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I rifugiati stanno dando una nuova vita alla morente città natale del suocero di Lorenzo Tondo. Se solo la destra in ascesa riuscisse a capirlo.
Di Lorenzo Tondo
Sabato 27 ottobre 2018 – The Guardian
Ogni pomeriggio alla stessa ora, seduto sulla stessa panchina, mio suocero Rosario Buttaci, guarda in silenzio John Babalola Wale e la sua famiglia incamminarsi sul ripido sentiero del paesino di Sutera che porta da piazza Europa al vecchio quartiere arabo Rabato.
Ai tempi di Rosario, lo “straniero” che veniva in questo pittoresco paesino siciliano arrivava da Palermo, distante 100 km, o dalla vicina Agrigento. Ma Wale, 35 anni, viene dallo stato di Ekiti, in Nigeria e ha raggiunto Sutera quattro mesi fa dopo un viaggio lungo 6000 km. Ora vive con sua moglie e un figlio, come decine di africani richiedenti asilo arrivati dal continente per vivere qui.
“Il mondo sta cambiando”, dice Rosario, architetto in pensione di 65 anni nato, cresciuto e desideroso di invecchiare in questo paesino, come ha fatto la sua famiglia per generazioni. “E Sutera è parte di questo cambiamento”.
Alla fine degli anni ’50, quando Rosario era un ragazzo, a Sutera vivevano 5000 persone e c’erano 5 alimentari, 5 taverne, un calzolaio e un fabbro. “Al tramonto le strade si riempivano di minatori e contadini e le luci delle taverne restavano accese fino a tarda sera”, ricorda. “Sutera era viva, si aveva la sensazione che nulla avrebbe mai potuto cambiare quell’atmosfera gioiosa e accogliente”.
Ma il cambiamento arrivò. Le miniere di zolfo presenti nella valle chiusero e l’agricoltura industriale sostituì i muli e i contadini. La gente di Sutera iniziò ad emigrare in tutta Europa alla ricerca di lavoro, spesso nella cittadina di Dillingen in Germania, o a Woking nel Surrey, dove ancora oggi risiede una numerosa comunità Suterese. Così, Sutera è pian piano divenuta una cittadina fantasma.
Anche mio suocero aveva programmato il suo viaggio: sarebbe andato da suo padre, che l’anno precedente si era trasferito a Herrenberg a sud della Germania dove lavorava come muratore. Ma il 4 giugno 1963, solo qualche mese prima dell’arrivo in Germania di sua moglie e dei loro quattro figli, morì in un incidente sul lavoro. Rosario, che allora aveva 11 anni, non lasciò mai Sutera e fu costretto a disfare la valigia e attendere l’arrivo della bara di suo padre.
Oggi, dopo più di mezzo secolo, la popolazione di Sutera si è ridotta a 1200 abitanti. Mio suocero è uno di loro. Vi ha trascorso tutta la sua vita, ha assistito al graduale spopolamento del paesino che anno dopo anno rischia di scomparire dalla faccia dell’Italia. (Non è una rarità: secondo i dati forniti dall’Associazione Nazionale dei Comuni italiani, negli ultimi sei anni quasi 80.000 cittadini hanno abbandonato le cittadine italiane con meno di 5000 abitanti).
Eppure, la storia a volte si ripete in senso contrario. A ottobre 2013, un barcone pieno di migranti e rifugiati si capovolse nel Mediterraneo: morirono 368 persone e i loro corpi meritavano una degna sepoltura. Sutera, quasi completamente abitata da anziani, aveva già da tempo esaurito i posti al cimitero. Tuttavia, sebbene non ci fosse spazio per i morti, ve ne era molto per i vivi da ospitare nelle centinaia di case lasciate vuote da coloro che avevano abbandonato il paesino per andare all’estero alla ricerca di lavoro. Nel 2014, il sindaco di Sutera consentì che lo stato italiano sistemasse i richiedenti asilo nelle case vuote della sua comunità. Sutera entrò a far parte di un programma di reinsediamento che finanzia le città che ospitano un certo numero di migranti. Come Wale e la sua famiglia.
La scorsa settimana, nel tardo pomeriggio, ho fatto una passeggiata con il nigeriano proveniente da Ayede Ekiti. Appoggiato a una ringhiera, guardava un gruppo di anziani seduti su una panchina e mi diceva che se cinque anni fa qualcuno gli avesse detto che presto avrebbe vissuto in un piccolo paesino siciliano, lui gli avrebbe riso in faccia.
“Assolutamente! Pensavo che avrei vissuto tutta la vita nello stato di Eskiti. Non avrei mai immaginato che un giorno avrei lasciato la mia casa in Nigeria”. Poi, però, dopo la morte dei suoi genitori, non avendo più un posto dove vivere, Wale e la sua famiglia dovettero partire. Si trasferirono in Libia dove Wale lavorava. “Ma le cose non andavano bene in Libia, rischiavamo la vita tutti i giorni”, disse. “Ecco perché decidemmo di venire in Italia. Sono felice qui. Mi considero fortunato. Non vedo l’ora di iniziare a lavorare”.
Per Sutera, alle falde del monte San Paolino nel centro Sicilia, l’arrivo dei migranti è stato una benedizione. La scuola locale rischiava la chiusura perché c’erano solo pochi studenti ma, grazie ai figli dei richiedenti asilo, è rimasta aperta. Ora il paesino è modello di integrazione replicato in diverse città italiane, compresa Riace in Calabria. Qui, il sindaco della città, “Mimmo” Lucano, ha accolto centinaia di migranti i quali, in cambio, hanno portato investimenti nella città.
Ma per la destra anti-immigrazione, queste comunità rappresentano la catastrofe del 21esimo secolo: la dispersione degli italiani causata dagli stranieri. Alcuni hanno subito approfittato per diffondere allarmanti storie sul presunto legame tra l’arrivo dei migranti e l’aumento di furti e omicidi. Il ministro degli Interni di estrema destra, Matteo Salvini, non perde mai l’occasione di evidenziare i crimini commessi dai richiedenti asilo sul suo profilo Twitter, ignorando quelli commessi dagli italiani stessi.
Ho pensato alla sua retorica dell’odio mentre guardavo Wale appoggiato al busto di marmo di un poliziotto locale, Calogero Zucchetto, ucciso dalla stessa mafia siciliana che l’Italia ha esportato in tutto il mondo. Ho anche pensato al boss mafioso di New York, Lucky Luciano, il quale non proveniva dallo stato di Ekiti ma da Lercara Friddi, a soli 30 minuti da Sutera.
La scorsa settimana, mentre passeggiavamo per il villaggio, Wale aspettava i documenti necessari per iniziare a cercare lavoro. Rosario ed io lo guardavamo giocare con il figlio in piazza. In quel momento ho capito che quel bimbo nigeriano di due anni aveva più cose in comune con mio suocero di qualsiasi altro italiano. Quel bambino, 50 anni fa, sarebbe potuto essere lui a Herrenberg – se una gru non avesse tolto la vita a suo padre.
Non ebbi il coraggio di chiederglielo ma vidi il suo sorriso mentre guardava il piccolo giocare con la palla. Per me, quel sorriso, valeva più di mille risposte.
Traduzione di Francesca Colantuoni