They should disembark at about 4pm but we are all here roasting under the sun one hour earlier. There is an annoying wind spreading dust and sulphur in the air that, anyway, helps us breathe. All of a sudden, we are told that we are on the wrong pier, we take the cars and move. All around people look tired and worried. It’s the time when the NGOs operating at sea are attacked by the media. They have suddenly become the enemy number one, the enemy to fight in order to stop the alleged invasion that exists only in the mind of those who create hate. It’s that time when each word is weighed for fear of falling into the trap of the propaganda. It’s the time when solidarity becomes a crime, saving life is something to be ashamed of and staying human is the only sensible challenge.

The big boat appears over the horizon, we start preparing for the disembarkation that starts slowly. First the families, the women with small children. Three of them look like they are ready to go to kindergarten, if it weren’t for the bare feet and the fear into their eyes. In the afternoon heat, we wait for them on the pier, hoping to be useful and exchanging with the survivors smiles concealing distress and hope. The atmosphere is quiet, occasionally a kid laughs, a woman is positioned on a stretcher and taken into the ambulance. She is not critical fortunately.

Ph. Francesco Malavolta

After a while, after families, women and children have disembarked, I go to the tent where the newcomers are identified and given an accommodation: two big tents, some containers and a space with toys for the kids. Those toys on the boiling tarmac, those colours against the grey of the street, are a slap in the face. Many children play, they chase each other and seem happy. But that’s not right: this is not a place for playing, it’s not a place where they should spend even one minute of their precious childhood.

I move closer to the bigger tent and I see a kid, about two years old, in the arms of his father who is looking at me. We smile at each other and he comes near me, he gives the baby to me. They are from Mali, the mother is also there clapping her hands to encourage me to hold her child in my arms. The little one is not very happy and keeps looking at his parents and in the meantime he enjoys the kisses and cuddles of a stranger. We take a picture together: had we not been at the port under the blazing sun after disembarking from a journey of hope, we would have looked like a normal family at the park on a Sunday afternoon. I give the kid back to the father, we say goodbye and I enter the tent: mothers and children everywhere. One of them looked so peaceful in his mother’s arms. She is beautiful and moves gracefully. While I’m busy looking at them, a skinny woman in her forties arrives. She is from Syria and is there with her 16 years old niece. They don’t speak English, they take me aside and touch their stomach “Blood, blood. Please help.” They have their period, they need tampons. It happens that I have two in my bag, I give it to them and I go looking for more while trying to forget the woman’s embarrassment when asking. When I get back with a full pack, they hug me and laugh.
As if having to face a terrible trip is not enough, the period makes things worse.

I don’t have time to stop and think when a little group of Somali girls motioned for me to go closer, they have a munchkin in their arms: a tiny girl wrapped in a pink blanket. I could hear a very thin breath. Her mother is wearing a light blue veil, she is minute and tells me she is 20 years old and that she had her baby in Libya 15 days before. She doesn’t speak English either, only a few words to say “beautiful”. Yes, the baby is adorable. She puts her into my arms as if she were a doll, she quickly turns around to check if someone is looking and she talks looking straight into my eyes “Take her away. Away.”
Her eyes look beyond the field, where life is, towards the road and the city. Where there are no ghettos, queues and documents that are impossible to obtain. A very young mother that had that baby who knows where and with whom is asking me to take her daughter away. I explain that it’s not possible, that that baby’s life, so light in my arms, would become a massive bureaucratic burden. I tell her “no possible. All the best” while we hug with the baby between our hearts. I decide to call it a day. I get into my car, I leave the port, shortly after I stop in an place overlooking the entire area. It’s almost sunset and the beautiful colours make the ugliness of the world in which I live unacceptable. My mother calls me to ask if I go to hers for dinner, I say yes trying to sound as normal as possible. When I arrive at home, I break down and I tell her about that woman and that baby. I tell her that, for a moment, I imagined the baby wearing aunty’s handmade hats and blankets, daddy singing to her to make her sleep and I thought of the deported Jews who left their children with whoever had the courage to save them. We forget about dinner. We are not hungry anymore. I go back to my house, everything is huge. The bed is so big that it might perfectly well have taken that creature and her mother. I cling on to the law, to the bureaucracy, to the rules and try to find excuses. But it doesn’t work. I think about the girl asking me to save her daughter who is slowly breathing between my arms and about myself, I have been wondering whether saying no was the right to do since that day.

By Maria Grazia Patania

Translator F. Colantuoni

I bambini lo sanno che il mare porta regali bellissimi

Tag

, , , ,

“Maestra! Ci racconti ancora la storia del mare e dei figli che ti ha portato in regalo?”

