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Collettivo Antigone

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Collettivo Antigone

Archivi della categoria: Auschwitz

Cos’è successo quando i migranti si sono trasferiti nel paesino siciliano della mia famiglia

25 venerdì Gen 2019

Posted by francescacola in 2019, Africa, Alessio Mamo, Antifascismo, antisemifobia, antisemitismo, Auschwitz, Collettivo Antigone, Francesca Colantuoni, Giorni della Memoria, I Giorni della Memoria 2019, Lorenzo Tondo, Nazismo, Olocausto, Olocausto del Mare, Razzismo, Refugees Welcome, Senza categoria, Sicilia, Tornate a Casa Vostra, Traduzioni

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Africa, Alessio Mamo, Antigone, Collettivo Antigone, Francesca Colantuoni, I Giorni della Memoria 2019, Olocausto, Olocausto del Mare, Refugees Welcome, Restiamo umani, Testimonianze, The Guardian, The Observer, Traduzioni

Sutera in Sicilia. Fotografia di Alessio Mamo per il The Observer

I rifugiati stanno dando una nuova vita alla morente città natale del suocero di Lorenzo Tondo. Se solo la destra in ascesa riuscisse a capirlo.

Di Lorenzo Tondo
Sabato 27 ottobre 2018 – The Guardian

Ogni pomeriggio alla stessa ora, seduto sulla stessa panchina, mio suocero Rosario Buttaci, guarda in silenzio John Babalola Wale e la sua famiglia incamminarsi sul ripido sentiero del paesino di Sutera che porta da piazza Europa al vecchio quartiere arabo Rabato.

Ai tempi di Rosario, lo “straniero” che veniva in questo pittoresco paesino siciliano arrivava da Palermo, distante 100 km, o dalla vicina Agrigento. Ma Wale, 35 anni, viene dallo stato di Ekiti, in Nigeria e ha raggiunto Sutera quattro mesi fa dopo un viaggio lungo 6000 km. Ora vive con sua moglie e un figlio, come decine di africani richiedenti asilo arrivati dal continente per vivere qui.

“Il mondo sta cambiando”, dice Rosario, architetto in pensione di 65 anni nato, cresciuto e desideroso di invecchiare in questo paesino, come ha fatto la sua famiglia per generazioni. “E Sutera è parte di questo cambiamento”.

Alla fine degli anni ’50, quando Rosario era un ragazzo, a Sutera vivevano 5000 persone e c’erano 5 alimentari, 5 taverne, un calzolaio e un fabbro. “Al tramonto le strade si riempivano di minatori e contadini e le luci delle taverne restavano accese fino a tarda sera”, ricorda. “Sutera era viva, si aveva la sensazione che nulla avrebbe mai potuto cambiare quell’atmosfera gioiosa e accogliente”.

Ma il cambiamento arrivò. Le miniere di zolfo presenti nella valle chiusero e l’agricoltura industriale sostituì i muli e i contadini. La gente di Sutera iniziò ad emigrare in tutta Europa alla ricerca di lavoro, spesso nella cittadina di Dillingen in Germania, o a Woking nel Surrey, dove ancora oggi risiede una numerosa comunità Suterese. Così, Sutera è pian piano divenuta una cittadina fantasma.

“Il mondo sta cambiando”. Rosario Buttaci sulle strade del paesino dove è nato e cresciuto . Fotografia di: Alessio Mamo per il the Observer

Anche mio suocero aveva programmato il suo viaggio: sarebbe andato da suo padre, che l’anno precedente si era trasferito a Herrenberg a sud della Germania dove lavorava come muratore. Ma il 4 giugno 1963, solo qualche mese prima dell’arrivo in Germania di sua moglie e dei loro quattro figli, morì in un incidente sul lavoro. Rosario, che allora aveva 11 anni, non lasciò mai Sutera e fu costretto a disfare la valigia e attendere l’arrivo della bara di suo padre.

Oggi, dopo più di mezzo secolo, la popolazione di Sutera si è ridotta a 1200 abitanti. Mio suocero è uno di loro. Vi ha trascorso tutta la sua vita, ha assistito al graduale spopolamento del paesino che anno dopo anno rischia di scomparire dalla faccia dell’Italia. (Non è una rarità: secondo i dati forniti dall’Associazione Nazionale dei Comuni italiani, negli ultimi sei anni quasi 80.000 cittadini hanno abbandonato le cittadine italiane con meno di 5000 abitanti).

Eppure, la storia a volte si ripete in senso contrario. A ottobre 2013, un barcone pieno di migranti e rifugiati si capovolse nel Mediterraneo: morirono 368 persone e i loro corpi meritavano una degna sepoltura. Sutera, quasi completamente abitata da anziani, aveva già da tempo esaurito i posti al cimitero. Tuttavia, sebbene non ci fosse spazio per i morti, ve ne era molto per i vivi da ospitare nelle centinaia di case lasciate vuote da coloro che avevano abbandonato il paesino per andare all’estero alla ricerca di lavoro. Nel 2014, il sindaco di Sutera consentì che lo stato italiano sistemasse i richiedenti asilo nelle case vuote della sua comunità. Sutera entrò a far parte di un programma di reinsediamento che finanzia le città che ospitano un certo numero di migranti. Come Wale e la sua famiglia.

Famiglie dal Mali e dalla Nigeria a lezione di italiano nella scuola di Sutera. Fotografia di: Alessio Mamo per il The Observer

La scorsa settimana, nel tardo pomeriggio, ho fatto una passeggiata con il nigeriano proveniente da Ayede Ekiti. Appoggiato a una ringhiera, guardava un gruppo di anziani seduti su una panchina e mi diceva che se cinque anni fa qualcuno gli avesse detto che presto avrebbe vissuto in un piccolo paesino siciliano, lui gli avrebbe riso in faccia.

