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Collettivo Antigone

~ Proteggere e custodire le leggi naturali di ogni essere vivente

Collettivo Antigone

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Un tiepido raggio di sole a qualche minuto dalla riva

29 martedì Gen 2019

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Collettivo Antigone, Francesco Malavolta, I Giorni della Memoria 2019, Maria Grazia Patania, Sea Watch

Domenica 27 gennaio 2019 il sole si è infilato fra le nuvole e ha riscaldato la costa fra Augusta e Siracusa dove da giovedì staziona la Sea Watch 3 che ha qui cercato riparo dal maltempo in arrivo. Dopo un salvataggio in mare e il recupero di 47 persone (fra cui, dopo l’assenza di risposte sul da farsi e con l’avvicinarsi del maltempo, la nave ha deciso di avvicinarsi all’Italia nella speranza che il Diritto Internazionale fosse rispettato e venisse assegnato un porto sicuro per lo sbarco. Mentre le temperature si abbassavano, il vento ruggiva e la pioggia sferzava il ferro della nave, prendeva il via l’ennesima partita politica giocata sulla pelle delle persone.

A testimonianza del livello raggiunto dalla politica nazionale e locale, sono cominciate infinite beghe per nascondere i veri problemi della Sicilia e dell’Italia in generale. A dimostrazione di come tutto sia ridotto a disumani cori da stadio, appena il Sindaco di Siracusa Italia si è mobilitato per dire che “la città è pronta ad accogliere”, da Augusta è iniziato un rumoroso teatrino per nascondere il sole con la rete e scaricare responsabilità. Per l’intera giornata di venerdì, quando la società civile si organizzava per dimostrare solidarietà alle persone a bordo, da Augusta arrivava la solita caciara di polemiche e l’accusa di “fomentare un clima di odio” per celare un perfetto allineamento con la linea di questo governo. Dopo, il silenzio. Dal 25 gennaio, non una parola ufficiale è stata spesa per chiarire cosa si pensa di fare per queste persone, non una qualsiasi espressione di solidarietà o indignazione per il modo in cui vengono trattate.

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Ph. Francesco Malavolta 

Nel frattempo, gli alunni e le alunne della Fondazione Inda hanno dedicato dei canti a chi rimane sospeso su un assurdo limbo durante il presidio del sabato mattina in cui sventolavano palloncini, aquiloni e striscioni. Foto e video sono stati inviati a chi era a bordo e i migranti hanno preparato uno striscione con scritto “Grazie per la solidarietà”. Quegli stessi canti, però, sono stati oggetto di triste scherno da parte dell’amministrazione della città di Augusta nelle stesse ore in cui il governo nazionale irrideva i ragazzi a bordo della Sea Watch 3 che approfittavano del sole per rimanere sul ponte della nave e riscaldarsi.

Nella derisione dei canti e nella burla ai migranti è condensato il male del nostro tempo: l’incapacità di riconoscere la Bellezza e coltivare l’empatia. Un canto espressione di libertà, vicinanza e solidarietà può essere ridicolizzato solo da chi ha totalmente perso ogni traccia di umana pietas. Un raggio di sole -come metafora del calore umano- può diventare oggetto di propaganda solo per chi disprezza la vita umana. Che dignità c’è nel prendersi gioco di ragazzi e ragazze che sentono di voler esprimere col canto il proprio dissenso? Che dignità c’è nel deridere un gesto spontaneo come quello di approfittare del sole in un giorno d’inverno mentre sei abbandonato in mezzo al mare dopo giorni di maltempo? Nessuna.

Nella tragedia di Antigone, Emone ricorda che “Lo Stato non è di un solo uomo”, ma Creonte in risposta chiede “Come? Non appartiene a chi comanda?”. A quel punto, Emone precisa “Saresti un bel sovrano in un deserto”. Ed infatti solo nel deserto dove si è smarrita l’umanità possono trovare posto politicanti di questo tipo, solo in un quadro di sconcertante abbrutimento si può collocare una simile povertà emotiva. Invece di sottolineare la mancata tutela dei diritti umani, l’ingiustizia subìta da ciascun migrante in Libia, ci si prende gioco di loro e di chi dimostra solidarietà. Invece di mobilitarsi affinché quelle persone, a pochi minuti dalle nostre coste, siano fatte sbarcare tempestivamente, si insultano i cittadini e le cittadine che si sentono personalmente oltraggiate da questa violenza gratuita e cercano di porvi rimedio. Invece di battersi a tutela dell’essere umano, si protegge la propria sconfinata inettitudine, mentre le celebrazioni della Giornata della Memoria quest’anno più che mai sembrano solo un’ironica farsa.

di Maria Grazia Patania

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Homo sum, humani nihil a me alienum puto. La memoria nel 2019.

22 martedì Gen 2019

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Alessio Mamo, Augusta, I Giorni della Memoria 2019, Maria Grazia Patania, Olocausto del Mare

“Qualche giorno fa ero sul treno per Siracusa e mentre guardavo il mare me lo immaginavo pieno di morti. Per la prima volta ho realizzato che sta cambiando il mio modo di guardare il mare”, a dirmelo è una cara amica che ha il pregio di mettere a fuoco le cose in maniera semplice e ordinata. Senza fronzoli, senza sentimentalismi. “Di fatto, è pieno di morti. Muoiono ogni giorno probabilmente, solo che ormai manco lo sappiamo”, rispondo.

Chi nasce sul mare sviluppa un legame intimo ed inesprimibile con quella distesa azzurra che ti segue ovunque, mancandoti in molti modi. La scorsa estate, quando lasciammo per quasi una settimana la nave Diciotti ancorata al porto di Catania a cuocere sotto il sole implacabile e a inzupparsi sotto i rivoti estivi, guardare il mare mi dava la nausea. Di quei giorni ricordo un furore rabbioso che abitava me e tante altre persone: ci sentivamo personalmente oltraggiati perché questo scempio avveniva a casa nostra. L’idea di lasciare lì sospesi in bilico sulla barbarie 137 esseri umani ci disgustava e lo abbiamo dimostrato a modo nostro: dai presidi con gli arancini alla manifestazione del 26 agosto dove ci siamo sgolati per ribadire che “siamo tutti antifascisti”. Quel pomeriggio, molte delle persone che erano lì volevano semplicemente che i migranti non si sentissero soli. Ecco: speravamo in qualche modo di riscattare la figura miserabile che il governo nazionale imponeva alla nostra terra indomita e orgogliosa. Forse stavamo chiedendo scusa, forse volevamo solo esserci per esprimere il fatto che non fossimo allineati con gli sciacalli.

Non sapevamo che avremmo potuto vivere anche di peggio. Nessuno avrebbe immaginato di mangiare il cenone e il pranzo di Natale col veleno dell’ingiustizia in bocca, nella consapevolezza di una festa ipocrita se si scartano regali davanti al caminetto mentre in mare degli esseri umani sono abbandonati alla loro sorte. Fra uno show natalizio e una pubblicità scintillante, dominano le immagini di un’Europa vigliacca e pusillanime che gioca a fare un pietoso scaricabarile sulla viva carne degli ultimi. Noi di quell’Africa che abbiamo spolpato all’osso, dandole il contentino della libertà con una finta decolonizzazione, non vogliamo sapere nulla. Noi ci meritiamo la pace, la democrazia, i diritti umani, le convenzioni di Ginevra e l’eredità di Norimberga (di cui per inciso non sappiamo che farcene nel nostro delirio guerrafondaio). Gli altri affogassero pure in silenzio.