(Elia, quarta elementare)

Sono un’insegnante e, come ogni maestra di scuola primaria, ho a che fare con gli esseri più curiosi e spietati dell’universo: i bambini. I bambini sanno benissimo cosa chiederti, quando farlo e in che modo. Sono perfettamente consapevoli di ciò che ti farà commuovere o arrabbiare, e sarà proprio lì che andranno a “colpire”. I miei alunni sanno che il mio punto debole sono “i figli del mare”, e quando sono un po’ più stanchi, annoiati o semplicemente vogliono cambiare argomento mi chiedono di loro, di quei ragazzi arrivati da lontano.

“Maestra! Ma è vero che Mamoudou era un po’ monello e che, quando pioveva, a scuola non ci andava? Senti, non possiamo fare anche noi così?”. “Non ci pensate nemmeno! Voi non dovete fare 4 chilometri a piedi, come faceva lui, per arrivare a scuola”.

“Maestra!  Ma è vero che in Costa d’Avorio i bambini raccolgono il cacao nelle piantagioni? E non lo mangiano nemmeno… Ma come fanno?”.

Queste e altre decine di domande mi vengono riproposte ogni giorno. Oltre alle curiosità dei bambini, ci sono anche loro a farmi compagnia, i figli e le figlie del mare. Perché, tutte le volte che riesco, io me li porto anche a scuola. O meglio, per essere precisi, è la scuola che all’inizio ha aperto le porte (potremmo dire i porti, se fossimo sul mare) a chi vive sul nostro territorio, e lo ha reso cittadino a tutti gli effetti. Tre anni fa, insieme a un gruppo “magico” di colleghi, abbiamo deciso di proporre alcune attività didattiche che coinvolgessero gli stranieri presenti sul territorio: genitori, richiedenti asilo, amici… Insomma, tutte quelle persone che avevano voglia di condividere con noi un pezzetto della propria cultura, della storia personale e delle tradizioni. Ci eravamo resi conto che il clima di razzismo che respiravamo fuori dalla scuola stava avvelenando anche le menti e i cuori dei nostri alunni.

foto laboratori sommario 2

Abbiamo deciso di fare qualcosa che permettesse di aprire varchi, intessere relazioni, costruire ponti. E così è stato: laboratori di musica, danze e filastrocche; raccolta di interviste, racconti, immagini e, soprattutto, tanta voglia di stare insieme. Una voglia così grande che, sebbene gli incontri pattuiti con gli operatori della cooperativa avrebbero dovuto essere limitati nel tempo, in realtà si sono moltiplicati. E abbiamo perso il conto di tutte le partite a carte, delle chiacchiere, delle risate e dei cartelloni colorati insieme. C’è anche stato il tentativo di coltivare un orto ma, in questo caso, il risultato non è stato quello sperato… Non possiamo essere sempre splendidi…

“Maestra! Quand’è che torna Sane, che dobbiamo finire la sfida a briscola?”

“Maestra! Lo sai che ieri ho incontrato Frank per la strada, e che prima di conoscerlo mi faceva paura perché è nero e adesso invece non mi fa più paura e mi è simpatico?”

“Maestra! Ma Sunday ce lo porti anche quest’anno? Perché io devo chiedergli ancora un po’ di cose sulla festa di Wherewhere e sul suo Paese…”

E da lì, dopo aver aperto le porte della scuola, si sono aperte anche quelle di casa. È stato inevitabile. E da lì a diventare mamma di tutti il passo è stato breve, anzi brevissimo. Nonostante siano uomini grandi e grossi per me rimangono, sempre e comunque, dei figli di cui preoccuparmi: avranno mangiato abbastanza? Si saranno vestiti un po’ di più che sono sempre raffreddati? Fanno attenzione quando escono di sera? Sono neri, in bici non si vedono, rischiano di farsi investire…

I bambini lo sentono se tu ami qualcuno. I bambini lo sanno che puoi voler bene a un figlio che non ha il tuo stesso colore: lo sanno, perché passi le tue giornate a pulire i loro nasi, a raccoglierne le lacrime e ad ascoltarne le proteste; i bambini vogliono capire se anche tuo figlio, portato dal mare, si becca i cazziatoni come qualunque altro ragazzo; vogliono sapere se mette in ordine la sua stanza o risponde male alla sua mamma come, a volte, fanno anche loro. E io racconto. Racconto delle volte in cui Beatrice e Amadou si mettono d’accordo e mi prendono in giro perché, sui sentieri di montagna, cammino più lenta di loro; di quando preparano insieme la cena facendo una confusione pazzesca e sporcando 12 pentole; o di quella volta che non ne volevano sapere di venire in gita con me perché c’era il vento e loro avevano freddo e hanno protestato per tutto il pomeriggio.