“Assolutamente! Pensavo che avrei vissuto tutta la vita nello stato di Eskiti. Non avrei mai immaginato che un giorno avrei lasciato la mia casa in Nigeria”. Poi, però, dopo la morte dei suoi genitori, non avendo più un posto dove vivere, Wale e la sua famiglia dovettero partire. Si trasferirono in Libia dove Wale lavorava. “Ma le cose non andavano bene in Libia, rischiavamo la vita tutti i giorni”, disse. “Ecco perché decidemmo di venire in Italia. Sono felice qui. Mi considero fortunato. Non vedo l’ora di iniziare a lavorare”.

Per Sutera, alle falde del monte San Paolino nel centro Sicilia, l’arrivo dei migranti è stato una benedizione. La scuola locale rischiava la chiusura perché c’erano solo pochi studenti ma, grazie ai figli dei richiedenti asilo, è rimasta aperta. Ora il paesino è modello di integrazione replicato in diverse città italiane, compresa Riace in Calabria. Qui, il sindaco della città, “Mimmo” Lucano, ha accolto centinaia di migranti i quali, in cambio, hanno portato investimenti nella città.

Il nigeriano John Babalola Wale con sua moglie e suo figlio nella casa a Sutera. Loro con altri migranti proveninti dall’Africa stanno aiutando a ripopolare il paesino. Fotografia di Alessio Mamo per il The Observer

Ma per la destra anti-immigrazione, queste comunità rappresentano la catastrofe del 21esimo secolo: la dispersione degli italiani causata dagli stranieri. Alcuni hanno subito approfittato per diffondere allarmanti storie sul presunto legame tra l’arrivo dei migranti e l’aumento di furti e omicidi. Il ministro degli Interni di estrema destra, Matteo Salvini, non perde mai l’occasione di evidenziare i crimini commessi dai richiedenti asilo sul suo profilo Twitter, ignorando quelli commessi dagli italiani stessi.

Ho pensato alla sua retorica dell’odio mentre guardavo Wale appoggiato al busto di marmo di un poliziotto locale, Calogero Zucchetto, ucciso dalla stessa mafia siciliana che l’Italia ha esportato in tutto il mondo. Ho anche pensato al boss mafioso di New York, Lucky Luciano, il quale non proveniva dallo stato di Ekiti ma da Lercara Friddi, a soli 30 minuti da Sutera.

La scorsa settimana, mentre passeggiavamo per il villaggio, Wale aspettava i documenti necessari per iniziare a cercare lavoro. Rosario ed io lo guardavamo giocare con il figlio in piazza. In quel momento ho capito che quel bimbo nigeriano di due anni aveva più cose in comune con mio suocero di qualsiasi altro italiano. Quel bambino, 50 anni fa, sarebbe potuto essere lui a Herrenberg – se una gru non avesse tolto la vita a suo padre.

Non ebbi il coraggio di chiederglielo ma vidi il suo sorriso mentre guardava il piccolo giocare con la palla. Per me, quel sorriso, valeva più di mille risposte.

 

Traduzione di Francesca Colantuoni

Non è la stessa cosa

23 mercoledì Gen 2019

Posted by cristallina555 in 2019, Augusta, Auschwitz, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, Disobbedienza, Fotogiornalismo, Frontiera, Giornata della Memoria 2019, Giorni della Memoria, I Giorni della Memoria 2019, La memoria del futuro, Muros, Nazismo, Olocausto, Olocausto del Mare, Oswiecim, Photography, Prigioni, R-esistenza, Razzismo, Refugees Welcome, Restiamo umani, Segregazione, Senza categoria, Stay Human, Torino, Tornate a Casa Vostra

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Albania, Arbeit Macht Frei, Borders, Claviere, Collettivo Antigone, Confine liquido, Francia, indesiderabili, Modigliani, Monginevro, Montgenevre, Olocausto, Olocausto del Mare, olokautosis, Salvatore Cavalli, Visegrad, Vlora

Tante, troppe volte abbiamo paragonato le morti in mare all’Olocausto.
Un nuovo Olocausto, l’Olocausto del mare come spesso abbiamo scritto su Antigone, sbagliavamo: non esiste un Olocausto del mare.

Le parole sono importanti, lo dico almeno una volta al giorno.
Olokautosis, in greco “bruciato intero”, deriva dal rituale del holokautein durante il quale la vittima sacrificale veniva arsa al fine di ingraziarsi gli dèi.
È evidente come quello del mare non sia un Olocausto visto che non vi è alcuna pianificazione dell’eliminazione fisica; non è stata decretata alcuna Soluzione Finale perciò non possiamo parlare di Olocausto.
Se l’assetto democratico della comunità europea continuerà a subire attacchi quotidiani tramite il ribaltamento di ogni significato attraverso la propaganda, aizzando le fasce più deboli della popolazione contro un nemico “altro”, allora non escludo che i posteri potranno titolare quest’epoca come prodromo all’Olocausto del mare.
Ora no, non si può dire perché non è la stessa cosa.
I campi in Libia non possono essere paragonati ai campi di concentramento nazisti: non ci sono tatuaggi sulle braccia dei prigionieri ma segni di elettrochoc e bruciature di sigaretta, stupri, frustate, digiuni e ogni tipo di tortura fisica e psicologica. Non ci sono file di baracche di legno in mezzo al fango, solo gabbie o celle o filo spinato (ma quello c’era anche nei lager). Non ci sono le SS coi cani e i fucili e i loro ordini urlati senza tregua, ci sono solo trafficanti di schiavi e una guardia costiera farsesca finanziata per impedire all’umanità di attraversare il mare.
Non possiamo parlare mica di Olocausto se non c’è eliminazione fisica pianificata, se non c’è sterminio degli indesiderabili.
Noi non possiamo parlare di Olocausto e forse non potranno farlo i posteri visto che non resterà traccia: non ci sarà la conta delle valigie ne’ delle scarpe o dei capelli che vediamo nelle teche di Oswiecim. Oggi lasciamo fare il lavoro sporco alla Natura matrigna e nessuno ci chiederà cosa facevamo, dove eravamo, cosa dicevamo perché mancheranno le prove fisiche per incriminarci.
La storia semplifica, così oggi tendiamo a identificare i nazisti e i fascisti coi militari in divisa ma non ci rendiamo conto che in un regime totalitario tutti sono nazisti e fascisti per mancanza d’alternative o per fede.
I revisionisti esistono persino laddove le prove sono evidenti: le camere a gas esistono, ci sono entrata e anche i forni crematori stanno lì, cosparsi ancora di quella cenere sottile che somiglia alla cipria ma non è cipria e Arbeit Macht Frei si legge ancora sulla Porta Infernale; figuriamoci con quanto zelo rinnegheremo questo non-Olocausto, d’altronde ci limitiamo al non-salvataggio, alla non-accoglienza e alla non-integrazione. Mica li deportiamo, sgomberiamo soltanto. Mica li rimpatriamo, lo urliamo tante volte finché non sembra vero.
Durante questo non-Olocausto facciamo rimbalzare ogni responsabilità da un confine all’altro dell’Europa, Unione che è preda di un bipolarismo le cui parti, seppur avversarie, sembrano fare l’una il gioco dell’altra mantenendo di fatto uno stallo insopportabile il cui prezzo viene pagato in vite umane.
In questo contesto che vede i nazionalisti apertamente xenofobi contrapporsi agli europeisti, l’Italia strizza l’occhio ai primi definendo a dir poco vantaggiosi i rapporti con il gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca) che, per la cronaca, deve il suo nome a un accordo economico tra Boemia, Polonia e Ungheria risalente alla prima metà del 1300. Continua a leggere →