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*Ph. Alessio Mamo, giugno 2017, a bordo del Moonbird operato da Sea Watch e Humanitarian Pilot Initiative. Il velivolo sorvola la rotta migratoria più letale al mondo per individuare imbarcazioni in pericolo, chiedendo di metter fine alle morti in mare e consentire a chi fugge di arrivare in Europa senza rischiare la vita

In mezzo, il mare che raccoglie le vite indesiderate, le culla e le conserva sui suoi fondali, risvegliando in noi isolani paure e timori irrazionali che contagiano anche chi sull’isola non ci è nato. “L’estate scorsa sono stata a Marettimo, siamo andati in barca a fare un lungo giro con un pescatore. Quando mi sono tuffata, ho provato una sensazione orribile. Come se qualcosa mi stesse toccando. Ho pensato ai morti e sono uscita subito”, questo me lo racconta una amica a Roma. E mi vengono in mente i pesci. Penso ai pesci di cui ci preoccupiamo per via dell’inquinamento senza considerare che – in una perfetta metafora di come l’umanità passi il tempo a sbranarsi- anche loro mangiano noi. I più sfortunati ovviamente. Non noi noi. Noi loro. Quelli che dovevano crepare a casa loro.

Dal 2014 al 18 gennaio 2019, lungo la rotta del Mediterraneo Centrale sarebbero morte quasi 15.00 persone. Nei primi 19 giorni di gennaio ne sono morte almeno 200. Più di 10 al giorno. Sulle sponde libiche, le onde impietose restituiscono corpi devastati che smascherano le truffe politiche che ci vengono propinate ogni giorno. Tre superstiti aggrappati a una zattera di salvataggio hanno visto morire almeno altre 117 persone prima dell’arrivo dei soccorsi troppo lenti e troppo tardivi ora che sono scomparse le navi umanitarie. A queste vittime se ne aggiungono altre 53 di un altro naufragio e 47 sopravvissuti miracolosamente recuperati da Sea Watch 3. Poco dopo, altre 100 persone in pericolo hanno invano chiesto aiuto per ore finché la GCL ha mandato un cargo battente bandiera del Sierra Leone a recuperarli e riportarli indietro. Nel frattempo, dal Viminale si esprimeva soddisfazione per il buon funzionamento della collaborazione con la Libia e si annunciava che “143 sono stati riportati a Tripoli, 144 a Misurata, 106 ad al-Khoms”. Tuttavia, Nils Melzer, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, ha chiaramento affermato che “Se i paesi dell’UE stanno pagando la Libia per impedire deliberatamente ai migranti di raggiungere la sicurezza della giurisdizione europea, parliamo di complicità in crimini contro l’umanità, perché è noto a tutti che queste persone vengono rinchiuse in campi in cui lo stupro, la tortura e l’omicidio regnano sovrani”.

Moonbird - Flying Over the Rescue in the Mediterranean

*Ph. Alessio Mamo, giugno 2017, a bordo del Moonbird operato da Sea Watch e Humanitarian Pilot Initiative. Il velivolo sorvola la rotta migratoria più letale al mondo per individuare imbarcazioni in pericolo, chiedendo di metter fine alle morti in mare e consentire a chi fugge di arrivare in Europa senza rischiare la vita

Tuttavia, oltre ogni tentativo di ricostruzione di dati e fatti, il quadro rimane incompleto perché il mare non si divide in compartimenti stagni e dunque nulla esclude che i fondali della rotta centrale non ospitino anche qualcuno degli almeno 1.322 morti lungo la rotta occidentale dal Marocco alla Spagna o qualcuna delle 1532 vittime della rotta orientale dalla Turchia alla Grecia. Inoltre, la triste verità è che nessun accordo coi dittatori e i torturatori libici, nessuna intesa con la Turchia riuscirà a fermare chi è in fuga. Nessuna delle menzogne che ci raccontiamo per tacitare gli ultimi grammi di coscienza rimasti eviterà l’ennesimo naufragio. Chiudere una rotta significa aprirne un’altra verosimilmente più pericolosa come dimostra l’esponenziale aumento dei decessi sulla rotta occidentale dove solo nel 2018 sono morti in oltre 800 a fronte dell’anno precedente quando le vittime furono 224.

C’è chi muore con la pagella in tasca e il cuore pieno di sogni. C’è chi muore gridando il proprio nome per non essere dimenticato e chi piange pensando a sua madre. C’è chi muore con la sorpresa scritta negli occhi sbarrati e la speranza tradita. E ci siamo noi che aspettiamo sulle banchine vuote, mentre il vento si infila fra la pelle e i vestiti tormentandoci con mille domande. Avranno freddo. Avranno fame. Avranno paura. Dove sono tutti. Saranno sul fondale del mare. Quanti sono in Libia, quanti morti in acqua. Così, lentamente, anche noi paghiamo il prezzo del quieto vivere. Anche noi scontiamo la nostra pena mentre il mare -un tempo balsamo di consolazione- comincia a farci paura e ribrezzo proprio come chi causa tutto questo.

di Maria Grazia Patania


La prima edizione della programmazione sulla Giornata della Memoria risale al 2016 e in quell’occasione parlammo di Olocausto del Mare. L’espressione destò scalpore e indignazione in qualche caso, ma molti dei pezzi di quella settimana entrarono nelle aule scolastiche, fra i banchi di scuola, grazie ai tanti e alle tante insegnanti che ci seguono e che, lontani da ogni intento polemico, li usarono come spunti di riflessione. Parlammo del coraggio e dell’adamantina lucidità di una ventenne tedesca, Sophie Scholl, che insieme alla Rosa Bianca preferì morire piuttosto che cedere alla brutale ideologia nazista. La sua colpa erano le parole, la sua condanna decretata da un volantino all’Università dove si incitava la gioventù tedesca a resistere. Parlammo di Shlomo Venezia e della sua atroce esperienza nel Sonderkommando ad Auschwitz, dell’Arte della Memoria e di Felix Nussbaum (artista vittima dello stermino nazista). Yacob, arrivato dal mare ad Augusta e partito dalla Costa d’Avorio, parlò della sua personale visione dell’Olocausto. Da quel momento, ogni anno, abbiamo cercato di mantenere il filo rosso fra ieri e oggi, fra ciò che è stato e ciò che è e che può ancora barbaramente essere.

Quest’anno io ho deciso di lasciar perdere la Storia. Parliamo di noi. Oggi. Parliamo di cosa siamo diventati. Parliamo di come accettiamo che la gente muoia. E non si muore mica solo in mare dove sentiamo il ribrezzo assalirci mentre nuotiamo. No. Si muore anche dove noi le persone non le vediamo: si muore nel deserto in numeri quasi doppi rispetto al mare, si muore lungo le rotte migratorie che facciamo finta di chiudere pagando chiunque millanti di toglierci la seccatura dell’umanità in cammino. Si muore nei lager libici dove le donne, gli uomini e i bambini vengono oltraggiati da criminali cui forniamo aiuti strategici ed economici. Si muore. Ma a noi non interessa, purché non ci disturbino. Purché non arrivino qui a ricordarci che cosa può succederci domani stesso se qualcuno decidesse che siamo le pedine da sacrificare sul suo scacchiere. Purché non ci tocchi ammettere ineludibili colpe nei confronti di un intero continente che usiamo come bacino di schiavi e risorse o pattumiera per ciò che non ci serve più. Pensare che l’Africa non ci riguardi è pura ed ipocrita illusione, così come pensare di poter rimanere estranei ed indifferenti di fronte all’oltraggio nei confronti di qualsiasi essere umano. Siamo umani e nulla di ciò che è umano può essere considerato estraneo a noi*.

* Terenzio

Per un 2019 di Antigone e disobbedienza: Aprite i porti!

04 venerdì Gen 2019

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aprite i porti, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Refugees, Refugees Welcome

“Mamma, buon anno. Come stai?”.