Io racconto e loro ascoltano, con gli occhi sbirluccicanti: perché i bambini lo sanno che non è la buccia a fare il frutto e che siamo noi grandi a perdere tempo dietro cose inutili.

I bambini lo sanno che il mare porta regali bellissimi, o forse, come direbbe Amadou, non è il mare… ma va bene lo stesso. “Tu dici che è il mare che mi ha portato da te, ma secondo me è stato Dio che ci ha fatto incontrare”.

di Daniela Mussano

 

La falsa dicotomia fra rifugiati e migranti economici, Anne Althaus

Tag

, , , , ,

La comunità internazionale è alle prese con una situazione tragica e complessa. Conflitti, disastri naturali, degrado ambientale e una ripartizione sfacciatamente diseguale delle risorse hanno spinto milioni di persone a partire. Questo livello di mobilità senza precedenti ha portato a dibattiti nel mondo politico, nei media e nella pubblica arena sulla terminolgia appropriata per definire i vari schemi migratori e le varie tipologie di migranti. In queste discussioni, la nozione di “rifugiato” è quasi sempre contrapposta ai “migranti economici”. Tuttavia, questa dicotomia non è solo infelice, bensì inaccurata.

Migrante economico: una ambigua (non)-espressione

Il termine “migrante economico” è privo di definizione legale. Non viene menzionato in nessuno strumento della giurisdizione in materia di migrazione. “Lavoratore migrante” è utilizzato nella Convenzione delle Nazioni Unite sulla Protezione di tutti i Lavoratori Migranti e dei Membri delle loro Famiglie per indicare una persona impegnata in una attività remunerata in uno stato di cui non è cittadino. D’altra parte, “migrante” è un termine neutro che implica qualcuno che liberamente si sposti o si sia spostato oltre una frontiera internazionale – o in un Paese diverso dal luogo di residenza. Una persona può quindi essere un migrante a prescindere dal suo status legale (con o senza documenti) e dal fatto che abbia scelto deliberatamente o meno di spostarsi. Eppure, “migrante economico” viene comunemente usato nel dibattito pubblico con un’infelice connotazione derogatoria. Di frequente implica che il migrante abbia liberamente di spostarsi col solo scopo di migliorare la propria situazione finanziaria, detto altrimenti per “convenienza personale”. Nella sua accezione peggiore, si allude al fatto che i “migranti economici” si spostino per “rubare” i lavori e i vantaggi sociali del Paese dove si recano.

2

Ph. Antonio Parrinello / Foto Parte di un Progetto su Migrazione e Antimafia: https://collettivoantigone.wordpress.com/2019/03/20/collettivo-antigone-migrazione-legalita-e-antimafia-2/

Migrazioni miste: una realtà complessa

La grossolana dicotomia “rifugiato” – “migrante economico” crea due categorie ben distinte e dà l’ingannevole impressione che solo i rifugiati meritino protezione legale e diritti a livello internazionale, ma la realtà è ben diversa e ben più complessa. Nei movimenti migratori ci sono vari tipi di migranti con esigenze di protezione specifiche anche qualora non fuggano da persecuzione e conflitti. Fra loro rientrano i bambini migranti accompagnati e non, le vittime di tratta, i migranti che cercano di ricongiungersi con le proprie famiglie e quelli colpiti da disastri naturali o degrado ambientale come conseguenza del cambiamento climatico.

Altri migranti lasciano il paese di origine perché non hanno accesso ai diritti sociali, quali diritto alla salute e all’istruzione. Inoltre, molti migranti partono perché il sistema sanitario nel loro Paese è così carente che se i loro figli si ammalano di malattie comuni quali la malaria il rischio di morire è molto alto. C’è inoltre chi fugge da trattamenti disumani, come il lavoro forzato, e che andrebbe protetto secondo il principio del non-refoulement in base al quale non si può riportarli nel loro Paese di origine anche se non rientrano necessariamente nella definizione di rifugiato. I migranti non possono essere ridotti a migranti economici o rifugiati perché è molto difficile isolare un’unica causa di migrazione. Pertanto, mentre “migrazione forzata” viene debitamente usato la comunità internazionale per indicare movimenti di rifugiati o sfollati interni, si tenga a mente che anche ad altri tipi di migranti non resta che partire e non per convenienza personale. Per questo motivo il termine migrante economico andrebbe evitato, preferendovi piuttosto il termine neutro “migrante” o il termine legale già esistente “lavoratore migrante” quando applicabile.

Tutti i migranti hanno diritti.