Il figlio di Saul: la salvezza dell’anima

21 lunedì Gen 2019

Posted by claudialaferla in 2019, antisemitismo, Auschwitz, Cinema, Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, I Giorni della Memoria 2019, Nazismo, Olocausto, R-esistenza, Razzismo, Restiamo umani, Senza categoria

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Auschwitz, Cinema, Claudia La Ferla, I Giorni della Memoria 2019, Il figlio di Saul, László Nemes, Olocausto

Il cinema, dice Godard, come tutte le arti, di fronte alla Shoah ha smarrito la propria missione: «la fiamma si è spenta definitivamente ad Auschwitz». Così come Charlie Chaplin che ne Il grande dittatore, film che sotto la maschera della parodia denuncia le barbarie nazi-fasciste, sembra dire “Cos’è rimasto dell’umanità? Esiste ancora dopo Auschwitz? Che fine abbiamo fatto? Forse, abbiamo perso tutti qualcosa, l’unica cosa davvero importante.

Il cinema ha riflettuto, con diverse pellicole, sull’orrore consumatosi dentro ai campi di sterminio portando sul grande schermo immagini intrise di dolore, di colpa, di strazio e di vergogna. Quella vergogna che rimane indelebile nella memoria come una ferita destinata a non rimarginarsi più. Immagini che non possono sicuramente replicare la realtà di quell’orrore ma che ci restituiscono il senso di ciò che non può essere dimenticato. Come violenti pugni allo stomaco ci percuotono mostrandoci la nostra stessa immagine, perché “tutti coloro che dimenticano il proprio passato sono condannati a riviverlo” (Primo Levi).

Così fa il film Il figlio di Saul, pellicola del 2015 del regista ungherese László Nemes, ci percuote con una durezza a volte insostenibile, portando sulla schermo una cruda battaglia emotiva attraverso la quale, dietro la morte, si sviluppa una storia di vita e di speranza. Il film si apre con un lungo piano sequenza sul volto del protagonista, Saul Auslander, indugiando sulla sua espressione che non lascia spazio ad alcuna parola. Lunghi istanti muti ma non sordi di quello strazio che permea ogni singola immagine. La parola è morta sembra dirci il film nei suoi primi minuti, perché forse niente potrà mai spiegare cosa abbiano davvero visto gli occhi di Auschwitz e di chi da lì non è più tornato. Così, l’angoscia che caratterizza la fruizione è la stessa generatrice di rabbia e dolore che si prova ascoltando i racconti dei sopravvissuti, leggendo le poesie e i libri di chi ha perso la vita, l’orrore dei documentari che mostrano un inferno che è passato da massacro a genocidio ad olocausto a Shoah… in ogni caso colpevole morte dell’umanità . Saul, il cui nome rimanda da un lato al personaggio biblico e dall’altro alla parola inglese soul, anima, è un uomo che all’interno di quell’oblio di umanità rivendica, con forza, il senso della parola salvezza. L’unica vera via per la liberazione dall’assuefazione all’orrore è poter combattere, anche da solo all’interno del proprio piccolo mondo, per la salvezza di un’anima, come se questo gesto potesse, anche solo simbolicamente, rappresentare il riscatto di tutte le altre. “Chiunque salva un vita, salva il mondo intero” (Talmud).

saul1Scena tratta dal film Il figlio di Saul

Il film, ambientato ad Auschwitz sul finire del 1944, racconta la storia di Saul Auslander, un ebreo ungherese membro di uno dei sonderkommando, gruppo di deportati che in cambio di condizioni di vita migliori si occupano della pulizia delle camere a gas e dei forni crematori. Quando si chiudono le porte di queste stanze della morte, le urla disperate delle vittime diventano protagoniste assolute dell’inquadratura con uno slittamento dal piano dell’immagine a quello puramente sonoro. Tornato l’ancora più assordante silenzio, non resta che pulire da quei poveri corpi nudi e lasciare tutto pronto per una nuova operazione, privando le nuove vittime degli abiti e dei pochi oggetti di valore che posseggono. Ma un giorno, quando Saul vede uccidere un ragazzo sopravvissuto alla camera a gas crede che possa essere suo figlio e da quel momento cerca in ogni modo di strappare il cadavere alla cremazione. A rischio della sua vita va alla ricerca di un rabbino in modo da garantirgli una degna sepoltura come se questo rappresentasse per se stesso, per quel ragazzo ma anche per tutte le vittime di Auschwitz un pezzo di umanità in mezzo ad un arido deserto.  Per tutto il film, il regista mostra con una crudezza forse mai vista prima, i corpi delle vittime all’interno dei campi di concentramento trattati come oggetti da assemblaggio, come parti di un terrificante ciclo produttivo. Tanto che i tedeschi si riferiscono ai cadaveri chiamandoli “stück”, ovvero “pezzi”, privandoli così di ogni forma di dignità umana e relegandoli a mera “merce” di un campo organizzato con la precisione e il rigore di una fabbrica.

