La comunità internazionale è alle prese con una situazione tragica e complessa. Conflitti, disastri naturali, degrado ambientale e una ripartizione sfacciatamente diseguale delle risorse hanno spinto milioni di persone a partire. Questo livello di mobilità senza precedenti ha portato a dibattiti nel mondo politico, nei media e nella pubblica arena sulla terminolgia appropriata per definire i vari schemi migratori e le varie tipologie di migranti. In queste discussioni, la nozione di “rifugiato” è quasi sempre contrapposta ai “migranti economici”. Tuttavia, questa dicotomia non è solo infelice, bensì inaccurata.
Migrante economico: una ambigua (non)-espressione
Il termine “migrante economico” è privo di definizione legale. Non viene menzionato in nessuno strumento della giurisdizione in materia di migrazione. “Lavoratore migrante” è utilizzato nella Convenzione delle Nazioni Unite sulla Protezione di tutti i Lavoratori Migranti e dei Membri delle loro Famiglie per indicare una persona impegnata in una attività remunerata in uno stato di cui non è cittadino. D’altra parte, “migrante” è un termine neutro che implica qualcuno che liberamente si sposti o si sia spostato oltre una frontiera internazionale – o in un Paese diverso dal luogo di residenza. Una persona può quindi essere un migrante a prescindere dal suo status legale (con o senza documenti) e dal fatto che abbia scelto deliberatamente o meno di spostarsi. Eppure, “migrante economico” viene comunemente usato nel dibattito pubblico con un’infelice connotazione derogatoria. Di frequente implica che il migrante abbia liberamente di spostarsi col solo scopo di migliorare la propria situazione finanziaria, detto altrimenti per “convenienza personale”. Nella sua accezione peggiore, si allude al fatto che i “migranti economici” si spostino per “rubare” i lavori e i vantaggi sociali del Paese dove si recano.
Migrazioni miste: una realtà complessa
La grossolana dicotomia “rifugiato” – “migrante economico” crea due categorie ben distinte e dà l’ingannevole impressione che solo i rifugiati meritino protezione legale e diritti a livello internazionale, ma la realtà è ben diversa e ben più complessa. Nei movimenti migratori ci sono vari tipi di migranti con esigenze di protezione specifiche anche qualora non fuggano da persecuzione e conflitti. Fra loro rientrano i bambini migranti accompagnati e non, le vittime di tratta, i migranti che cercano di ricongiungersi con le proprie famiglie e quelli colpiti da disastri naturali o degrado ambientale come conseguenza del cambiamento climatico.
Altri migranti lasciano il paese di origine perché non hanno accesso ai diritti sociali, quali diritto alla salute e all’istruzione. Inoltre, molti migranti partono perché il sistema sanitario nel loro Paese è così carente che se i loro figli si ammalano di malattie comuni quali la malaria il rischio di morire è molto alto. C’è inoltre chi fugge da trattamenti disumani, come il lavoro forzato, e che andrebbe protetto secondo il principio del non-refoulement in base al quale non si può riportarli nel loro Paese di origine anche se non rientrano necessariamente nella definizione di rifugiato. I migranti non possono essere ridotti a migranti economici o rifugiati perché è molto difficile isolare un’unica causa di migrazione. Pertanto, mentre “migrazione forzata” viene debitamente usato la comunità internazionale per indicare movimenti di rifugiati o sfollati interni, si tenga a mente che anche ad altri tipi di migranti non resta che partire e non per convenienza personale. Per questo motivo il termine migrante economico andrebbe evitato, preferendovi piuttosto il termine neutro “migrante” o il termine legale già esistente “lavoratore migrante” quando applicabile.
Tutti i migranti hanno diritti.
I rifugiati beneficiano di un regime legale specifico che dà loro protezione internazionale, con riferimento alla Convenzione del 1951, che consente loro di ottenere l’asilo nel Paese di destinazione. Gli altri migranti, tuttavia, hanno diritti umani nei Paesi di origine, transito e destinazione, fra cui il diritto alla vita, alla salute, all’integrità fisica, alla non-discriminazione e al lavoro. Se da un lato gli stati hanno le loro leggi e procedure relative all’immigrazione, hanno sempre l’obbligo di rispettare le norme internazionali cui si sono vincolati, anche quando si confrontano con sfide migratorie e timori legali alla sicurezza. L’uso corretto della terminologia legata alla migrazione e la corretta applicazione del Diritto Internazionale sulla Migrazione non sono questioni di beneficienza, ma si tratta piuttosto di proteggere la dignità umana e quindi la stabilità e l’ordine pubblico a beneficio di tutti noi.
Traduzione di Maria Grazia Patania
Original IOM article available here