I rifugiati beneficiano di un regime legale specifico che dà loro protezione internazionale, con riferimento alla Convenzione del 1951, che consente loro di ottenere l’asilo nel Paese di destinazione. Gli altri migranti, tuttavia, hanno diritti umani nei Paesi di origine, transito e destinazione, fra cui il diritto alla vita, alla salute, all’integrità fisica, alla non-discriminazione e al lavoro. Se da un lato gli stati hanno le loro leggi e procedure relative all’immigrazione, hanno sempre l’obbligo di rispettare le norme internazionali cui si sono vincolati, anche quando si confrontano con sfide migratorie e timori legali alla sicurezza. L’uso corretto della terminologia legata alla migrazione e la corretta applicazione del Diritto Internazionale sulla Migrazione non sono questioni di beneficienza, ma si tratta piuttosto di proteggere la dignità umana e quindi la stabilità e l’ordine pubblico a beneficio di tutti noi.

Traduzione di Maria Grazia Patania

Original IOM article available here

Un anno di scuola con Antigone dalla Giordania all’Africa Occidentale, passando per la Sicilia in attesa di Siria e Iraq

Tag

, , , , , , ,

Era il 24 febbraio 2018 quando sono entrata per la prima volta nell’allora IV A della scuola primaria dell’istituto comprensivo Orso Mario Corbino. Ero in attesa che arrivassero Alessio Mamo e Marta Bellingreri che ci avrebbero spiegato cosa significhi essere una giornalista e un fotografo oggi e guidati in un intenso viaggio in Giordania. Prima del loro arrivo ho approfittato per spiegare cosa fosse il Collettivo Antigone e perché fossi lì quella mattina. Anna, capelli lunghi lisci, carnagione chiarissima, voce sottile, alza la mano e mi dice “Ma chi te l’ha fatto fare?”. Al suo tono serissimo seguono una serie di assensi in sottofondo ed è palese che la sua domanda non ha nulla a che vedere col classico “Ma cu tu fici fare” degli adulti.

La differenza era lì: Anna in quella domanda aveva messo tutta la serietà del caso. Quella bambina di nove anni mi stava chiedendo cosa mi avesse portata a considerare la migrazione affar mio, ad “impicciarmi” di questa cosa che in tv va avanti per numeri e cifre con volti anonimi facili da dimenticare. Abbiamo ricordato le scuole verdi dove conobbi nel 2014 Ibrahim che sarebbe diventato fratello di Letizia la quale ora mi scruta coi suoi grandi occhi verdi, soddisfatta per questa presenza in comune. Abbiamo parlato del senso della memoria e della necessità di comprendere il cuore degli altri, tendendo mani e fornendo appigli.

Subito dopo arrivano Marta e Alessio che in quei giorni aveva appreso di essere finalista World Press Photo con la foto della piccola Manal sfigurata dalla guerra a Kirkuk, in Iraq. Attraverso questa bambina di 11 anni, Alessio e Marta hanno spiegato il lavoro dell’ospedale di tutte le guerre che a Amman in Giordania il team di MSF porta avanti per ricucire esseri umani fatti a brandelli da interminabili conflitti. Il bianco e nero a rappresentare le ferite, il dolore. I colori a simboleggiare la ripresa, la guarigione o il percorso verso di essa. Dopo aver smontato qualsiasi retorica sulle guerre giuste con l’evidenza delle loro conseguenze più drammatiche, ci siamo salutati con la speranza che un giorno sia Manal stessa a venirci a trovare per “colorare insieme”.

Meno di due mesi dopo, è venuto da noi Luca Pistone, fotoreporter e giornalista in zone di conflitto per l’agenzia di stato messicana Notimex ed esperto di Africa Occidentale. Luca era appena tornato dal Congo e ci ha raccontato cosa significhi vivere in un Paese dove la violenza fa storicamente parte della quotidianità dei suoi abitanti con pesanti ripercussioni soprattutto per le donne. Il centro dell’incontro, però, sono stati i visti e i documenti per muoversi in questi Paesi. Luca ha spiegato cosa deve fare prima di partire e risposto alla domanda “Ma perché i migranti vengono senza documenti?”. Perché glieli neghiamo, costringendoli a rivolgersi ai trafficanti che aumentano tratta e criminalità. Ma la parte che ricordano tutti e tutte con maggior precisione è stato il viaggio in Vespa che Luca ci ha fatto fare attraversando vari Paesi dell’Africa Occidentale dal Senegal al Mali, al Gambia, alla Guinea Bissau grazie al progetto che cura con Andrea De Georgio.

