“Maestra! Ci racconti ancora la storia del mare e dei figli che ti ha portato in regalo?”
(Elia, quarta elementare)
Sono un’insegnante e, come ogni maestra di scuola primaria, ho a che fare con gli esseri più curiosi e spietati dell’universo: i bambini. I bambini sanno benissimo cosa chiederti, quando farlo e in che modo. Sono perfettamente consapevoli di ciò che ti farà commuovere o arrabbiare, e sarà proprio lì che andranno a “colpire”. I miei alunni sanno che il mio punto debole sono “i figli del mare”, e quando sono un po’ più stanchi, annoiati o semplicemente vogliono cambiare argomento mi chiedono di loro, di quei ragazzi arrivati da lontano.
“Maestra! Ma è vero che Mamoudou era un po’ monello e che, quando pioveva, a scuola non ci andava? Senti, non possiamo fare anche noi così?”. “Non ci pensate nemmeno! Voi non dovete fare 4 chilometri a piedi, come faceva lui, per arrivare a scuola”.
“Maestra! Ma è vero che in Costa d’Avorio i bambini raccolgono il cacao nelle piantagioni? E non lo mangiano nemmeno… Ma come fanno?”.
Queste e altre decine di domande mi vengono riproposte ogni giorno. Oltre alle curiosità dei bambini, ci sono anche loro a farmi compagnia, i figli e le figlie del mare. Perché, tutte le volte che riesco, io me li porto anche a scuola. O meglio, per essere precisi, è la scuola che all’inizio ha aperto le porte (potremmo dire i porti, se fossimo sul mare) a chi vive sul nostro territorio, e lo ha reso cittadino a tutti gli effetti. Tre anni fa, insieme a un gruppo “magico” di colleghi, abbiamo deciso di proporre alcune attività didattiche che coinvolgessero gli stranieri presenti sul territorio: genitori, richiedenti asilo, amici… Insomma, tutte quelle persone che avevano voglia di condividere con noi un pezzetto della propria cultura, della storia personale e delle tradizioni. Ci eravamo resi conto che il clima di razzismo che respiravamo fuori dalla scuola stava avvelenando anche le menti e i cuori dei nostri alunni.
Abbiamo deciso di fare qualcosa che permettesse di aprire varchi, intessere relazioni, costruire ponti. E così è stato: laboratori di musica, danze e filastrocche; raccolta di interviste, racconti, immagini e, soprattutto, tanta voglia di stare insieme. Una voglia così grande che, sebbene gli incontri pattuiti con gli operatori della cooperativa avrebbero dovuto essere limitati nel tempo, in realtà si sono moltiplicati. E abbiamo perso il conto di tutte le partite a carte, delle chiacchiere, delle risate e dei cartelloni colorati insieme. C’è anche stato il tentativo di coltivare un orto ma, in questo caso, il risultato non è stato quello sperato… Non possiamo essere sempre splendidi…
“Maestra! Quand’è che torna Sane, che dobbiamo finire la sfida a briscola?”
“Maestra! Lo sai che ieri ho incontrato Frank per la strada, e che prima di conoscerlo mi faceva paura perché è nero e adesso invece non mi fa più paura e mi è simpatico?”
“Maestra! Ma Sunday ce lo porti anche quest’anno? Perché io devo chiedergli ancora un po’ di cose sulla festa di Wherewhere e sul suo Paese…”
E da lì, dopo aver aperto le porte della scuola, si sono aperte anche quelle di casa. È stato inevitabile. E da lì a diventare mamma di tutti il passo è stato breve, anzi brevissimo. Nonostante siano uomini grandi e grossi per me rimangono, sempre e comunque, dei figli di cui preoccuparmi: avranno mangiato abbastanza? Si saranno vestiti un po’ di più che sono sempre raffreddati? Fanno attenzione quando escono di sera? Sono neri, in bici non si vedono, rischiano di farsi investire…
I bambini lo sentono se tu ami qualcuno. I bambini lo sanno che puoi voler bene a un figlio che non ha il tuo stesso colore: lo sanno, perché passi le tue giornate a pulire i loro nasi, a raccoglierne le lacrime e ad ascoltarne le proteste; i bambini vogliono capire se anche tuo figlio, portato dal mare, si becca i cazziatoni come qualunque altro ragazzo; vogliono sapere se mette in ordine la sua stanza o risponde male alla sua mamma come, a volte, fanno anche loro. E io racconto. Racconto delle volte in cui Beatrice e Amadou si mettono d’accordo e mi prendono in giro perché, sui sentieri di montagna, cammino più lenta di loro; di quando preparano insieme la cena facendo una confusione pazzesca e sporcando 12 pentole; o di quella volta che non ne volevano sapere di venire in gita con me perché c’era il vento e loro avevano freddo e hanno protestato per tutto il pomeriggio.
Io racconto e loro ascoltano, con gli occhi sbirluccicanti: perché i bambini lo sanno che non è la buccia a fare il frutto e che siamo noi grandi a perdere tempo dietro cose inutili.
I bambini lo sanno che il mare porta regali bellissimi, o forse, come direbbe Amadou, non è il mare… ma va bene lo stesso. “Tu dici che è il mare che mi ha portato da te, ma secondo me è stato Dio che ci ha fatto incontrare”.
di Daniela Mussano