“Mamma, buon anno. Come stai?”.
Sto quasi per riattaccare, ma alla fine Michel mi risponde. Balbetto delle scuse per non essermi fatta sentire prima e andiamo dritti al sodo. “Dove sei in Olanda?, me lo dice. “Ah. Ci andavo spesso sai quando lavoravo in Germania”. Silenzio. “Ti trattano bene? Hai freddo? Hai fame?”. “No, sto bene”. C’è una vibrazione nella sua voce, quella sottile titubanza che una madre smaschera subito anche senza essere madre. “Non so se torno a Italia. Avvocato dice che non sa se Italia mi prende indietro. Sai, questa cosa del Dublin Treaty…”.
Michel era fra i più promettenti e volenterosi studenti e per mesi insieme a lui ho sperato che il tirocinio che stava facendo si trasformasse in un lavoro vero e proprio, ma la burocrazia si è messa nel mezzo. Affinché Michel avesse i documenti avrebbe dovuto presentare un contratto di lavoro che però il suo datore di lavoro non poteva fargli perché a Michel mancavano proprio quegli stessi documenti che dipendevano dal contratto. Geniale, no? A quel punto, ha capito che in Sicilia non c’era posto per lui e se n’è andato altrove. Ma anche in questo altrove la burocrazia si frappone fra i suoi desideri e il futuro. Se penso agli ultimi due mesi, Michel è scappato, Aliou ha avuto il diniego per richiesta di protezione umanitaria e Mamadou come regalo per il 18esimo compleanno ha avuto un trasferimento ad infinitum a Mineo da cui puoi uscire solo dalle 8 alle 20 salvo esplicita autorizzazione della prefettura che ci mette anche un mese per darla. Addio feste di Natale insieme.
Una vera pacchia, penso mentre guardo il vento che scuote gli alberi davanti casa. Il mare ulula con alte onde sulla riva poco lontana e penso alle 49 persone abbandonate in mare dal 22 dicembre per non rovinarci l’ipocrisia del Natale e di un nuovo anno che comincia sotto i peggiori auspici. Ho scartato regali, mangiato dolci e prelibatezze, mentre uomini, donne e bambini vomitavano l’anima in mare perché “i porti sono chiusi”. E nel frattempo ascoltavo il mondo intorno con un misto di terrore, repulsione e vergogna. Pochissimi condannano in maniera netta ed inequivocabile la tortura inflitta ai migranti e al personale di bordo che per un capriccio di un omuncolo circondato di vili servitori si può permettere di calpestare la dignità umana. Noi, i fortunati, qui a godere del Natale. Voi, poveracci e reietti, lì fra le onde gelide.
Se siamo al punto zero della conoscenza e affoghiamo in un oceano di bufale, deve esserci stato un errore nella comunicazione. Sicuramente il fenomeno migratorio è stato raccontato male, lacunosamente e in modo che non tutti riuscissero ad orientarsi e comprendere. Le statistiche, i dati, gli articoli per smentire le percezioni accumulate col telecomando in mano sul divano che valgono quanto una ricerca scientifica, i reporter sulle navi e a ogni frontiera che rischiano la vita per raccontare le storie di quelle persone contro cui sbraitiamo l’odio del nostro fallimento. Niente è servito. Bisogna ripartire da capo se nemmeno chi conosce noi di Antigone ha avuto l’accortezza di leggere ciò che scrivevamo per porsi quantomeno delle domande.
E io ci sto a rimettere tutto in discussione, a cercare ancora una volta un nuovo alfabeto per comporre le parole che ci aiuteranno a capire. Forse non sono bastate le storie dei ragazzi che raccontavano come loro venissero torturati con le famiglie appese al filo del telefono, mentre noi ci appassionavamo a inutili discussioni sulle quote europee pur di rimpallare ad altri il “problema”. Forse Aliou non ha spiegato bene il suo desiderio di morire mentre la sua dignità di essere umano veniva fatta a pezzi dalle torture. Magari le preghiere di un 16enne affinché dio lo facesse morire pur di non dover vivere ancora quell’orrore fatto di gente che “ci ammazzava ridendo perché tanto eravamo polli da scannare” non sono state in grado di descrivere l’orrore dei recuperi della fantomatica guardia costiera libica da noi foraggiata.
Tuttavia, oltre l’impegno a mettere tutto in discussione, mi rimane un dubbio. Quando tento la difficile strada del confronto, mi rimane il dubbio che non sia un problema di comunicazione a impedire la comprensione della migrazione forzata, ma una quantità di stronzaggine decisamente superiore al mio “buonismo”. La verità è che in quasi cinque anni di migrazione in ogni angolo della mia vita ho più domande che risposte, più interrogativi che certezze. Ma una cosa l’ho capita: ci sono cose che si capiscono solo col cuore. E con la pelle. Chi vuole capire capisce e chi vuol trovare scuse per difendere il proprio piccolo feudo continuerà a farlo a qualsiasi costo: negando dati, aggrappandosi a ipotetici leader del cambiamento dall’inequivocabile retrogusto fascista, ipotizzando le peggiori nefandezze pur di denigrare le ong impegnate a salvare vite umane la cui missione va ben oltre la pochezza di questa gente.
La verità è che c’è chi si sente cittadino del mondo, chi crede nell’assoluta necessità di porre rimedio agli ostacoli all’uguaglianza e chi se ne frega. C’è chi riconosce nell’altro se stesso e chi si arrende al qualunquismo del proprio tornaconto. C’è chi concepisce il mondo come un luogo senza confini, barriere e ostacoli all’inarrestabile viaggio dell’umanità in cammino e chi ha bisogno di muri, muretti, fili spinati per rimpicciolire il mondo alla dimensione del proprio cervello atrofizzato. Open space contro privé con champagne e marmaglia fuori. Ormai guardiamo il mondo così, con un antagonismo che ha dimenticato inevitabili responsabilità storiche nei confronti di chi oggi cerca un futuro di pace che gli è stato negato nel suo paese di origine verosimilmente devastato dalla nostra avidità. Siamo i privilegiati del mondo perennemente in bilico fra la salvezza e la condanna alla povertà che ci atterrisce perché negherebbe l’orgia consumistica a cui siamo abituati e siamo disposti a qualsiasi cosa pur di non assumerci responsabilità. C’è chi lo capisce e chi no. Stop.
Ed infine c’è il corpo. Il corpo segna la linea netta fra teoria e pratica, speculazione filosofica e oltraggio fisico. Toccare le cicatrici di chi ha la Libia tatuata addosso impedisce di continuare a tacere. Io non ho scuse e so che il silenzio è complicità, assenso, disponibilità ad assecondare la barbarie purché non tocchi noi in un ridicolo balletto per eludere ogni responsabilità. Ma questi ballerini sul palco dell’opportunismo sono gli sconfitti della Storia, sono i miserabili della Vita di cui nulla comprendono e, per questo motivo, nessun creonte sconfiggerà mai Antigone la cui disobbedienza è quanto mai necessaria.
di Maria Grazia Patania