László Nemes tratta, tra l’altro, l’interno di Auschwitz nell’unico modo possibile, quello del “non detto”. Lascia, infatti, lo sfondo sempre sfocato, confuso, a differenza del protagonista che è sempre nitido e chiaro. Lo spettatore riesce a leggere, infatti, durante tutto il corso del film, il dolore del protagonista, il suo dramma, così come restano a fuoco le persone che interagiscono con lui. Tutto quello che sta dietro, invece, sembra rimanere intrappolato in una impalpabile nebulosa. L’annullamento della profondità di campo rende perfettamente un concetto chiave: Auschwitz non può essere descritto. Nessuna immagine può replicare quell’orrore, nessun fotogramma può travestirsi dell’orrore di quel campo di sterminio. È qualcosa che non può essere ne’ mostrato ne’ compreso nel profondo. Il film usa, quindi, lo sguardo smarrito privo perfino di lacrime, del protagonista per concentrarsi su un punto che appare quanto mai essenziale: il processo di disumanizzazione che ha caratterizzato l’intero Olocausto, lasciando, in ultima analisi, allo spettatore il duro compito di immedesimarsi con quello sguardo e fare i conti con il suo stesso dolore.

Saul 3.pngScena tratta dal film Il figlio di Saul

Il figlio di Saul, film rivelazione a Cannes dove si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria, vincitore del Golden Globe come miglior film straniero e vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, parte dalla storia della famiglia del regista László Nemes sterminata ad Auschwitz nei campi di concentramento. Mentre stava girando in Corsica come assistente alla regia, durante una settimana libera, trovò in una libreria Des voix sous la cendre (La voce dei sommersi), che raccoglie gli scritti di alcuni membri dei Sonderkommando di Auschwitz. Prima della loro rivolta del 1944, nascosero queste pagine clandestine sotto terra; furono ritrovate solo molti anni dopo la fine della guerra. Si tratta di una testimonianza straordinaria – dice Nemes – descrive i compiti quotidiani dei Sonderkommando, l’organizzazione del loro lavoro, le regole con cui veniva gestito il campo e lo sterminio degli ebrei, ma anche come questi uomini riuscirono a creare una certa forma di resistenza. È così che è nata l’idea de Il figlio di Saul.

I membri Sonderkommando erano scelti dalle SS, accompagnavano gli ignari prigionieri alle camere a gas, dopo averli rassicurati e fatti spogliare: “Dopo la doccia avrete il tè”. Assistono da indiretti spettatori alla loro morte attraverso il suono straziante delle loro urla e infine puliscono il pavimento dai loro corpi e si liberano delle loro ceneri con l’intento di cancellarli dalla storia. Tutto ciò era eseguito a gran velocità, in quanto Auschwitz-Birkenau funzionava come una vera e propria fabbrica di morte a ritmi industriali – racconta ancora Nemes – gli storici stimano che nell’estate del 1944 migliaia di ebrei fossero sterminate ogni giorno. Gli Sonderkommando avevano qualche privilegio per il loro lavoro: potevano tenere il cibo trovato nei treni e avevano una minima libertà di movimento ma ogni tre-quattro mesi venivano uccisi per evitare che vi fossero testimoni. Il figlio di Saul ricostruisce anche un tentativo di rivolta dei prigionieri attuato nel 1944, l’unica rivolta armata della storia del campo, dove alcuni membri dei Sonderkommando scattarono delle foto a testimonianza dell’orrore che si stava consumando. Dice ancora Nemes: Anche il tentativo di scattare delle foto è realmente accaduto. Grazie a una macchina fotografica fatta arrivare ai Sonderkommando di Birkenau dalla resistenza polacca, quattro foto furono realizzate per testimoniare al mondo esterno quello che succedeva nei campi. Ho potuto vederle alla mostra del 2001 Mémoire des camps e mi hanno colpito profondamente.

Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. (Primo Levi).

Di Claudia La Ferla

Foto prese dal web

La poesia è una scuola di umanità. Per non dimenticare

21 lunedì Gen 2019

Posted by claudialaferla in 2019, antisemitismo, Auschwitz, Collettivo Antigone, Francesco Malavolta, I Giorni della Memoria 2019, Olocausto, Poesia, R-esistenza, Restiamo umani, Senza categoria, Testimonianze

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Anna Frank, Auschwitz, Francesco Malavolta, I Giorni della Memoria 2019, Joyce Lussu, Olocausto, Poesia, Primo Levi

Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro – diceva Adorno nel 1949 – e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie. La frase è passata alla storia perché pone l’importante questione della rappresentabilità dell’orrore. Ma Paul Celan, che l’orrore dei campi di concentramento l’aveva vissuto sulla propria pelle e che per tutta la vita se lo era portato cucito addosso, rispondendo proprio ad Adorno, ha scritto che una poesia è possibile anche ad Auschwitz. La poesia – diceva Celan – in virtù della sua essenza, e non della sua tematica, è una scuola di umanità vera: insegna a comprendere l’altro in quanto tale e cioè la sua diversità; invita alla fratellanza e contemporaneamente al profondo rispetto dell’altro, anche là dove questi si manifesta come deforme o con il naso adunco.