Sto quasi per riattaccare, ma alla fine Michel mi risponde. Balbetto delle scuse per non essermi fatta sentire prima e andiamo dritti al sodo. “Dove sei in Olanda?, me lo dice. “Ah. Ci andavo spesso sai quando lavoravo in Germania”. Silenzio. “Ti trattano bene? Hai freddo? Hai fame?”. “No, sto bene”. C’è una vibrazione nella sua voce, quella sottile titubanza che una madre smaschera subito anche senza essere madre. “Non so se torno a Italia. Avvocato dice che non sa se Italia mi prende indietro. Sai, questa cosa del Dublin Treaty…”.

Michel era fra i più promettenti e volenterosi studenti e per mesi insieme a lui ho sperato che il tirocinio che stava facendo si trasformasse in un lavoro vero e proprio, ma la burocrazia si è messa nel mezzo. Affinché Michel avesse i documenti avrebbe dovuto presentare un contratto di lavoro che però il suo datore di lavoro non poteva fargli perché a Michel mancavano proprio quegli stessi documenti che dipendevano dal contratto. Geniale, no? A quel punto, ha capito che in Sicilia non c’era posto per lui e se n’è andato altrove. Ma anche in questo altrove la burocrazia si frappone fra i suoi desideri e il futuro. Se penso agli ultimi due mesi, Michel è scappato, Aliou ha avuto il diniego per richiesta di protezione umanitaria e Mamadou come regalo per il 18esimo compleanno ha avuto un trasferimento ad infinitum a Mineo da cui puoi uscire solo dalle 8 alle 20 salvo esplicita autorizzazione della prefettura che ci mette anche un mese per darla. Addio feste di Natale insieme.

Una vera pacchia, penso mentre guardo il vento che scuote gli alberi davanti casa. Il mare ulula con alte onde sulla riva poco lontana e penso alle 49 persone abbandonate in mare dal 22 dicembre per non rovinarci l’ipocrisia del Natale e di un nuovo anno che comincia sotto i peggiori auspici. Ho scartato regali, mangiato dolci e prelibatezze, mentre uomini, donne e bambini vomitavano l’anima in mare perché “i porti sono chiusi”. E nel frattempo ascoltavo il mondo intorno con un misto di terrore, repulsione e vergogna. Pochissimi condannano in maniera netta ed inequivocabile la tortura inflitta ai migranti e al personale di bordo che per un capriccio di un omuncolo circondato di vili servitori si può permettere di calpestare la dignità umana. Noi, i fortunati, qui a godere del Natale. Voi, poveracci e reietti, lì fra le onde gelide.

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Se siamo al punto zero della conoscenza e affoghiamo in un oceano di bufale, deve esserci stato un errore nella comunicazione. Sicuramente il fenomeno migratorio è stato raccontato male, lacunosamente e in modo che non tutti riuscissero ad orientarsi e comprendere. Le statistiche, i dati, gli articoli per smentire le percezioni accumulate col telecomando in mano sul divano che valgono quanto una ricerca scientifica, i reporter sulle navi e a ogni frontiera che rischiano la vita per raccontare le storie di quelle persone contro cui sbraitiamo l’odio del nostro fallimento. Niente è servito. Bisogna ripartire da capo se nemmeno chi conosce noi di Antigone ha avuto l’accortezza di leggere ciò che scrivevamo per porsi quantomeno delle domande.

E io ci sto a rimettere tutto in discussione, a cercare ancora una volta un nuovo alfabeto per comporre le parole che ci aiuteranno a capire. Forse non sono bastate le storie dei ragazzi che raccontavano come loro venissero torturati con le famiglie appese al filo del telefono, mentre noi ci appassionavamo a inutili discussioni sulle quote europee pur di rimpallare ad altri il “problema”. Forse Aliou non ha spiegato bene il suo desiderio di morire mentre la sua dignità di essere umano veniva fatta a pezzi dalle torture. Magari le preghiere di un 16enne affinché dio lo facesse morire pur di non dover vivere ancora quell’orrore fatto di gente che “ci ammazzava ridendo perché tanto eravamo polli da scannare” non sono state in grado di descrivere l’orrore dei recuperi della fantomatica guardia costiera libica da noi foraggiata.

Tuttavia, oltre l’impegno a mettere tutto in discussione, mi rimane un dubbio. Quando tento la difficile strada del confronto, mi rimane il dubbio che non sia un problema di comunicazione a impedire la comprensione della migrazione forzata, ma una quantità di stronzaggine decisamente superiore al mio “buonismo”. La verità è che in quasi cinque anni di migrazione in ogni angolo della mia vita ho più domande che risposte, più interrogativi che certezze. Ma una cosa l’ho capita: ci sono cose che si capiscono solo col cuore. E con la pelle. Chi vuole capire capisce e chi vuol trovare scuse per difendere il proprio piccolo feudo continuerà a farlo a qualsiasi costo: negando dati, aggrappandosi a ipotetici leader del cambiamento dall’inequivocabile retrogusto fascista, ipotizzando le peggiori nefandezze pur di denigrare le ong impegnate a salvare vite umane la cui missione va ben oltre la pochezza di questa gente.

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*Ph. Francesco Malavolta

 

La verità è che c’è chi si sente cittadino del mondo, chi crede nell’assoluta necessità di porre rimedio agli ostacoli all’uguaglianza e chi se ne frega. C’è chi riconosce nell’altro se stesso e chi si arrende al qualunquismo del proprio tornaconto. C’è chi concepisce il mondo come un luogo senza confini, barriere e ostacoli all’inarrestabile viaggio dell’umanità in cammino e chi ha bisogno di muri, muretti, fili spinati per rimpicciolire il mondo alla dimensione del proprio cervello atrofizzato. Open space contro privé con champagne e marmaglia fuori. Ormai guardiamo il mondo così, con un antagonismo che ha dimenticato inevitabili responsabilità storiche nei confronti di chi oggi cerca un futuro di pace che gli è stato negato nel suo paese di origine verosimilmente devastato dalla nostra avidità. Siamo i privilegiati del mondo perennemente in bilico fra la salvezza e la condanna alla povertà che ci atterrisce perché negherebbe l’orgia consumistica a cui siamo abituati e siamo disposti a qualsiasi cosa pur di non assumerci responsabilità. C’è chi lo capisce e chi no. Stop.

Ed infine c’è il corpo. Il corpo segna la linea netta fra teoria e pratica, speculazione filosofica e oltraggio fisico. Toccare le cicatrici di chi ha la Libia tatuata addosso impedisce di continuare a tacere. Io non ho scuse e so che il silenzio è complicità, assenso, disponibilità ad assecondare la barbarie purché non tocchi noi in un ridicolo balletto per eludere ogni responsabilità. Ma questi ballerini sul palco dell’opportunismo sono gli sconfitti della Storia, sono i miserabili della Vita di cui nulla comprendono e, per questo motivo, nessun creonte sconfiggerà mai Antigone la cui disobbedienza è quanto mai necessaria.

di Maria Grazia Patania

Rondini: la storia di Fofana fra speranza e diniego della protezione umanitaria

03 lunedì Dic 2018

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Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania

Io Rondino, Tu Rondini, Lui/Lei Rondina, Noi Rondiniamo, Voi Rondinate, Loro Rondinano.

Fofana mi fa cenno con la mano, mi avvicino e col dito punta un verbo coniugato ordinatamente accanto ad altri. Giocare, Parlare, Suonare. La radice in blu, le desinenze in rosso. “Maestra, ma è giusto?”, mi chiede indicando il neologismo Rondinare. Mi viene da ridere: “Questo verbo non esiste. Rondine è un sostantivo, un nome femminile e i nomi non si coniugano come i verbi. I sostantivi hanno solo maschile o femminile, singolare o plurale”. “Grazie, maestra. Cos’è rondine?”. È un uccello, un “oiseau”. Gli mostro una foto sul telefonino e troviamo l’equivalente francese. “Rondine” diventa la parola del giorno e ripassiamo l’indicativo presente per essere sicuri di non coniugare qualsiasi cosa ci capiti davanti.