Dopo una lunga pausa, ci siamo rivisti a novembre insieme a Sergio Lima, portavoce del Presidente della Commissione Antimafia all’Ars e capo dell’ufficio legislativo 100Passi all’Ars. Con Sergio abbiamo parlato di mafia, illegalità e buone pratiche per contrastarla. “Immaginate di andare ogni giorno in un parco giochi che vi piace tanto e d’improvviso arriva qualcuno che vi impedisce di entrare o vi chiede denaro per farlo. Ecco questo è un atteggiamento mafioso”. La domanda che ricorreva più spesso riguardava il motivo per cui qualcuno scelga deliberatamente di fare male ad altri e cosa si possa fare nel proprio piccolo per evitare questi abusi. Inevitabile parlare di caporalato, di sfruttamento, di schiavitù nelle campagne siciliane dove silenziosamente si ammassano centinaia e centinaia di braccianti agricoli privi delle tutele più elementari. Erano i giorni delle discussioni sul cosiddetto decreto sicurezza e abbiamo anticipato il disastro umanitario che si sarebbe concretizzato di lì a poco. Di fronte alle immagini di Cassibile con le sue povere baracche di migranti abbandonati a se stessi, i bambini e le bambine faticavano a credere che fossero state scattate “dietro casa nostra”.

image2 (1)

Proprio grazie a Sergio a marzo siamo andati in visita all’ARS, visitandone la sede e assistendo ad una seduta d’aula per insegnare che la democrazia non è una fantasia astratta, ma una realtà da coltivare ogni giorno nelle nostre azioni. Tuttavia, la parte più entusiasmante della giornata è stata senza dubbio la visita all’osservatorio astronomico dove i bambini hanno visto strumenti antichissimi e filmati modernissimi della via Lattea realizzati proprio per far loro conoscere una parte di cielo. La partenza alle 6:30 del mattino e il rientro la sera tardi non hanno scalfito minimamente le loro energie. Tuttavia, era impossibile non pensare che, se fossimo stati in Siria, a Gaza, in Iraq e in mille altri luoghi, avremmo potuto essere un danno collaterale, un bersaglio o degli scudi umani per guerre di cui non avremmo capito nulla.

A gennaio sono tornata da sola per raccontare il Burkina Faso, la lotta delle madri che strappano i figli alla malnutrizione, i tramonti impossibili, il cielo stellato visto per la prima volta e i bambini che si guastano la salute nelle miniere d’oro informali. Con la foto di Maurice, 9 anni, loro coetaneo abbiamo discusso di lavoro minorile, diritto all’istruzione e dovere di rimediare alla strutturale ingiustizia senza abituarsi mai ad essa. Il filo rosso che teneva unite le nostre parole era Raoul, alunno di questa classe e unico privilegiato ad esser nato in Burkina Faso prima di arrivare ad Augusta anni fa con la sua famiglia adottiva. Il 15 marzo abbiamo parlato di Greta Thunberg, ambiente e cambiamento climatico per accennare ai fattori climatici come cause dirette o indirette dell’esodo di massa di milioni e milioni di persone. Ambiente e inquinamento in un territorio come quello di Augusta non sono effimera speculazione teorica, ma drammatica quotidianità fra tumori, malformazioni e degrado ambientale.

image1 (3)

Meno di due settimane dopo, la classe ha incontrato Francesco Malavolta che -emozionatissimo- ha spiegato il suo lavoro e mostrato le sue foto, raccontando le storie dei tanti bambini ritratti. Cosa significa essere un bambino o una bambina costretta a migrare? Quali sono gli ostacoli che incontra? Come si vive in un campo profughi abbandonato ai margini dell’Europa fra sporcizia e violenze? Cosa possiamo fare noi per rendere meno traumatica la loro esperienza? Ancora una volta, nel nostro dialogo, tornano Letizia e suo fratello Ibrahim che viene dal Gambia e che con me ha mangiato il suo primo arancino in un bar vicino le scuole verdi che lo ospitavano all’epoca.

Ma l’anno non è ancora finito e lo chiuderemo in bellezza con Sara Manisera e Arianna Pagani che verranno a trovarci dal 3 al 6 maggio per raccontarci cosa significhi essere donne oggi al di là dei confini geografici, delle etichette e degli stereotipi. Per noi del Collettivo Antigone, sarà un momento speciale perché finora avevamo ospitato solo una donna, Marta Bellingreri, e invece così bilanceremo le presenze. Sara e Arianna saranno il nostro “regalo” di fine anno affinché ogni bambina possa trovare in loro un modello, una fonte di ispirazione. Affinché Anna, Letizia, Brenda, Alexandra e le altre sappiano che il mondo non è una prerogativa degli uomini. Affinché Valerio, Aldo, Michele, Salvatore, Raoul e gli altri imparino a fare squadra con le loro coetanee nel pieno rispetto delle loro capacità.