Se questo è un uomo di Primo Levi (1947)

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

la malattia vi impedisca,

i vostri nati torcano il viso da voi.

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Ph. Francesco Malavolta

15 luglio 1944

Ecco la difficoltà di questi tempi: gli ideali, i sogni, le splendide speranze non sono ancora sorti in noi che già sono colpiti e completamente distrutti dalla crudele realtà.

È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione.

Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte il rombo l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità.

Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili.

La tua Anna

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Ph. Francesco Malavolta

Un paio di scarpette rosse di Joyce Lussu (1944 circa)

C’è un paio di scarpette rosse

numero ventiquattro

quasi nuove:

sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica

“Schulze Monaco”.

C’è un paio di scarpette rosse

in cima a un mucchio di scarpette infantili

a Buckenwald

erano di un bambino di tre anni e mezzo

chi sa di che colore erano gli occhi

bruciati nei forni

ma il suo pianto lo possiamo immaginare

si sa come piangono i bambini

anche i suoi piedini li possiamo immaginare

scarpa numero ventiquattro

per l’eternità

perché i piedini dei bambini morti non crescono.

C’è un paio di scarpette rosse

a Buckenwald

quasi nuove

perché i piedini dei bambini morti

non consumano le suole.

Siria 1

Ph. Francesco Malavolta

Testo trovato in un Ghetto nel 1941

Da domani sarà triste, da domani.

Ma oggi sarò contento,

a che serve essere tristi, a che serve.

Perché soffia un vento cattivo.

Perché dovrei dolermi, oggi, del domani.

Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.

Forse domani splenderà ancora il sole.

E non vi sarà ragione di tristezza.

Da domani sarà triste, da domani.

Ma oggi, oggi sarò contento,

e ad ogni amaro giorno dirò,

da domani, sarà triste,

Oggi no.

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Ph. Francesco Malavolta

Al di là del filo spinato: per non dimenticare.

01 giovedì Feb 2018

Posted by claudialaferla in 2018, Antifascismo, antisemitismo, Auschwitz, Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, I Giorni della Memoria 2018, Nazismo, Olocausto, Parole del Collettivo, Restiamo umani, Riccardo Pareggiani, Senza categoria, Testimonianze

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Auschwitz, Claudia La Ferla, I Giorni della Memoria 2018, Olocausto, Riccardo Pareggiani, Stories, Testimonianze

«Entrare ad Auschwitz non è mai facile. Anche se sono passati 70 anni. Quando vedo da lontano la torretta mi succede ogni volta, comincio a stare male. Ma vengo lo stesso ogni anno. Per non dimenticare. Poi, quando la visita finisce, ricomincio a respirare. E io posso tornare alla mia vita. I tedeschi arrivarono prenderci di notte nella nostra casa di Fiume. Ci portarono in una minuscola cella nella Risiera di San Sabba, dove dovemmo stare in otto, nell’attesa di essere deportati in Polonia. Avevamo 4 e 6 anni».

Quando arrivarono i tedeschi, la madre le svegliò e le vestì in fretta. In soggiorno c’era confusione, la nonna si mise a piangere e si gettò per terra, aggrappata ai cappotti di questi uomini li implorò di prendere lei e di lasciare stare i bambini. Ma i nazisti li portarono via tutti. Arrivarono ad Auschwitz il 4 aprile.

«Non sapevamo ancora cosa volesse dire avere paura, ci fecero indossare vestiti grandi e sporchi. Poi ci marchiarono con il numero che ancora oggi portiamo sul braccio. E che non abbiamo mai voluto cancellare. La nonna venne sistemata in un’altra fila, insieme ai prigionieri destinati subito al gas. La mamma di giorno lavorava ma ogni tanto riusciva a venire a trovarci. Quando ci vedevamo ci ripeteva sempre i nostri nomi. E questo ci permise di non diventare solo numeri, come volevano loro, e fu importante anche per ritrovarci dopo la liberazione».

Decisiva per la loro salvezza fu la loro somiglianza, così marcata che le due furono scambiate per gemelle. Furono tenute da parte insieme ad altri bambini-cavia, perché proprio sui gemelli il dottor Mengele conduceva i suoi feroci esperimenti. Ma anche il ben volere della «kapò che si occupava del nostro blocco e con noi era molto gentile», ricorda Andra. «Un giorno ci prese da parte e, senza spiegare perché, ci disse: “Domani vi chiederanno se volete rivedere la mamma, rispondete di no”. Dicemmo a nostro cugino Sergio di fare la stessa cosa. Ma lui non ci diede retta. Quando ci fecero quella domanda, noi ubbidimmo. Lui invece fu portato ad Amburgo. Anche lì venivano fatti esperimenti sui bambini. Poco prima dell’arrivo degli alleati, i nazisti li drogarono, li impiccarono e bruciarono i loro corpi. Non lo vedemmo mai più».

Andra e Tati Bucci . Vissero ad Auschwitz dal marzo 1944 al gennaio 1945.

Fonte: http://www.corriere.it/reportages/cultura/2014/auschwitz/

Riccardo Pareggiani

Ph. Riccardo Pareggiani: Picture taken in the former refugees camp in Eidomeni, Greece