Fofana ha 17 anni, viene dalla Guinea Conakry e durante il viaggio è caduto dal pickup dove era stato ammassato insieme ad altre persone. Cadendo si è fratturato moltissime ossa e da allora ha frequenti emicranie, sbatte spesso le palpebre e perde facilmente la concentrazione. Ma questo non scalfisce la sua voglia di imparare. È un ragazzo mite e silenzioso, so pochissimo della sua storia. Un giorno non si presenta a lezione, è malato. Scendo in camera sua e lo trovo tutto rannicchiato sotto le coperte, “Maestra” mi sussurra sorridendo. “Fofana, ma che combini? Guarisci e ti lascio le fotocopie”. “Grazie, maestra. Ciao, maestra”. Lo saluto con un bacio sulla fronte che scotta. Sua madre avrebbe fatto lo stesso. Risalgo le scale col cuore gonfio di nuvole, ma non c’è tempo per i melodrammi. Oggi facciamo l’imperfetto.

Io ho il gruppo intermedio, sono 11, per lo più francofoni della Guinea Conakry, Costa d’Avorio, Mali, e due gambiani a cui puntualmente parlo in francese finché non mi dicono “Maestra, Gambia”. Saryo e Omar sono in assoluto i miei preferiti: sembrano fratelli, ma si sono conosciuti ad Augusta. Sono sempre puntualissimi per la scuola, fanno tutti i compiti e non si perdono nemmeno una parola della lezione. Sulle loro mani, sul collo piccole cicatrici sottili mi ricordano cosa significhi Libia, il luogo che il mio Paese spaccia per porto sicuro senza nessuna vergogna. Omar ha una grafia perfetta, in Gambia andava a scuola e si vede da come muove la mano che impugna la penna. Altri non erano così fortunati e siamo state noi la prima scuola della loro vita.

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*Ph. Francesco Malavolta

Inizio le lezioni di italiano poco dopo Capodanno: fra fine gennaio e inizio febbraio ci sono gli ultimi trasferimenti in struttura. Sono gli sbarchi terribili che coincidono con la Giornata della Memoria, i sopravvissuti sono traumatizzati, molti sono stati ripescati dall’acqua gelida, tutti credevano di morire. Dosso non parla quasi mai, vuole studiare, ma bisogna cominciare da zero. Emilio, un volontario, incolonna lettere e vocali per fargli capire i suoni. B+A=BA; C+A=CA; D+A=DA. Quando c’è mia madre, glielo affido: inforca gli occhiali, sorride come fanno le madri, gli tiene la mano per fare le lettere e rispettare il rigo. Alla fine della lezione, si abbracciano. “Ciao, mamma”. “Ciao, Dosso, mangia e ricopiati gli esercizi”. Quando saliamo in macchina, mi dice sempre la stessa cosa “Io non ci vengo più qua. Poi me torno a casa angustiata, penso alle loro madri… Sarei impazzita a quest’ora”. Ma poi puntualmente torna insieme a me.

Per me migrazione significa questo. Leggo di come non si voglia più accordare la protezione umanitaria e penso a Fofana: dopo il rifiuto, svanirà l’ultima speranza di poterlo curare. Penso alle ruspe e alle promesse spazzatura: Dosso si è volatilizzato dopo l’insediamento del nuovo governo. Lui e altri ragazzi sono scappati per paura di chi dice che li riporterà in Africa, “a casa loro”, benché casa loro non sia un’opzione. A nulla serve rassicurarli parlando di Diritto Internazionale. Loro che hanno vissuto abusi ben al di là di ogni immaginazione sanno che il diritto non vale niente in certi casi. Un colpo sparato a bruciapelo è più risolutivo di qualsiasi convenzione.

Quando si parla di migrazione oggi, si ha la costante impressione di muoversi su un campo minato, di dire sempre la cosa sbagliata. Eppure, basterebbe concentrarsi sulle persone per proteggerle. Mettiamo da parte la politica, l’economia e la propaganda che ogni giorno ci viene propinata. Si tratta di esseri umani, di noi e del nostro mondo. Non stiamo decidendo la politica o l’economia dei prossimi anni. Stiamo scegliendo fra barbarie e civiltà. Stiamo decidendo se vogliamo rinunciare all’illuminismo, a Norimberga e Ginevra, elevare l’ingiustizia a codice di comportamento e affermare che non tutti hanno diritto alla vita. Abbiamo reso opzionale il salvataggio in mare, perso ogni empatia di fronte a chi muore, rinunciato a qualsiasi umanità.

Pensiamo veramente di salvarci lasciando morire gli altri?

di Maria Grazia Patania

Vivere ad Augusta, abitare la frontiera

27 martedì Nov 2018

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Augusta, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Porto di Augusta, Refugees Welcome, Scuole Verdi Augusta

“Quando sono sbarcato, non riuscivo a tenere dritte le gambe. Mi tremavano. Mi hanno dato un panino, due mele e l’acqua. Erano tutti così bianchi. Mi facevano impressione”, racconta in perfetto italiano Doumbia, ridendo mentre ricorda il suo sbarco. Partito da Bamako e transitato dalla Libia a 16 anni, l’1 maggio 2014 è arrivato ad Augusta dove è cominciata la sua nuova vita. Trasferito per qualche mese nel centro di prima accoglienza per minori stranieri non accompagnati “Scuole Verdi”, passava il tempo giocando a calcio nel campetto vicino, placava gli animi durante le distribuzioni di vestiti e prodotti per l’igiene personale e coi primi 5€ ha comprato un piccolo dizionario francese-italiano.

Augusta è una città in provincia di Siracusa con circa 36.000 abitanti, generalmente è conosciuta per l’inquinamento ambientale causato dal petrolchimico che ha deturpato un ampio tratto di costa e sorge in prossimità del luogo di interesse archeologico Megara Hyblea in totale stato di abbandono. Per decenni, dopo l’installazione del polo petrolchimico, gli abitanti di Augusta, Melilli e Priolo hanno goduto di un sonnolento benessere le cui conseguenze si sarebbero mostrate in seguito: ambiente e salute compromessi dal ricatto occupazionale. Meglio morto che disoccupato.

Qui siamo geneticamente preparati all’idea che qualcuno arrivi dal mare e rimanga con noi per un tempo indefinito durante cui impariamo a cucinare piatti nuovi, scopriamo sapori sconosciuti, piantiamo semi mai visti e arricchiamo il dialetto con suoni o parole dei nuovi arrivati. Gli sbarchi in quest’area ci sono sempre stati, ma dal 2013 sono aumentati esponenzialmente e le scuole verdi di Doumbia hanno costituito il primo vero momento di incontro con la migrazione forzata. Il centro era in una zona densamente abitata, i ragazzi non erano nascosti agli occhi della cittadinanza che si dimostrò solidale coi nuovi arrivati. Ivolontari aumentavano costantemente, davanti al cancello c’erano sempre adolescenti del luogo che superavano con un pallone le fantomatiche barriere culturali, c’era chi portava teglie di lasagne, latte, biscotti e vestiti per i “picciriddi”. Alcune famiglie presero con sé dei ragazzi, alcuni dei quali vivono ancora in città.