Un grazie speciale lo dobbiamo alla dirigente del secondo istituto comprensivo O.M. Corbino, Maria Giovanna Sergi, che ci ha dato la fiducia e il coraggio necessari per intraprendere questo percorso. Alle maestre Antonia Zoncheddu e Antonietta Lanzarone che sono sempre pronte ad accoglierci a braccia aperte, preparando in modo impeccabile la classe. Ma soprattutto ai bambini, alle bambine e alle loro famiglie che sono il cuore di questi incontri in un continuo scambio di dare e avere.

Una cosa è sicura: in quest’ultimo anno io sono cresciuta moltissimo grazie alla loro spontanea irruenza, alle loro battute e alle loro infinite domande. Soprattutto sono felice che, superata la diffidenza iniziale, sono ormai diventata un misto fra una zia giovane e l’amica stramba che frequenta persone interessanti.

di Maria Grazia Patania

Il filo rosso del Sud: lavoro, dignità, migrazione

Tag

, , , , , , ,

“Anche noi di pelle nera siamo lavoratori e vogliamo essere visti come lavoratori o giovani in cerca di occupazione. Ci chiamate extra-comunitari, a volte anche clandestini.”, Lamin in una sola frase riassume buona parte delle contraddizioni della nostra società. Il suo vivo corpo testimonia ciò che la politica nega per eludere la propria incapacità: migrazione, sfruttamento travestito da lavoro, diritti e questione occupazionale.

Sono dei migranti ad aprire il corteo svoltosi a Siracusa sabato 13 aprile per chiedere lavoro e dignità, per risolvere la strutturale carenza di lavoro e superare una visione di sviluppo incompatibile con l’ambiente che danneggia il territorio e chi lo abita. In prima fila anche i rappresentati istituzionali dei comuni della provincia siciliana durante un corteo che restituisce speranza nel futuro.

Padre Carlo d’Antoni -storicamente impegnato nell’accoglienza e nella lotta al caporalato- è chiaro come sempre nell’individuare il cuore della questione: siamo arrivati al punto di dover ribadire concetti che dovrebbero essere assodati e scontati quali lavoro e dignità. La disoccupazione non è una piaga astratta. È il nostro mancato pane quotidiano, la spina nel fianco che ci incattivisce ogni giorno, aizzandoci gli uni contro le altre a beneficio dei padroni che sfruttano tutti. Per anni abbiamo volutamente ignorato il potenziale devastante del capitalismo, parole quali fabbriche e operai sembravano superate e obsolete per noi immersi nel turbinio di sviluppo e tecnologia. Nel frattempo, il proletariato si sbriciolava, frammentandosi dentro una vasta costellazione dello sfruttamento.

image1 (2)

Gli operai hanno smesso di credere nel ruolo dei sindacati che non si sono dimostrati sufficientemente in grado di tutelarne gli interessi e di rappresentarne le istanze. Affascinati dal progresso, abbindolati dalla conseguente ricchezza ci siamo sentiti al riparo dai soprusi delle fabbriche di inizio 900. Le nostre conquiste erano ormai assodate, l’economia avanzava a grandi passi e tutto sarebbe andato bene. Certo, qualcuno andava ancora via per trovare lavoro, ma il petrolchimico assorbiva migliaia di lavoratori avvelenandoci ogni giorno e ricompensandoci col denaro che ora manca.

Non si toglie mai tutto insieme. Qui ad esempio il futuro ce lo hanno sbranato un morso alla volta in una terra che -come ricorda Lamin- ha saputo dare il meglio nell’incontro con le altre culture da cui è nato il mosaico che ci compone. La Sicilia non la spieghi. La Sicilia la vivi con tutte le sue contraddizioni e il suo oscillare fra estremi impensabili. Siamo la terra della mafia e del caporalato, ma anche quella dell’accoglienza e della solidarietà più commuovente. In piazza sono molti i giovani migranti che sventolano bandiere, sorridono, tengono striscioni, cercano un contatto e un dialogo con chi affolla la piazza. Fra loro incontro Yussuf, profugo sudanese conosciuto a giugno 2018 a Cassibile dove viveva su una tenda fissata su due pallet di cui era particolarmente soddisfatto.