«Quando siamo arrivati ad Auschwitz, direttamente in campo, vedemmo questo camino grande e si pensava fossero fabbriche, ci siamo dette qua ci sarà da mangiare e faranno il pane, invece una ragazza che era incinta, incominciava a piangere. Le abbiamo chiesto perché e ha risposto: “Ragazze mie non sapete dove siamo arrivate”. Infatti, sotto vi erano i militari SS che ci aspettavano per accompagnarci (siamo arrivate di notte) e Auschwitz era suddivisa in tanti posti, uno di queste SS sapeva il serbo-croato e ci ha domandato a che religione appartenevamo e abbiamo risposto che appartenevamo alla religione cattolica. Ci ha risposto: “Siete fortunate perché vedete quel fuoco? Se foste state ebree questa notte sareste andate dritte lì”. Quando siamo arrivati ci hanno fatti andare in questa baracca, in un grande salone e ci hanno spogliati nudi, ci hanno fatto andare su un lungo corridoio e alla fine ci hanno tagliato i capelli e là si doveva entrare in una vasca ma non si sapeva quanto era profonda per cui si aveva paura di entrare. Dietro vi era un ufficiale tedesco che ci scortava e da lì si passava dentro ad un grande bagno con le docce. Là ho visto delle ragazze senza i capelli, a me li hanno lasciati corti. Abbiamo avuto paura perché si pensava che ci avrebbero messo insieme agli uomini, invece quelle erano ragazze con i capelli tagliati a zero. Lì ci hanno aperto l’acqua un po’ calda e un po’ fredda e appena insaponate hanno chiuso l’acqua e si doveva passare avanti. Nello spazio da dove siamo venuti vi era un mucchio di abiti sporchi di sangue e di tutto e ci si doveva vestire, più avanti un mucchio di scarpe, trovare un paio nemmeno a parlarne, dovevi scegliere subito. Il giorno dopo ci hanno messi in fila e ci hanno tatuati i numeri e non si poteva cancellare perché loro ti chiamavano per numero, il nome non esisteva, tu eri un numero come le bestie per il macello perché là si aspettava la morte. Ci hanno disinfettato sotto le braccia. Un disinfettante che era una tortura e lacrime che venivano giù, era veramente una tortura».

Komel Maria

Fonte: http://www.lageredeportazione.org/testimonianze/pagina65.html

Riccardo Pareggiani 2

Ph. Riccardo Pareggiani: Camp A in Eidomeni, Greece

«Non ho odio! Non ho vendetta. Anche se odio a cosa può portare l’odio. Sto male io e nient’altro. Tante volte me la prendevo con Dio, però dopo pregavo. I sentimenti non si possono uccidere».

L’odissea di Ines ebbe inizio il 6 marzo del 1944 quando, in occasione di uno sciopero proclamato nella ditta in cui lavorava, assunse la difesa della maestranza. Allora la gente comune non sapeva dei famigerati lager. Nel corso della notte, intorno alle ore 24.00, fu prelevata da casa da un gruppo di fascisti armati che la portarono in questura. Sottoposta a interrogatorio, fu trasferita in una palestra dove c’erano molte altre persone: partigiani, ebrei, scioperanti. Da lì, saliti su un vagone assegnato, arrivarono ad Auschwitz Birkenau.

«Io ho in mente ancora oggi gli scricchiolii dei vecchi catenacci che cigolavano all’apertura. Ci accolse un gruppo di ufficiali che destinavano parte delle persone al lavoro, altre da sottoporre agli esperimenti del dottor Mengele. Chi non scendeva rapidamente era preso a scudisciate. Scene infernali. Noi donne ci tenevamo strette e ci chiedevamo: “Ma dove siamo arrivate?”. Poi la divisone: mogli dai mariti. Bambini e anziani caricati sui camion: sapremo poi che furono inviati alla camera a gas. A me impressero sul braccio il numero di matricola 76.150. Poi l’inizio dei lavori nelle paludi per rendere i terreni fertili dove i terreni venivano concimati con la cenere prodotta bruciando gli Ebrei. Quando un prigioniero riusciva a fuggire, i soldati eseguivano la conta e impiccavano una decina di persone, quindi facevano passare davanti al luogo dell’esecuzione gli altri prigionieri, affinché la punizione fosse di monito per tutti, dissuadendo così altri gesti del genere. Quando giunse la certezza della liberazione, il 5 maggio 1945, da un ragazzino russo, penso di aver pianto tutte le lacrime che mi erano rimaste. Finalmente ero in Italia, ero a casa»

Ines Figini 

Fonte: http://www.resegoneonline.it/articoli/La-commovente-testimonianza-di-Ines-Figini-deportata-ad-Auschwitz-Birkenau/

____________________________________________________________________________________________

«Furono oltre seimila gli ebrei italiani deportati, ma a farne ritorno sono stati solo 363, lo racconto sempre ai ragazzi perché devono sapere. Quando si passa in una stazione qualsiasi e si vedono i vitelli o i maiali portati al mattatoio, penso sempre che io sono stata uno di quei vitelli, uno di quei maiali. Fui obbligata a intrupparmi nel gruppo delle donne e mio papà era là, oltre quella spianata, con gli altri uomini. Lasciai per sempre la sua mano, non lo avrei mai più rivisto ma allora non potevo saperlo. Il mio numero 75190 non si cancella: è dentro di me. Sono io il 75190. I lager nazisti erano isole circondate dal silenzio. Il silenzio della Chiesa, i cui vertici non denunciarono mai. E lì, su quelle strade, io ho visto un corteo di fantasmi in marcia. Come abbiamo fatto non lo so: forse era quella che chiamano la forza della disperazione. Vivevamo immersi nella zona grigia dell’indifferenza. L’ho sofferta, l’indifferenza. Li ho visti, quelli che voltavano la faccia dall’altra parte. Anche oggi ci sono persone che preferiscono non guardare».

Liliana Segre. Il 6 febbraio del 1944 arriva assieme a 605 deportati nel lager.

____________________________________________________________________________________________

Al di là del filo spinato ci sono ancora uomini, donne e bambini. Al di là del filo spinato ci sono ancora storie. Al di là del filo spinato c’è ancora vita. Non dimenticare vuol dire avere il coraggio di recidere ogni recinzione dietro la quale, ancora, si violano la libertà e la dignità di esseri viventi. Al di là del filo spinato saremo prigionieri tutti fin quando anche ad un solo uomo verrà negato il diritto alla vita.

Di Claudia La Ferla

 

Ricordare l’Olocausto: Dire “Mai Dimenticare” può portare a un vero “Mai Più”?