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Ph. Francesco Malavolta, porto di Augusta

Quando nel maggio 2014 ho assistito al primo trasferimento di minori cui avevo appena distribuito la colazione, ho dato un sacchetto con acqua e cibo a ciascuno di loro e aspettato di tornare a casa per piangere. Capii che dovevo rinunciare a ogni progettualità, immergermi nel presente ed evitare di pensare al futuro. Quattro anni dopo non ho sviluppato nessun automatismo e niente mi prepara agli addii. Ogni volta mi sento tradita quando scopro che Valdez è scappato senza dire niente per andare in Francia a inseguire il sogno di diventare rapper, che Lancinet ha superato il confine perché la sua famiglia aveva venduto tutto per liberarlo tre volte dai torturatori libici e lui doveva aiutarli. Quando li trasferiscono in altre strutture, almeno c’è il tempo di fare la cena di addio, sistemare il borsone, dare una coperta e i biscotti “nsà mai c’hai fame durante il viaggio”.

Il profilo della città di Augusta è stato per migliaia di persone l’immagine della salvezza, il porto sicuro dopo l’inferno. Nella maggior parte dei casi, ad Augusta si arriva prima di ripartire. In alternativa, si rimane qui fino allo sfinimento fra documenti che non arrivano, quotidiani episodi di razzismo spicciolo, speranze in dissolvenza e crudele burocrazia.

Augusta è diventata frontiera come luogo fisico e immaginario di arrivo, partenza e transito. Vivere la frontiera significa abitare il tempo dell’attesa: si attendono i salvati, si piangono i morti mai visti, si curano ferite in angoli remoti, si soffre l’oltraggiodelle navi lasciate in porto con a bordo esseri umani sotto il sole implacabile, si finge di dimenticare che arriverà l’addio. C’è nei luoghi di frontiera la consapevolezza dell’umanità in cammino: le frontiere sono luoghi fluidi in cui tutto cambia velocemente. Alla vita bisogna trovare un senso più profondo del legame logico di consequenzialità fra causa ed effetto, guardando oltre la contingenza. Se guardassimo alla contingenza, non faremmo nulla: inutile sarebbe istruire i figli arrivati dal mare, superfluo curarli oltre l’emergenza, pericoloso affezionarsi.

Abitare la frontiera significa abitare la storia in un costante esercizio della memoria da costruire e preservare, significa essere in grado di comprendere la vastità degli eventi nel qui e ora, senza il lusso di aspettare che il tempo restituisca senso a tasselli in disordine. Per abitare la frontiera serve un atavico amore per la vita, per la libertà e i suoi figli in cammino e comprendere che in ciascun viaggiatore troveremo la parte migliore di noi stessi.

di Maria Grazia Patania

 

 

 

Why are they doing this to me: fare 18 anni e ricevere un trasferimento al CARA di Mineo in regalo

20 martedì Nov 2018

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Augusta, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Refugees Welcome

“Why are they doing this to me”. Il messaggio è di Ousman, neomaggiorenne gambiano cui hanno notificato il trasferimento presso il CARA di Mineo come regalo per i suoi 18 anni. Del gruppo di minori a cui ho insegnato italiano fino allo scorso giugno lui è il più piccolo, l’ultimo a uscire dalla sfera di protezione legata alla minore età. Ousman è arrivato a novembre 2017 in Sicilia e subito dopo lo sbarco è stato trasferito ad Augusta dove è rimasto fino alla scorsa estate quando è stato assegnato a una struttura a Scordia (CT). Il centro per minori dove viveva, infatti, per mancanza di fondi e di nuovi arrivi, unita alle fughe volontarie e al raggiungimento della maggiore età da parte di molti suoi ospiti, ha dovuto chiudere e lui è stato portato altrove.

In un anno in Italia, è stato trasferito in tre posti diversi: ogni volta che si abituava a vivere in un luogo, arrivava il momento del trasferimento. Ad Augusta era stato inserito nel corso di alfabetizzazione di sei ore settimanali e seguiva con attenzione le lezioni dei volontari che per altre sei ore la settimana andavano nel suo centro a insegnare italiano. Ovviamente, non era abbastanza e ancora oggi parla con difficoltà. Fra le paure principali alla viglia dei trasferimenti c’è sempre la scuola e la possibilità di continuare a studiare che spesso non viene garantita. Anche la questione emotiva ha una sua importanza perché, vale la pena ricordarlo, non parliamo di pacchi o di oggetti da spostare qui e lì. Parliamo di persone, in questo caso di adolescenti sopravvissuti a ogni tipo di orrore che avrebbero solo bisogno di vivere serenamente, sentendosi al sicuro.

Il raggiungimento della maggiore età per le migliaia di minori non accompagnati che negli ultimi anni sono arrivati in Italia viene vissuto sempre con grande angoscia: spegnere quelle candeline significa entrare in una dimensione nuova che li rende più vulnerabili e comporta la perdita di molte garanzie. A prescindere da ciò che prevede ufficialmente la legge, la verità è che i ragazzi finiscono spesso parcheggiati in centri per neomaggiorenni o -peggio ancora- nei Cas che richiamano il pericoloso universo concentrazionario citato dalla Arendt fra gli elementi tipici di un regime totalitario. C’è poco da sminuire e sottovalutare rispetto ad un simile parallelismo e chi lo fa probabilmente preferisce cullarsi nell’illusione di sicurezza piuttosto che cogliere i pericoli che viviamo ogni giorno.

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Nel 2017, l’86% dei migranti sul territorio italiano si trovava all’interno di CARA o Cas, mentre gli Sprar registravano cali significativi prima di essere quasi completamente smantellati a causa di una precisa strategia politica che, negando i fondi, nega ogni forma di accoglienza positiva. Per definizione, un Cas è un centro per l’accoglienza straordinaria dove andrebbe a stare chi per motivi di sovraffollamento non trova posto in strutture di prima accoglienza e per il tempo necessario a presentare richiesta d’asilo prima di andare in un centro per la seconda accoglienza. Rispondendo alla logica emergenziale che domina la gestione dei flussi migratori, dietro i Cas e i CARA non c’è alcuna progettualità: le persone vengono abbandonate al loro interno senza un percorso formativo, senza crescita professionale né opportunità di apprendere la lingua e con altissime probabilità di finire per strada. Gli esseri umani diventano silenziosa fonte di guadagno per i gestori di questi centri, come confermato dalla “pessima esperienza che complessivamente ci consegna l’analisi delle strutture straordinarie”. “Il mio Cas si trova in campagna, non c’è niente intorno e non mi danno nemmeno l’acqua da bere. Devo andare a comprarla io coi miei soldi. Non imparo l’italiano perché al centro parlano solo in dialetto”, confessa Fofana, anche lui neodiciottenne del Gambia.

Dal 2014 al 2017, si è continuato a definire “emergenza” un fenomeno strutturale come quello delle migrazioni per nascondere l’inettitudine di chi dovrebbe gestirle razionalmente. Il Piano di Integrazione Nazionale del Ministero dell’Interno afferma che “la strategia di integrazione italiana deve essere sostenibile. Questo è possibile solo se la presenza degli stranieri è equamente distribuita sul territorio nazionale”, favorendo quindi “modelli di accoglienza diffusa” e rafforzando il modello SPRAR. Tuttavia, la prassi va in una direzione opposta e, secondo l’ISPI, “Se nel 2014 circa un migrante su 3 era ospitato nelle strutture SPRAR, adesso la proporzione è di uno su 7”.