Mi torna in mente la Germania quando, oltre alla lingua e al lavoro, imparavo cosa vuol dire essere una risorsa e non un ostacolo. Arrivata senza spiccicare una parola, ignara di cosa avrei dovuto fare, in perenne lotta col programma gestionale della ditta che mi aveva assunto, mi scoraggiavo spesso chiedendo al mio capo tedesco perché avesse preso proprio me che dovevo imparare tutto. “Perché sei un investimento. Mentre impari, hai occhi nuovi e ti accorgerai delle cose storte che per noi sono diventate scontate. Noi abbiamo fatto sempre così, ma tu troverai il tuo modo. E magari sarà quello giusto”. Mentre tentavo di sopravvivere alle ore in ufficio, ai corsi di tedesco la sera, ai verbi irregolari da mandar giù 20 per volta in attesa degli esami alla fine di ogni mese, mi ripetevo quelle parole. Occhi nuovi. Investimento.

Nel 2014, due anni dopo il mio arrivo, l’azienda era molto cambiata, i clienti aumentavano e io riuscivo a comunicare decentemente con loro che nel frattempo si erano affezionati al mio accento italiano e al vizio di ripetere i numeri per essere sicura di non scombinare unità e decine. Occhi nuovi. Occhi che trovano modi alternativi di superare inghippi vecchi. Investimento a lungo termine.

Tornata a casa in ferie, nel mese di maggio, quegli occhi li ho trovati nelle decine e decine di minori non accompagnati del centro di prima accoglienza improvvisato nella mia ex scuola elementare ad Augusta. La mia determinazione ad imparare, la mia risolutezza nel farmi valere, la mia irremovibilità nel riuscire a conquistarmi una posizione lavorativa dignitosa e ben retribuita le ho trovate in Youba che, coi primi 5€, ha acquistato un piccolo dizionario francese-italiano.

Nei tanti adolescenti conosciuti ho trovato la mia paura della terra straniera, in MB ho trovato un amico saggio che mi dice di avere pazienza ogni volta che io scalpito e vorrei distruggere il mondo intero per ricostruirlo a misura di umanità. Nella solitudine dei migranti, ho riconosciuto la mia solitudine. Nelle nostre telefonate la sera ci siamo raccontati la speranza, la nostalgia di casa, la paura che il futuro non realizzi i nostri desideri e abbiamo rimasticato il sapore acre della delusione.

La mia terra li respingeva dopo averli accolti dal mare allo stesso modo in cui aveva respinto me dopo avermi partorita, costringendomi alla fuga in un Paese estero. Solo che io ero un cervello in fuga, mentre loro erano gli schiavi necessari al nostro benessere. “Non solo hanno da mangiare. Pure si lamentano. Ma perché non se ne tornano a casa loro?”. Questi erano i commenti più diffusi, come se la loro vita e la loro dignità venissero gentilmente concesse da noi magnanimi benefattori. Come se l’accoglienza giustificasse le nostre angherie e i nostri soprusi. Come se il lavoro dovesse per forza significare oltraggio ai diritti.

La nostra terra è arida per tutti e gli occhi nuovi dei migranti e delle migranti sono lo sguardo necessario per plasmare un futuro libero da padroni che affamano tutti. Non a caso erano in apertura, non a caso erano compatti e lucidi nel chiedere lavoro, dignità, diritti. Per tutti, anche per noi comodamente a casa o aggrappati ai nostri lavori precari. Anche per chi affonderebbe i barconi, vota sciacalli in cambio di bugie sulla sicurezza e vorrebbe cancellarli dalla faccia della terra. Non a caso sono convinta che siano loro la vera speranza per ricostruire casa nostra. Tuttavia divisi non caveremo un ragno dal buco. Solo uniti e indivisibili potremo “osare inventare l’avvenire”.

di Maria Grazia Patania

Prima le donne e i bambini. Buon viaggio, umanità.

Tag

, ,

Le donne a bordo della Alan Kurdi sono ancora intrappolate sulla nave coi loro figli mentre continua il ripugnante braccio di ferro fra gli Stati europei e dopo l’augurio di “buon viaggio” fatto dal governo italiano. Preso atto del rifiuto di abbandonare mariti e compagni sbarcando a Lampedusa senza nessuna garanzia di rivederli presto, dovremmo chiederci cosa significhi l’espressione abusata “Prima le donne e i bambini”.

Niente, non vuol dire niente. È solo l’ennesima espressione vuota a cui ci ha abituati l’attuale classe politica fatta di personalità ciniche e abiette. Il governo dei taxi del mare, della pacchia, della violenza sdoganata ad ogni livello, del machismo traboccante riesce a superare costantemente il limite della decenza fra gli applausi del popolo italiano.

6N7A1396

Ph. Francesco Malavolta

Da anni ormai ci siamo abituati a dubitare di tutto, a mettere sotto accusa la solidarietà, ad allungare pesanti ombre sulla società civile che si adopera per colmare le scandalose lacune lasciate da uno stato negligente ed incapace. Abbiamo smesso di contare le morti in mare, di preoccuparci dei dispersi, di tutelare diritti e doveri, abbiamo ceduto a un livore ottuso che stordisce senza lasciare spazio al ragionamento.