30 martedì Gen 2018

Posted by francescacola in Antifascismo, antisemifobia, antisemitismo, Auschwitz, Collettivo Antigone, Francesca Colantuoni, Giorni della Memoria, I Giorni della Memoria 2018, Olocausto, Olocausto del Mare, R-esistenza, Razzismo, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Testimonianze, Traduzioni

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Questa immagine senza data mostra il cancello principale del campo di concentramento nazista Auschwitz I, in Polonia, che fu liberato dai russi nel gennaio 1945. La scritta sul cancello riporta la frase: “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi). (Foto non accreditata/AP)

Sam Grundman ci ha lasciati un anno fa a 97 anni. Sam era cugino di primo grado di mia madre, ma per me era semplicemente “zio Sam”. Era uno dei sopravvissuti all’Olocausto, aveva vissuto anni di schiavitù come manovale in una fabbrica per la produzione di munizioni. Senza essere ucciso, aveva subito gli orrori, la crudeltà, la fame e le sofferenze inflitti dai ad arte nazisti. Aveva perso i genitori, un fratello, tre sorelle e dozzine di altri parenti più stretti. Mi ha raccontato gli ultimi giorni di vita dei miei nonni e di altri parenti che furono inviati a Treblinka con la sua famiglia.

Nessuno scritto, film o documentario potrebbe farmi capire l’Olocausto e avere un impatto così forte su di me come ascoltare Sam raccontarmi la sua esperienza. Dalla prima volta, quando ero un adolescente, all’ultima volta a settanta anni, il suo racconto era invariato nei dettagli. Non molto tempo fa gli ho chiesto come potesse ricordare, persino a 90 anni, ogni singolo aspetto di quello che gli era accaduto. La sua risposta mi ha lasciato a bocca aperta. “È quello a cui penso quando vado a letto e quando mi sveglio”.

Le parole “Mai Dimenticare” vengono spesso usate quando si parla di Shoah. Cosa ricordo io? Ricordo i dettagli che Sam mi ha raccontato colpendo la parte più profonda del mio cuore. Mi hanno riempito di rabbia, tristezza e odio, contemporaneamente. Mi hanno anche riempito di stupore facendomi domandare come Sam e gli altri sopravvissuti della mia famiglia potessero continuare ad avere la forza di vivere. Come potessero lasciarsi alle spalle quelle terribili esperienze senza però voler dimenticarle?

Settantadue anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ci sono solo poche persone che possono ancora raccontare le loro terribili esperienze. Avremo ancora la forza di ricordare quando gli ultimi testimoni di queste sofferenze ci avranno lasciato? Posso trasmettere le parole di Sam ed avere sui miei discendenti lo stesso impatto che Sam ha avuto su di me?

So cos’è Auschwitz da quando sono nato. La moglie di Sam è tra i sopravvissuti che ho conosciuto con i numeri tatuati sull’avambraccio. Eppure, solo durante un recente viaggio all’estero, quando ho messo piede a Auschwitz dove tante persone hanno fatto i loro ultimi passi, l’enormità di quello che è successo mi ha colpito in pieno.

È sconcertante come dalla Seconda Guerra Mondiale, nonostante l’esistenza dei testimoni oculari delle atrocità naziste e di Auschwitz, visitabile da tutti, si sia continuato a perpetrare in numerosi genocidi. Assistiamo persino alla rinascita dell’antisemitismo. Tutto ciò avviene malgrado l’esistenza di musei dedicati all’Olocausto, campi di concentramento preservati, miriadi di libri scritti e film che descrivono gli eventi, i crimini e le sofferenze dell’Olocausto.

Questa immagine datata 29 agosto 2015 mostra un uomo che, dopo aver attraversando il Mediterraneo in cerca di libertà e dignità, al suo arrivo a Messina, in Italia, viene sottoposto alle procedure di registrazione. Foto Copyright Michelangelo Mignosa

Sam leggeva il The New York Times, dalla prima all’ultima pagina, ogni giorno fino a pochi giorni prima di morire alla fine del novembre 2016, settimane dopo le elezioni presidenziali. Parlando con la figlia sottolineò come gli eventi di quel momento ricordassero quelli che precedettero l’Olocausto.

Questo spinge a chiedersi se dire “Mai Dimenticare” sia sufficiente per arrivare ad un vero “Mai Più”.

Larry Bach è un imprenditore in pensione e vive a Altamonte Springs (USA).

Articolo di Larry Bach pubblicato il 18 Gennaio 2018 su Orlandosentinel

Traduzione di F. Colantuoni

La Malattia dei Gommoni

28 domenica Gen 2018

Posted by orukov in 2018, Auschwitz, I Giorni della Memoria 2018, Olocausto, Olocausto del Mare, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Simona D'Alessi

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I Giorni della Memoria 2018, Refugees, Refugees Welcome, Simona D'Alessi

“Nel campo morivano ogni giorno centinaia di persone. Molti prigionieri morirono di tifo e di diarrea. I medicamenti fondamentali erano l’aspirina e le pastiglie di carbone di lena. Quindi persino la malattia più insignificante diveniva minacciosa. Per le scarpe inadatte si formavano sui piedi ferite e flemmoni. Il corpo del prigioniero malato di scabbia si copriva in breve tempo di vaste ferite, a causa della sporcizia. Le operazioni chirurgiche fatte dai medici delle SS finivano spesso con la morte dei prigionieri ed avevano il carattere di esperimenti proibiti”.

Tratto da qui

Mi chiamo Mohamed, ho 20 anni, vengo dalla Costa D’Avorio.

Come stai Mohamed?

Bene, sono felice di essere qui, ma mi brucia tutto.

Dove ti brucia? Cosa ti brucia?

Le gambe, mi bruciano e mi fanno male. Hanno iniziato a bruciare sul gommone, ero sommerso dall’acqua, c’era puzza di benzina ovunque, ma non potevo urlare, avevo paura di urlare, di dire qualcosa, avevo paura che mi buttassero in mare, che mi abbandonassero. Ho cercato di resistere, non ho pianto, non mi sono lamentato.

