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“Maria, me ne vado. Io non posso stare qua a non fare niente”

“Ma dove te ne vai? Ma sei pazzo? Porta pazienza. Vedrai che si sistema tutto”

“Maria, io non sono venuto qua per avere pazienza. Io devo aiutare la mia famiglia a casa, devo lavorare. Ho tante cose qui ad Augusta ma mi serve un lavoro”

Era il 2015, io vivevo a Bonn, maturavo l’intenzione folle di mollare un lavoro a tempo indeterminato corredato di solida carriera e capo unico al mondo mentre Youba mi spiegava perché voleva scappare via dalla città dove io ero nata e lui era sbarcato dopo un viaggio rischiosissimo l’uno maggio 2014. Augusta, il luogo dove siamo diventati amici, perdeva ogni attrattiva ai suoi occhi di fronte all’impossibilità di trovare un lavoro decente e alle tante promesse non mantenute.

“Lavoretti, lavoretti. Poi non mi pagano e io devo stare zitto”.

“Lo so, ci sono passata anche io. Però fidati che se vai solo in Francia, allo sbando, non so se te la passi meglio. E comunque ovunque andrai verrò a dartele con la scopa”

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Ph. Francesco Malavolta

Conversazioni di questo tipo si sono susseguite nel tempo con lui e con MB che faticavano a credermi quando dicevo che, nonostante tutto, loro erano fortunati. Credevo davvero che la mia terra potesse offrire qualcosa in più di sole, mare e trallallalà. Vedevo con quanto impegno accettassero lavoretti di qualsiasi tipo, affrontassero le delusioni, conservassero la gentilezza anche verso chi non li pagava e li prendeva in giro.

Ogni tanto mi raccontavano episodi spiccioli di razzismo che, però, avevano più il sapore amaro di una miserabile guerra fra poveri. La nostra nostalgia di casa era fatta di parole comuni, la mancanza di un posto nostro nel mondo era identica come la nostra ambizione a fare il massimo.

Per mesi, io e Youba ci telefonavamo la sera per sentirci meno soli e raccontarci i piccoli progressi del giorno. Andare a mangiare la pizza con i nuovi amici, gestire la propria casa, giocare a pallone, litigare coi clienti. Ed infine, quasi a esorcizzare la cosa, parlavamo della mamma e di quanto ci mancasse.

“Prenditi la mia, te la presto”

“Lo so Maria, lo so. Domenica ci vado”

A 16 anni ho capito che io non avrei mai potuto vivere ad Augusta e che nascere in un posto non significa passarci tutta la vita a meno che tu non sia un albero. O non abbia il passaporto sbagliato. Ma io ancora la storia dei passaporti non la sapevo e l’Africa con i suoi conflitti irrisolti erano tema per la beneficienza di Pasqua e Natale. A 18 anni finalmente me ne sono andata e ascoltavo le persone parlare di radici, mancanza e dolore verso il paese natale e non capivo cosa volessero dire.

Io ero felice, non mi mancava niente della mia città natale priva di speranza ed opportunità. Ero felice di aprire la porta di casa al mattino senza sapere chi avrei incontrato. Studiavo per diventare interprete rincorrendo il sogno della diplomazia e l’ambizione di far comunicare persone senza una lingua in comune. Quando tornavo a casa, sentivo solo la felicità di essermene andata. Tiravo un sospiro di sollievo, pensando che quello squallore non avesse nulla a che fare con me. Fogne a mare, petrolchimico come unica prospettiva lavorativa, aria appestata da gente senza scrupoli che per arricchirsi farebbe qualsiasi cosa, connivenze per un tozzo di pane.

La domenica dopo pranzo ripartivo, salutavo i miei e iniziavo a programmare la mia settimana col sogno dell’Europa in mente. Varie vicissitudini mi hanno fatta spostare prima a Roma e poi a Bonn dove appena atterrata mi sono innamorata della città. Una volta trasferita nell’ex capitale tedesca, nonostante non capissi nulla di ciò che ascoltavo o leggevo, mi sono sentita subito a casa. Il fatto che non riuscissi a comprare agevolmente manco uno struccante (vallo a sapere che si dice Reinigungsmilch mentre tu cerchi un banale make-up remover), non intaccava minimamente la mia ambizione.

Otto ore di ufficio, tre di corso di tedesco e i compiti per l’indomani sono stati la mia routine quotidiana per i primi mesi. Più forte delle case impossibili da trovare, del dottore cui spiegare in maniera fantasiosa cosa mi servisse, c’era la mia determinazione a non farmi mandare a casa ad agosto alla fine della maternità della donna che sostituivo.  Dopo le mie prime ferie, tornata a Bonn, mi venne a prendere il mio capo con un cartello di bentornato, mi portò fuori a pranzo e mi chiese “Come ti trovi da noi? Ci stai bene? Ti va di rimanere a tempo indeterminato?” Io mi sono mezza affogata e sono scoppiata a piangere facendo spaventare la cameriera di fronte che il mio capo si è sentito di rassicurare “Penso sia felice. Alles ist gut”. “Unbefristet weitergeführt” era il mio lasciapassare per la Germania, il mio tempo indeterminato. E per sancirlo di pomeriggio sono andata a farmi la tessera della ferrovia per viaggiare ovunque nel Paese. “Vuole quella di 3, 6 o 12 mesi” “12 per favore. Io resto qui”.

Tutto facile, tutto lineare, tutto giustamente meritocratico. Nessun trafficante, nessuna estorsione, nessuno sfruttamento, nessuno stupro, nessuna violenza fine a se stessa. Poi le radici hanno cominciato a tirare mentre casa mia diventava primo porto di sbarco. Non sarei mai tornata per frequentare le stesse persone ogni giorno. Ma ora il mondo veniva a casa mia e andava accolto. Bisognava stare sulle banchine del porto, bisognava fare le lasagne e iniziare subito l’integrazione a tavola. Bisognava scolarizzare i figli del mare e amarli con l’intensità di una sorella che aspetta i suoi fratelli da sempre.

Così ho deciso di tornare. Per stare dove bisogna stare. Lo rifarei mille volte anche se ora mi sento in una prigione invisibile da cui conto di fuggire prima possibile. Mi sono serviti altri 18 anni per mettere a fuoco -con una certezza che sfugge al pregiudizio- che qualsiasi luogo è invivibile quando si chiude in se stesso. A 16 ho capito di non avere quasi nulla in comune con chi viveva nella città dove ero nata. A 34 so di essere molto più simile a qualsiasi uomo, donna, bambino che tenta la lotteria della vita per un futuro migliore che con chi tace di fronte all’ingiustizia e si accontenta del quieto vivere e del pane avvelenato.

Ad maiora

di Maria Grazia Patania