Un elemento spesso trascurato è proprio il fatidico passaggio alla maggiore età. Secondo la burocrazia, nel giorno del 18esimo compleanno si perde il diritto di stare in una struttura per minorenni che, a sua volta, non ha nessun obbligo di tutela fino al trasferimento. Da quel momento, la struttura smette di percepire la diaria giornaliera che spetta pro capite agli ospiti e il neomaggiorenne diventa un fardello di cui liberarsi. Si spiegano anche così i tanti ragazzi che finiscono in strada senza troppi preamboli e che diventano facili prede della criminalità o fantasmi di cui parlare per affrontare la questione del decoro urbano. Ad Augusta, primo porto di sbarco per anni, ci si è cimentati spesso in questo vile esercizio ai danni dei più vulnerabili e si è proceduti all’unica soluzione che sanno applicare le amministrazioni incapaci: sgomberi. Improvvisamente, dei materassi nell’androne di un palazzo sono diventati il simbolo della lotta per il decoro cittadino: nessuna parola sui diritti di quelle persone, nessun interrogativo sul perché si trovassero a vivere lì, nessuna preoccupazione su cosa ne sarebbe stato dopo lo sgombero. Per una volta, maggioranza e opposizione convergevano quasi interamente su qualcosa: eliminare la presenza di quei ragazzi che creavano degrado. Che quei ragazzi venissero da Mineo (dove vivevano in condizioni al limite del disumano) o da Siracusa (dove erano finiti in strada appena diventati maggiorenni) non è interessato a nessuno.

Questo è il Paese in cui viviamo, un paese governato da incapaci che non hanno idea di come gestire le sfide attuali che, per inciso, non sono l’economia, la politica o i migranti. Le sfide attuali riguardano la nostra umanità. Il pericolo non sono i migranti, bensì la barbarie incombente che stiamo scegliendo come nostro destino. I migranti rappresentano un capro espiatorio perfetto per opporre i penultimi agli ultimi, ma non è cancellando i loro diritti che recupereremo i nostri. Non è negando l’acqua da bere a Fofana che renderemo migliore il luogo dove viviamo, né deportando Ousman in una struttura affollata e dimenticata nel nulla che diventeremo padroni del nostro futuro. Tuttavia, fino a quando le cose non cambieranno, qualcuno dovrà trovare il modo per spiegare a Ousman che portarlo a Mineo non è un gesto contro di lui, ma una semplice casualità dettata da una burocrazia che non l’hai mai guardato in faccia, ma pretende cieca obbedienza.

di Maria Grazia Patania

 

Portala via. Via da qui.

15 lunedì Ott 2018

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Augusta, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Porto di Augusta, Refugees Welcome

È luglio e fa caldo sulla banchina del porto.
Lo sbarco dovrebbe avvenire intorno alle 16 e un’ora prima siamo già tutti pronti ad abbrustolirci sotto il sole. Tira un vento fastidioso che solleva polvere e zolfo, ma aiuta a non soffocare. D’un tratto ci viene comunicato che siamo sulla banchina sbagliata, prendiamo le macchine e ci spostiamo.
Intorno, facce stanche, preoccupate.
È il periodo della gogna mediatica contro le ONG impegnate in mare che improvvisamente sono diventate il nemico numero uno da combattere per fermare l’invasione che esiste solo nella mente di chi confeziona odio. È il periodo in cui si pesa ogni sillaba per timore di cadere nelle trappole della propaganda. È il periodo in cui la solidarietà diventa un crimine, salvare vite un atto di cui vergognarsi e restare umani l’unica sfida sensata.

La grande nave si profila all’orizzonte, inizia tutta la preparazione allo sbarco che lentamente comincia. Scendono le famiglie, le donne con bambini piccoli. Ce ne sono tre che sembrano pronti per l’asilo, non fosse per i piedi nudi e lo sguardo smarrito. Nell’afa del pomeriggio galleggiano i sorrisi di disagio e speranza fra questi sopravvissuti e noi che li aspettiamo in banchina sperando di essere utili.
C’è molto silenzio, ogni tanto un bambino ride, una donna viene fatta distendere su una barella e portata in ambulanza. Non è niente di grave per fortuna.

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Ph. Francesco Malavolta

Dopo un po’, finito lo sbarco di famiglie, donne e bambini, mi sposto dove c’è l’attendamento in cui si svolgono le operazioni di identificazione e alloggiano in prima battuta i nuovi arrivati: due tendoni molto grandi, dei container e uno spiazzo coi giocattoli per i bambini.
Quei giochi sull’asfalto bollente, quei colori sul grigio della strada sono uno schiaffo. Tanti bambini giocano, si rincorrono, ridono e sembrano felici. Ma è sbagliato: quello non è un posto per giocare, non è un posto dove trascorrere nemmeno un minuto della propria preziosissima infanzia.

Mi avvicino alla tenda più grande e noto un bambino di circa due anni in braccio al padre che mi guarda. Ci scambiamo un sorriso e lui si avvicina, me lo porge. Sono maliani, c’è anche la madre che batte le mani per incoraggiarmi a prenderlo in braccio. Il piccolo non è proprio contento e non perde di vista i genitori, ma nel frattempo si gode baci e carezze dell’estranea.
Facciamo una foto insieme: non fossimo al porto sotto il sole cocente dopo uno sbarco e un viaggio della speranza, sembreremmo una famiglia la domenica pomeriggio al parco.
Restituisco il bambino al padre, ci salutiamo ed entro nella tenda: mamme e bambini ovunque. Uno sembra il ritratto della serenità in braccio a sua madre che è bellissima e aggraziata in ogni gesto. Mentre sono impegnata a guardare loro, arriva una donna sulla quarantina, siriana, magra e accompagnata dalla nipote di 16 anni. Non parlano inglese, mi prendono in disparte e si toccano la pancia “Blood, blood. Please help”. Hanno le mestruazioni, servono assorbenti. Ne ho due in borsa per pura casualità, glieli do e ne vado a cercare altri, provando a dimenticare l’imbarazzo della donna che me li ha chiesti. Quando torno con un intero pacco, mi abbracciano e ridono.
Non basta affrontare un viaggio allucinante, ci manca solo il ciclo a peggiorare le cose.

Non ho il tempo di fermarmi a pensare che un gruppetto di ragazze somale mi fa cenno di avvicinarmi, hanno un fagottino in braccio: una bambina minuscola dentro una copertina rosa. Si sente il respiro sottilissimo. La mamma è avvolta in un velo azzurro, è esile, mi dice di avere 20 anni e di aver partorito in Libia 15 giorni prima. Nemmeno lei parla inglese, solo qualche parola per dirmi “beautiful”. Sì, la bambina è adorabile. Me la mette in braccio come fosse una bambola, si gira velocemente per controllare se qualcuno ci guarda e mi parla dritta negli occhi “Take her away. Away”.
Il suo sguardo corre oltre il limitare del campo, dove c’è la vita, la strada, la città. Dove non ci sono ghetti, file e documenti impossibili da ottenere. Una madre giovanissima che ha avuto quella figlia chissà dove e da chi mi chiede di portarla via con me.
Le spiego che non si può, che quella vita così leggera da tenere in braccio sarebbe un macigno burocratico. Le dico “no possible. All the best” mentre ci abbracciamo io e lei, la bambina in mezzo ai nostri due cuori.
Decido che per quel giorno può bastare. Salgo in macchina, esco dal porto, mi fermo poco dopo, su uno slargo da dove si domina tutta l’area. È quasi il tramonto e quei colori così belli rendono intollerabile la bruttezza del mondo in cui vivo.
Mia madre mi chiama per dirmi se vado a cena, rispondo sì con la voce più ferma che riesco a recuperare. Quando arrivo a casa, crollo e le racconto di quella madre, di quella bambina, di come per un momento me la sia immaginata coi cappellini e le copertine fatte a mano dalla zia, di come abbia pensato a papà che le canta le canzoni per farla addormentare e di come mi siano venute in mente le storie degli ebrei deportati che affidavano i figli a chiunque avesse il coraggio di salvarli.
Lasciamo perdere la cena. Ci è passata la fame. Torno a casa mia, ogni cosa è enorme, il letto troppo grande avrebbe potuto benissimo ospitare quella creatura e anche sua madre.
Mi aggrappo alla legge, alla burocrazia, alle regole per trovare delle scuse, ma non mi aiutano. Penso solo alla ragazza che mi chiede di salvare sua figlia che respira piano fra le mie braccia e a me che da allora ogni giorno mi domando se ho fatto bene a dirle di no.

di Maria Grazia Patania

Io posso farci tutto: insegnare italiano per resistere alla disumana burocrazia che regola le vite dei migranti

09 martedì Ott 2018

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Augusta, Figli della Fortuna, Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Refugees Welcome

Tutto è cominciato  a inizio febbraio, mentre ero in Portogallo. Tornando non ho trovato Alì e solo davanti all’evidenza della sedia vuota ho saputo la verità. Nessuno aveva avuto il coraggio di dirmelo mentre ero lontana. Alì, il gigante buono. Alì, col cappellino da super man che sorride sempre e impara velocemente. Alì che balla scatenato sul sagrato del Duomo di Augusta con l’inseparabile cappellino rosso e blu durante la festa di carnevale. Alì, 17 anni, maliano, è scappato per rincorrere il futuro per cui ha rischiato tutto.