Mettiti sul lettino e fammi vedere.

E così Mohamed si avvia verso il lettino ed inizia a spogliarsi. Toglie la t-shirt e dopo i pantaloni.

fronte

Mi son trovata, per la prima volta in vita mia, di fronte alla cosiddetta “malattia dei gommoni”.  La descrisse per la prima volta il Dr. Pietro Bartolo, il medico della speranza, il medico di Lampedusa che presta le prime cure ai migranti.

Le persone vengono trasportate su queste carrette di gomma insieme alle taniche di carburante: quando qualcuna di esse si rovescia, si miscela con l’acqua salata provocando, al contatto con la pelle, ustioni da contatto più o meno estese e quindi più o meno gravi.

Mohamed era affetto esattamente da questa condizione. Ustioni estese ad entrambe le cosce e le gambe: ferite aperte che pulsavano; cute disintegrata, bruciata. Mentre lo visitavo, lo medicavo, lo curavo, non ha pianto; il suo volto era contratto da smorfie di dolore, le labbra serrate, i pugni chiusi.

Dopo tre giorni è stato trasferito presso un altro centro. Chissà se oggi la cute è ritornata integra oppure se porta ancora addosso i segni di queste ferite, vistose cicatrici fisiche che si sommano a quelle emotive invisibili, ai ricordi di quel viaggio in cui non ha urlato, non ha sfogato la propria sofferenza, ma ha subìto l’orrore e il dolore per non perdere la speranza di raggiungere un mondo migliore.

di Simona D’Alessi (foto e testo)

 

 

 

El Arte de la Memoria

27 venerdì Gen 2017

Posted by francescacola in 2017, Alessia Alicata, Antifascismo, antisemifobia, Arte, Auschwitz, Babel, español, Federica Loddi, Giornata della Memoria 2017, La memoria del futuro, Massimo Micheli, Michela Gentile, Olocausto, Olocausto del Mare, Parole del Collettivo, R-esistenza, Refugees Welcome, Restiamo umani, Testimonianze

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alessia alicata, Babel, Collettivo Antigone, Elisa Springer, Giornata della Memoria 2017, Jüdisches Museum Berlin, JBitterBredt, Massimo Micheli, Olocausto, Parole, Refugees Welcome, Restiamo umani, Stay Human, Testimonianze, Traduzioni

ITA

«Hoy más que nunca es necesario que los jóvenes sepan, entiendan y comprendan: sólo así se puede esperar que aquel indecible horror no se repita; sólo así se puede  salir de la oscuridad. Pues, si mi testimonio, mi cuento de sobrevivida a los campos de exterminio, mi presencia en el corazón de quien comprende la piedad, sirven para hacer crecer comprensión y amor, yo también, entonces, podré pensar que, en la vida, todo lo que ha sido absurdo y tremendo, sirvió para rescatar el sacrificio de muchos inocentes, como amor y consolación hacia quien está solo, y también para construir un mundo mejor sin odio, ni barreras. Un mundo en el que hombres capaces, libres y no esclavos de su propia intolerancia, derribando los confines de su egoísmo, habrán devuelto, a la vida y a los demás hombres, el significado de la palabra Libertad. Hoy he comprendido que Dios me ha concedido liberarme del cautiverio del pasado, a través de las páginas de este libro.»

Elisa Springer, Comienzo de El silencio de los vivos, 1997 (titulo original: Das Schweigen der Lebenden)

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OGNI COSA E’ ILLUMINATA – Ho paura di dimenticare

26 giovedì Gen 2017

Posted by claudialaferla in 2017, antisemitismo, Auschwitz, Cinema, Claudia La Ferla, Collettivo Antigone, Giornata della Memoria 2017, Nazismo, Olocausto, Olocausto del Mare, Parole del Collettivo, Restiamo umani, Riccardo Pareggiani, Senza categoria

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Cinema, Claudia La Ferla, Diversità, Importanza del passato, Jonathan Safran Foer, Liev Schreiber, memoria, Ogni cosa è illuminata, Paura di dimenticare, Riccardo Pareggiani, shtetl

Per operare una riflessione sull’importanza di preservare la memoria intesa come conservazione di un bene di primaria necessità volto alla costruzione di ciò che chiamiamo presente o futuro, ho ritenuto importante il sussidio di un film dalla spiccata poeticità iconografica e originalità stilistico-narrativa: Ogni cosa è illuminata. Si tratta dell’opera prima del regista Liev Schreiber, che porta sul grande schermo l’omonimo libro di Jonathan Safran Foer, appartenente alla categoria della terza generazione di scrittori che hanno ricordato la Shoah. Il film risulta particolarmente efficace, soprattutto a livello metaforico, nella contrapposizione dei binomi cecità/vista, oscurità/luce, passato/presente, oblio/memoria, saturando la pellicola di senso.

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La Diversità è Ricchezza

25 mercoledì Gen 2017

Posted by francescacola in Antifascismo, antisemifobia, Auschwitz, Collaborazioni, Collettivo Antigone, Elisabetta Evangelisti, Giornata della Memoria 2017, Michelangelo Mignosa, Nazismo, Olocausto, Olocausto del Mare, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria

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Antigone, Collettivo Antigone, Elisabetta Evangelisti, Giornata della Memoria 2017, Michelangelo Mignosa, Olocausto, Olocausto del Mare, Refugees Welcome, Restiamo umani, Stay Human

Viviamo in un’epoca nella quale consideriamo i diritti umani una delle basi della nostra società. Siamo consapevoli che senza essi non ci distingueremmo dalle bestie, eppure, neanche ottant’anni fa più di sei milioni di ebrei, omosessuali, zingari, testimoni di Geova furono deportati in luoghi dove gli umani si dimenticavano di essere tali, perché vietata loro ogni forma, anche se minima, di umanità; quei campi saranno ricordati dalla storia come la fine della vita e della libertà.

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