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“Mi chiamo Amadou, ho 21 anni e vengo dal Gambia. Lì ho lasciato mia mamma, mio papà, mio fratello più grande e una sorellina più piccola. Sono partito perché non potevo più stare nella stessa casa di mio padre: lui è l’imam del villaggio e non gli piaceva il modo in cui mi comportavo. Abbiamo litigato più volte e, alla fine, io me ne sono andato. Non ho più avuto contatti con mio padre, a parte una volta in cui mi ha telefonato quando ero già arrivato in Italia per dirmi che dovevo tagliarmi i capelli. Ogni tanto sento mia madre e mia sorella, loro mi mancano molto.

Me ne sono andato da casa che avevo 15 anni; per un po’ sono stato da una mia zia e da una signora che mi ha ospitato. A febbraio del 2016 ho deciso di partire per l’Italia e sono arrivato sei mesi dopo”.

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Incontro Amadou a scuola, durante un percorso di accoglienza e integrazione che abbiamo organizzato con i bambini della primaria. All’inizio non mi colpisce in modo particolare e faccio anche fatica a ricordarne il nome, che mi sembra uguale a quello di molti altri: Mamadou, Amadou, Mamoudou…

“Che ne dite, li portiamo i ragazzi in montagna?”: è bastata questa frase, e una giornata sul lago, per far sbocciare un rapporto che non saprei se definire di amicizia, affetto, stima o “mammitudine”.

Insieme al gruppo di volontari di cui faccio parte, decidiamo di organizzare una gita in montagna. L’obiettivo della giornata è quello di passare un po’ di tempo con i 12 ragazzi del CAS che ognuno di noi, a modo suo, segue: c’è chi dà ripetizioni di italiano, chi li allena a calcio, chi li segue dal punto di vista medico, chi li coinvolge in improbabili gite in giro per il Piemonte… Vorremmo conoscerci meglio, cementare il gruppo e condividere l’esperienza insieme alle nostre famiglie. È proprio in montagna che “mi accorgo” di Amadou: grande e grosso, con il cappuccio perennemente calato sulla testa e uno sguardo da cui, l’ho capito quasi subito, non sarei più riuscita a uscire. I suoi compagni mangiano, parlano, ridono, fanno un gran casino, mentre lui sta spesso in disparte, in silenzio.

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Mi avvicino io, con cautela, quasi chiedendo permesso e lui inizia a farmi qualche timida domanda: qual è mio marito, quanti anni ha mia figlia, come si chiamano… E tra una parola e l’altra (molto poche all’inizio) scopro che ama cucinare, che è una cosa che gli viene bene e che non gli pesa. Nonostante io sia una pessima cuoca, lo invito a casa con vari pretesti: una volta facciamo gli gnocchi, un’altra le lasagne, un’altra ancora i biscotti e sempre coinvolgendo amiche, figlia, amiche della figlia, amiche delle amiche, che si divertono come matte a devastare la cucina. Amadou non salta un invito, non dice mai di no ad alcuna delle proposte che gli facciamo: lo portiamo a sentire i cori in parrocchia, nonostante sia musulmano; andiamo al cinema a vedere i cartoni animati perché Beatrice, che ha 13 anni, decide per tutti; andiamo al circo; a trovare i miei genitori che abitano lontani; alle cene con gli scout… e allora, un po’ alla volta, capiamo che la sua è proprio “voglia di famiglia”.

Lo coinvolgiamo nelle attività del fine settimana, studiamo insieme, litighiamo quando capita e ci diciamo che ci vogliamo bene dopo che ci è passato il nervoso. Parliamo tanto, soprattutto la sera, quando la malinconia si fa sentire ed esce fuori la voglia di sputare quei rospi che, se rimangono dentro, sono veleno puro. Gli chiedo della sua mamma e guardiamo insieme i filmati che i suoi amici pubblicano su facebook. La domenica pomeriggio, quando il freddo è troppo pungente anche solo per pensare di uscire, stiamo sul divano a leggere: io gli propongo alcuni libri, lui sceglie e poi, fedeli a noi stessi, iniziamo un siparietto che sappiamo già come andrà a finire: “Amadou, ce lo leggiamo un libro?”. “Va bene, finiamo quello dell’altra volta?”. “Ok, ma leggi tu o leggo io?”. “Leggi tu, mamma, che io mi stanco subito”.