Di nuovo ritorna la triste realtà degli addii a cui non ci si abitua mai. Questa volta però è lui a scegliere di andarsene. Senza dire una parola, un giorno parte e poco dopo scriverà dalla Francia. Come sia riuscito ad arrivare resta un mistero. Da quel momento le cose cambiano velocemente e ad aprile arriva il primo grosso trasferimento di neo diciottenni: ne vengono trasferiti dieci in un colpo solo. I corridoi diventano silenziosi, il morale è a terra e noi che siamo rimasti qui ci chiediamo chi sarà il prossimo. E quando.

La prima volta che sono entrata ad Albachiara era inizio gennaio ed era una confusione di voci, di musica, di ragazzi provenienti da vari paesi dell’Africa fino al Pakistan. La prima volta che ho provato a fare lezione sembravamo un gruppo di squinternati: loro numerosi e attentissimi davanti a me che avevo solo una piccola lavagna ad aiutarmi e nessun pennarello funzionante a disposizione. Da quella prima volta fino a giugno erano cambiate molte cose: avevamo creato 3 gruppi per vari livelli di conoscenza della lingua, altri volontari si erano uniti e, appena mi vedevano arrivare, i ragazzi si chiamavano a vicenda ripetendo “scuola, scuola!”

Ora è rimasto solo Cima ad Augusta, gli altri sono stati tutti portati via. Saryu è l’ultimo ad andare via. Lo sapevo che sarebbe successo, ma niente prepara a questo tipo di addii. Niente cancella questo terribile senso di ingiustizia. Quando mi scrive su whatsapp per dirmelo, piango. Ma gli chiedo solo se gli va di venire a cena dalla mamma. La mamma è la metafora di tutta la famiglia e la presenza più necessaria di tutte. La mamma è l’unica àncora di salvezza, l’unico riparo dal naufragio del cuore, l’unica medicina possibile di fronte alla malattia degli addii forzati.

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*Ph: Francesco Malavolta, agosto 2018 dopo la chiusura ufficiale del CPA Albachiara di Augusta

Dopo quattro anni di migrazione vissuta ogni giorno, in ogni angolo della mia vita ho capito che migrazione significa ingiustizia. Significa dolore, perdita, frustrazione. Ma soprattutto ingiustizia.

Io sono stanca di vedermeli portare via come pacchi. Sono stanca di inventare bugie e storie a lieto fine che tanto non si avverano. Sono stanca di dire “non preoccuparti” quando io sono terrorizzata perché fatico a riconoscere il mondo bestiale in cui vivo. Se quattro anni fa, avevo la speranza. Adesso a poco a poco mi stanno togliendo anche quella.

Questi figli li abbiamo curati, educati, inseriti in qualsiasi progetto potesse evitarne l’isolamento, abbiamo insegnato loro la nostra lingua nella speranza che imparassero a usarla in modo gentile. Io non ho insegnato italiano per pietà o per lavarmi la coscienza. Ho insegnato italiano perché credo che la conoscenza sia l’unico modo per salvarci tutti insieme: non rimanere ignoranti è l’unica speranza che ci resta. Far sì che loro riescano dove noi abbiamo fallito. Consegnare uno strumento potente come la parola affinché venga usata per costruire il mondo migliore che vedo allontanarsi ogni giorno, ma che con tenacia dobbiamo continuare a perseguire.

Non sono andata al centro di prima accoglienza per pietismo, buonismo o altre parole vuote. Sono andata da loro per un prepotente senso di ingiustizia che non si arrendeva nemmeno all’evidenza delle fughe volontarie dettate dalla disperazione o dai trasferimenti. Tre volte a settimana per mesi, sono stata con loro. Li ho rimproverati come fossero figli miei, ho ascoltato la voce delle loro madri dall’altro capo del telefono, ho pianto il loro dolore e assorbito il veleno dei loro racconti di torture e violenze. Mi sono illusa che la sera le loro famiglie potessero andare a dormire con un sorriso pensando che i loro figli stavano studiando. Mi sono illusa che saremmo durati insieme e che qualcosa di positivo l’avremmo fatta insieme. Come ogni storia di amore, quando inizia non si pensa mai alla fine. Non la si prende nemmeno in considerazione. Durerà, mi ripetevo. Questa volta durerà sicuramente. Ho fatto progetti, ho tentato di seguire un programma per far imparare la lingua italiana con meticolosità.

Non so se quelle lezioni siano servite per sciogliere la loro lingua, per aiutarli con le parole del paese dove vivono adesso. Ma so con certezza che quelle lezioni sono servite a me per salvarmi da un abisso di impotenza e dalla pericolosa gabbia del “io non posso farci niente”.

Io posso farci tutto.

di Maria Grazia Patania

Tornate a casa vostra: Abdullah e il sogno di poter andare a scuola in Italia

17 martedì Lug 2018

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Figli della Fortuna, Francesco Malavolta, Guinea Conakry, Maria Grazia Patania, Tornate a Casa Vostra

Ho lasciato la Guinea quattro anni fa per un problema in famiglia: la causa principale è stata la separazione dei miei due genitori quando avevo solo due anni. Dopo la loro separazione sono rimasto con mia madre e la sua famiglia per qualche anno. Poi mi sono trovato a casa di mio padre per andare a scuola nel 2007, ma nel 2013 sono stato cacciato via perché non potevo permettermela.

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Photo Copyright: Francesco Malavolta

Nel frattempo mio padre si è risposato con una donna che viveva con noi da quando ero ritornato da lui. Questa donna era felice di stare con mio padre, ma non che ci fossi anche io perché non mi ha mai considerato figlio suo o di suo marito. Non mi dava nemmeno da mangiare e mi faceva lavorare tutto il giorno. Mio padre avrebbe potuto farmi andare a scuola, ma con la complicità della sua nuova moglie non ha fatto nulla per i miei studi. Verso la fine del 2013 ho deciso di allontanarmi dalla mia famiglia per raggiungere mia madre in Senegal dove si era risposata con un alto uomo. I figli del nuovo marito di mia madre non andavano d’accordo con me e mi trattavano come un bastardo, così mi sono deciso ad andare altrove. Sono andato da un mio amico pescatore che mi ha insegnato la pesca, ma non osavo avventurarmi in mare perché avevo paura. Così il mio amico ha cercato un lavoro per me come giardiniere e per due anni ho fatto questo mestiere molto pesante. Ho sofferto molto finché il mio amico mi ha detto di smettere perché mi avrebbe fatto male nel futuro dato che ero troppo piccolo per quel tipo di lavoro.

A quel punto, ho deciso di lasciare il Senegal per il Mali attraversando anche Burkina Faso, Niger e Libia, dove ho trascorso un anno prima di ritrovarmi in Italia. Grazie a Dio ho realizzato il più bel sogno della mia vita: essere sul territorio italiano. Arrivato al porto di Augusta, sono stato ben accolto e mi hanno portato nel centro dove vivo ancora adesso con delle persone che si occupano molto bene dei miei documenti e di tutto il resto.