Cosa significa prima le donne e i bambini in un contesto come quello del post-soccorso sulla Alan Kurdi dove 64 persone sono costrette da giorni a vivere in condizioni di promiscuità e disagio? Cosa significa permettere -quasi per gentile concessione- lo sbarco di donne e bambini, lasciando ad un destino incerto il resto dei naufraghi?

Significa mostrare il volto più miserabile del patriarcato con un razzismo vagamente edulcorato per non urtare eccessivamente la sensibilità di un’audience sempre più disumana. Nonostante si sia ormai persa qualsiasi empatia, si cerca maldestramente di salvare le apparenze, mandando messaggi ambivalenti. Le donne e i bambini sono deboli, ce li prendiamo. Gli uomini palestrati non ci riguardano. In questo modo, con una sola miserabile frase, si ribaltano decenni di conquiste e la donna torna ad essere una cosuccia insignificante da proteggere a convenienza secondo precisi calcoli politici. I bambini, tenuti al freddo per giorni, diventano pedine della propria scacchiera con cui mascherare la barbarie. Gli uomini, i ragazzi possono essere facilmente sacrificati perché “rubano, spacciano, violentano, sono palestrati e hanno il cellulare”. Chi se ne frega di loro.

Ma chi se ne frega anche del diritto delle famiglie a rimanere unite. Chi se ne frega di questi padri e di queste madri che hanno superato l’inferno insieme e ora devono scegliere fra toccare terra o separarsi. Loro non rientrano nel prototipo da slogan della famiglia sbraitata al congresso di Verona. Queste coppie non contano, i migranti non contano. Gli “altri” non contano.

La retorica di chi ci rappresenta è rivoltante e manca totalmente di senso logico. La propaganda si smaschera facilmente però dal momento che non si capisce perché le donne vadano tutelate solo in determinate occasioni di pura convenienza, mentre per il resto del tempo non ci riguardano. Le migliaia di ragazze, bambine e donne chiuse nei centri di detenzione libici sono meno importanti? Sappiamo cosa subiscono con estrema dovizia di particolari, conosciamo le sevizie e le perversioni dei loro carcerieri. Dunque, perché le rimandiamo indietro alla prima occasione? Perché davanti alle coste di Lampedusa fingiamo di volerle proteggere e in Libia dove lo stupro è prassi quotidiana le rimandiamo/intrappoliamo a cuor leggero?

Perché non apriamo immediatamente canali umanitari, come chiesto urgentemente dall’ONU a fronte di una nuova escalation di scontri che mettono a rischio la vita di chiunque si trovi nel Paese? Perché quel mezzo milione di bambini bloccato fra Tripoli e le aree circostanti cui si riferisce l’UNICEF non ci riguarda? Perché, una volta recuperati i 64 naufraghi salvati dalla Alan Kurdi, abbiamo smesso di pensare ai 50 dispersi di cui Alarm Phone aveva dato notizia? Mentre scrivo, altre 20 persone sono in balìa delle onde su un gommone al largo della Libia nell’inerzia di Malta e Italia che fanno sfoggio della propria codardia. Si sa già che almeno otto esseri umani sono caduti in acqua. Perché di loro non ci importa?

Ma soprattutto: perché uomini e ragazzi avrebbero meno diritto a mettersi in salvo, a scendere dalla nave che li ha salvati, ad essere accolti, curati e rifocillati? Secondo quale base giuridica? Quale norma dopo un naufragio impone ulteriore attesa a uomini e ragazzi? Perché dovremo pur agire secondo legge. Non vorremo mica affidarci al caso, o peggio ancora alla propaganda di politicanti che faticano a formulare frasi sintatticamente corrette. O no?

Noi donne siamo stanche di essere pedine, di valere un tot al chilo secondo la convenienza e l’opportunismo. Noi donne non ce ne facciamo nulla del desiderio machista di proteggerci a fasi alterne a scapito di altri esseri umani. Noi donne chiediamo diritti, rispetto e dignità per le nostre sorelle migranti, per i loro figli, per i loro compagni, per ogni essere umano in cammino verso la pace e la sicurezza. Noi donne non consideriamo la vita una gentile concessione del maschio di turno, né cediamo alla retorica dei diritti trasformarti in privilegi per i più fortunati. Smettiamola di scambiare la vulnerabilità per debolezza. Dateci diritti, dignità e rispetto. Al resto pensiamo noi.

di Maria Grazia Patania