A distanza di un anno e poco più, Amadou è diventato una presenza costante in famiglia: il venerdì sera arriva con il suo zaino, si sistema in quella che è diventata la sua camera e, per due giorni alla settimana, resta con noi. Si occupa della spesa, cucina, discute con la sua sorella italiana sulla ricetta migliore per preparare i biscotti, litiga con la gatta vecchia e brontolona e ride, ride tantissimo di me, delle stupidaggini che riesco a dire, degli sbagli che faccio quando cerco di parlare in fula e di questa famiglia italiana che ha una “casa piccola, ma bellissima”.

Durante questi mesi ci siamo preparati per l’esame di licenza media litigando a più non posso (“Amadou! Porca miseria! Ripassa ‘ste tabelline o prendo il mestolo di legno!”), abbiamo affrontato insieme la commissione territoriale che ne avrebbe valutato lo status, abbiamo imparato a togliere il cappello nei luoghi chiusi e a fidarci un po’ di più delle persone. È stato un periodo intenso, impegnativo, ma anche molto divertente.

Spesso i suoi compagni del CAS vengono a trovarci e anche con loro si ride, si parla e si discute delle stranezze degli europei, delle differenze tra il nostro modo di vivere e quello degli africani, dei loro sogni e delle speranze…

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Tra qualche mese, grazie al nuovo decreto legge, il progetto di accoglienza terminerà per lui, come per molti altri ragazzi nella sua stessa condizione, e non potrà venire accolto in uno SPRAR, possedendo “solo” un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ne abbiamo discusso a lungo, con lui e con la Cooperativa che lo sta seguendo tutt’ora: Amadou ha chiesto di poter venire a stare da noi, almeno fino a quando non sarà riuscito a trovare un lavoro fisso e si sarà sistemato. A me, Mauro e Beatrice sembra ovvio sostenere questa sua richiesta… Ma tutti gli altri ragazzi costretti ad abbandonare un’abitazione, gli amici e le famiglie che li hanno supportati fin qui, che fine faranno?

Nota: Il CAS di Chivasso, gestito dalla Cooperativa Mary Poppins, ospita 12 richiedenti asilo provenienti da 6 diversi paesi dell’Africa sub-Sahariana: Senegal, Gambia, Mali, Costa d’Avorio, Ghana e Guinea. I 12 ragazzi hanno un’età compresa tra i 20 e i 35 anni.

 

Chivasso, 30 Dicembre 2018                                               Daniela Mussano


Questo pezzo ha atteso più del dovuto per uscire perché serviva trovare la migliore delle collocazioni possibili. Daniela segue il Collettivo Antigone da un po’ finché lo scorso novembre, mentre io continuavo a rimandare il messaggio da mandarle, mi ha scritto lei. Voleva dirmi che si rivedeva nelle nostre parole, che sua figlia Beatrice piange quando lei le fa leggere quello che scrivo e che a volte serve trovare un “luogo” anche virtuale dove riposarsi dalle asperità della vita quotidiana. Ci siamo sentite al telefono e le ho chiesto se le andasse di condividere qui la sua esperienza. Ed eccoci qui con Daniela, Beatrice, Mauro e soprattutto Amadou ad allargare la famiglia e costruire nuove stanze. Lo abbiamo sempre fatto, ma speriamo di farlo ancora di più in futuro: chiunque volesse raccontarci la propria esperienza nel mondo della migrazione, ci scriva, ci contatti. Siamo qui.

La casa capi sempre quantu voli a patruna (La capienza della casa la decide sempre la padrona)

MG