Abdullah, 17 anni, Guinea (Conakry)


Abdullah durante le lezioni di italiano era uno dei più motivati, intelligenti e veloci nell’apprendimento. Il suo punto forte erano i verbi: era una scheggia a coniugarli. Ogni tanto non veniva perché aveva mal di testa e quando gli chiedevo come mai, mi rispondeva che aveva troppi pensieri dentro. Un modo come un altro per comunicarmi che è molto semplice parlare di scuola per chi ha una vita ordinata e un futuro che non fa paura davanti a sé.

L’effetto del disastro umanitario che stiamo consentendo ogni giorno anche sulla terraferma ha fra le conseguenze più penose il senso di disfatta che provano questi ragazzi man mano che si rendono conto che qui non c’è posto per loro. Potrei dirlo in molti modi, ma la realtà è questa: capiscono che il sogno che li ha mantenuti in vita finora è pura illusione. Alle prime lezioni erano tantissimi, poi col passare del tempo e degli esiti negativi delle commissioni la motivazione diminuiva. Sempre più hanno cominciato a sentirsi intrappolati in un limbo senza speranza che contagiava anche noi. Perché avrebbero dovuto imparare l’italiano se tanto qui non li vuole nessuno? Perché sforzarsi di imparare la lingua di un paese che fa capire loro in ogni modo di non essere graditi? A quel punto, siamo diventati sempre meno, alcuni sono andati via verso altri paesi nella speranza di avere più chance e noi siamo rimaste qui nella speranza di poter ancora essere utile a chi decideva di restare.

Di Maria Grazia Patania

Giornata del Rifugiato 2018: E se domani fossimo noi a fuggire?

20 mercoledì Giu 2018

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Francesco Malavolta, Maria Grazia Patania, Refugees Welcome, World Refugee Day

Diciassette anni fa, per la prima volta, è stata celebrata la Giornata Mondiale del Rifugiato al fine di sensibilizzare sulla situazione dei rifugiati a livello mondiale e far comprendere cosa significhi dover abbandonare la propria casa per motivi di guerre, persecuzioni, violenza diffusa e conflitti. In questa giornata si moltiplicano gli eventi mirati a far conoscere la condizione di rifugiati e sfollati interni nel mondo, ma nessuna di queste edizioni o iniziative sembra essere stata utile per evitare l’aumento esponenziale del livello di barbarie da parte dell’opinione pubblica.

Non solo siamo indifferenti alla sofferenza di milioni di persone costrette a lasciarsi tutto alle spalle nella speranza di sopravvivere, ma l’abbrutimento attuale rende quelle stesse persone il capro espiatorio perfetto per la massa di frustrati ed emarginati che preferiscono accanirsi sull’anello più debole di un meccanismo che in realtà schiaccia tutti e tutte.

In Europa in seguito all’intensificarsi dei flussi migratori in arrivo da Africa e Medio-Oriente a partire dal 2013, dopo una primissima fase in cui sembrava prevalere un approccio umano, si è passati alla più becera propaganda politica che ha trasformato le persone in numeri, i migranti in criminali o usurpatori del nostro benessere e ha annientato qualsiasi conquista realizzata in termini di diritti e tutele dal dopoguerra ad oggi. Il capolavoro dello sciacallaggio politico e giornalistico è stato quello di privare di un volto ciascuna delle persone in fuga, ammassandole in statistiche e numeri privi di contesto.

Non persone che hanno diritti e dignità, ma masse informi buone solo ad alimentare paure e stereotipi.

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Photo Copyright: Francesco Malavolta

Tuttavia, arrivare dove siamo oggi non sarebbe stato possibile senza la complicità di ciascuno e ciascuna di noi. Fagocitati dalle nostre vite frenetiche, assorbiti dai problemi quotidiani e storditi dalla propaganda, rinunciamo a riflettere e a sentirci parte attiva di un sistema che sembra fluire indipendentemente dalla nostra volontà. Ed è li la vera vittoria di populisti, razzisti e xenofobi: il nostro silenzio, la nostra acquiescenza, la nostra inerme accettazione dello status quo e l’implicita rinuncia a combattere le ingiustizie.

Quando diciamo “non possiamo accoglierli tutti”, chi pensiamo di escludere? E poi… tutti chi? Chi sono tutti?

Quando diciamo “aiutiamoli a casa loro”, siamo solo ipocriti. Dov’è casa loro? Esiste? Lo sappiamo? Perché non troviamo almeno il coraggio di dire che vogliamo lavarcene le mani purché non vengano qui a disturbare le nostre vite?

Quando diciamo “accogliamo solo i profughi”, lo sappiamo che un profugo non arriva con lo status di rifugiato scritto sulla fronte ma deve sostenere una trafila legale che oggi sembra sempre più precaria? Lo sappiamo che cosa comporta fare domanda di asilo o richiesta di protezione umanitaria? Abbiamo idea di quanto tempo ci voglia? E che durante quel tempo le persone languono in un limbo burocratico che toglie loro ogni speranza? Ci rendiamo conto che questa stessa trafila è stata recentemente messa in discussione con tentativi di eliminare o abbreviare i ricorsi?

Quando dividiamo fra profughi e migranti economici, cosa stiamo dicendo esattamente? Stiamo dicendo che se scappi dalla guerra, forse ti accogliamo, mentre se a casa tua muori di fame, di sete o sogni un futuro migliore, a noi non importa nulla. La prerogativa dell’ascesa sociale è nostra. Noi possiamo spostarci e fare i cervelli in fuga, voi no. Voi non lo meritate perché siete nati nel posto sbagliato, lo stesso da cui verosimilmente attingiamo risorse da usare a “casa nostra” o che abbiamo eletto a discarica di ciò che ormai non ci serve.

Quando supportiamo tesi quali “apriamo dei centri in Libia e selezioniamo lì chi deve arrivare in Europa”, pensiamo forse a dei provini tipo Grande Fratello? Ci immaginiamo la Libia come un posto di sabbia dorata e dune punteggiate di palme rigogliose? Fino a che punto ci ostiniamo a ignorare in che condizioni versa il paese? Fin quando continueremo a esternalizzare le frontiere della Fortezza Europa sempre più a sud, facendo affari con qualsiasi dittatore ci capiti a tiro purché ci prometta di raggiungere l’obiettivo “sbarchi zero”. E cosa facciamo con le migliaia di uomini, donne e bambini bloccati in Libia che non passeranno il provino per l’Europa? Che ne sarà di loro?

Quando gioiamo di 629 sopravvissuti costretti a 10 giorni di navigazione per toccare terra in un porto sicuro, che tipo di vittoria stiamo festeggiando? In che modo abbiamo reso il mondo un posto migliore?

Quando assistiamo alla sistematica violazione dei diritti umani, perché non sentiamo la necessità di opporci in qualsiasi modo? Quand’è che ci sembrerà “troppo tardi” e ci sentiremo costretti a prendere posizione? Quando capiremo che in determinati momenti storici il silenzio, l’indifferenza e il menefreghismo sono precise scelte che connotano da che parte stiamo?

Quindi in questa diciassettesima edizione della Giornata Internazionale del Rifugiato abbandoniamo  categorie e fattispecie legali per concentrarci sull’unica essenziale verità: siamo esseri umani e ogni essere umano ha diritto a vivere in pace, a sognare un futuro migliore e a trovare ospitalità nel luogo in cui arriva. Esercitiamo la fantasia e proviamo a pensare a cosa faremmo noi se la nostra casa diventasse un luogo insicuro e mortale.

Fuggiremmo, questo faremmo.

di Maria Grazia Patania

 

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