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Il cinema, dice Godard, come tutte le arti, di fronte alla Shoah ha smarrito la propria missione: «la fiamma si è spenta definitivamente ad Auschwitz». Così come Charlie Chaplin che ne Il grande dittatore, film che sotto la maschera della parodia denuncia le barbarie nazi-fasciste, sembra dire “Cos’è rimasto dell’umanità? Esiste ancora dopo Auschwitz? Che fine abbiamo fatto? Forse, abbiamo perso tutti qualcosa, l’unica cosa davvero importante.

Il cinema ha riflettuto, con diverse pellicole, sull’orrore consumatosi dentro ai campi di sterminio portando sul grande schermo immagini intrise di dolore, di colpa, di strazio e di vergogna. Quella vergogna che rimane indelebile nella memoria come una ferita destinata a non rimarginarsi più. Immagini che non possono sicuramente replicare la realtà di quell’orrore ma che ci restituiscono il senso di ciò che non può essere dimenticato. Come violenti pugni allo stomaco ci percuotono mostrandoci la nostra stessa immagine, perché “tutti coloro che dimenticano il proprio passato sono condannati a riviverlo” (Primo Levi).

Così fa il film Il figlio di Saul, pellicola del 2015 del regista ungherese László Nemes, ci percuote con una durezza a volte insostenibile, portando sulla schermo una cruda battaglia emotiva attraverso la quale, dietro la morte, si sviluppa una storia di vita e di speranza. Il film si apre con un lungo piano sequenza sul volto del protagonista, Saul Auslander, indugiando sulla sua espressione che non lascia spazio ad alcuna parola. Lunghi istanti muti ma non sordi di quello strazio che permea ogni singola immagine. La parola è morta sembra dirci il film nei suoi primi minuti, perché forse niente potrà mai spiegare cosa abbiano davvero visto gli occhi di Auschwitz e di chi da lì non è più tornato. Così, l’angoscia che caratterizza la fruizione è la stessa generatrice di rabbia e dolore che si prova ascoltando i racconti dei sopravvissuti, leggendo le poesie e i libri di chi ha perso la vita, l’orrore dei documentari che mostrano un inferno che è passato da massacro a genocidio ad olocausto a Shoah… in ogni caso colpevole morte dell’umanità . Saul, il cui nome rimanda da un lato al personaggio biblico e dall’altro alla parola inglese soul, anima, è un uomo che all’interno di quell’oblio di umanità rivendica, con forza, il senso della parola salvezza. L’unica vera via per la liberazione dall’assuefazione all’orrore è poter combattere, anche da solo all’interno del proprio piccolo mondo, per la salvezza di un’anima, come se questo gesto potesse, anche solo simbolicamente, rappresentare il riscatto di tutte le altre. “Chiunque salva un vita, salva il mondo intero” (Talmud).

saul1Scena tratta dal film Il figlio di Saul

Il film, ambientato ad Auschwitz sul finire del 1944, racconta la storia di Saul Auslander, un ebreo ungherese membro di uno dei sonderkommando, gruppo di deportati che in cambio di condizioni di vita migliori si occupano della pulizia delle camere a gas e dei forni crematori. Quando si chiudono le porte di queste stanze della morte, le urla disperate delle vittime diventano protagoniste assolute dell’inquadratura con uno slittamento dal piano dell’immagine a quello puramente sonoro. Tornato l’ancora più assordante silenzio, non resta che pulire da quei poveri corpi nudi e lasciare tutto pronto per una nuova operazione, privando le nuove vittime degli abiti e dei pochi oggetti di valore che posseggono. Ma un giorno, quando Saul vede uccidere un ragazzo sopravvissuto alla camera a gas crede che possa essere suo figlio e da quel momento cerca in ogni modo di strappare il cadavere alla cremazione. A rischio della sua vita va alla ricerca di un rabbino in modo da garantirgli una degna sepoltura come se questo rappresentasse per se stesso, per quel ragazzo ma anche per tutte le vittime di Auschwitz un pezzo di umanità in mezzo ad un arido deserto.  Per tutto il film, il regista mostra con una crudezza forse mai vista prima, i corpi delle vittime all’interno dei campi di concentramento trattati come oggetti da assemblaggio, come parti di un terrificante ciclo produttivo. Tanto che i tedeschi si riferiscono ai cadaveri chiamandoli “stück”, ovvero “pezzi”, privandoli così di ogni forma di dignità umana e relegandoli a mera “merce” di un campo organizzato con la precisione e il rigore di una fabbrica.

László Nemes tratta, tra l’altro, l’interno di Auschwitz nell’unico modo possibile, quello del “non detto”. Lascia, infatti, lo sfondo sempre sfocato, confuso, a differenza del protagonista che è sempre nitido e chiaro. Lo spettatore riesce a leggere, infatti, durante tutto il corso del film, il dolore del protagonista, il suo dramma, così come restano a fuoco le persone che interagiscono con lui. Tutto quello che sta dietro, invece, sembra rimanere intrappolato in una impalpabile nebulosa. L’annullamento della profondità di campo rende perfettamente un concetto chiave: Auschwitz non può essere descritto. Nessuna immagine può replicare quell’orrore, nessun fotogramma può travestirsi dell’orrore di quel campo di sterminio. È qualcosa che non può essere ne’ mostrato ne’ compreso nel profondo. Il film usa, quindi, lo sguardo smarrito privo perfino di lacrime, del protagonista per concentrarsi su un punto che appare quanto mai essenziale: il processo di disumanizzazione che ha caratterizzato l’intero Olocausto, lasciando, in ultima analisi, allo spettatore il duro compito di immedesimarsi con quello sguardo e fare i conti con il suo stesso dolore.

Saul 3.pngScena tratta dal film Il figlio di Saul

Il figlio di Saul, film rivelazione a Cannes dove si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria, vincitore del Golden Globe come miglior film straniero e vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, parte dalla storia della famiglia del regista László Nemes sterminata ad Auschwitz nei campi di concentramento. Mentre stava girando in Corsica come assistente alla regia, durante una settimana libera, trovò in una libreria Des voix sous la cendre (La voce dei sommersi), che raccoglie gli scritti di alcuni membri dei Sonderkommando di Auschwitz. Prima della loro rivolta del 1944, nascosero queste pagine clandestine sotto terra; furono ritrovate solo molti anni dopo la fine della guerra. Si tratta di una testimonianza straordinaria – dice Nemes – descrive i compiti quotidiani dei Sonderkommando, l’organizzazione del loro lavoro, le regole con cui veniva gestito il campo e lo sterminio degli ebrei, ma anche come questi uomini riuscirono a creare una certa forma di resistenza. È così che è nata l’idea de Il figlio di Saul.

I membri Sonderkommando erano scelti dalle SS, accompagnavano gli ignari prigionieri alle camere a gas, dopo averli rassicurati e fatti spogliare: “Dopo la doccia avrete il tè”. Assistono da indiretti spettatori alla loro morte attraverso il suono straziante delle loro urla e infine puliscono il pavimento dai loro corpi e si liberano delle loro ceneri con l’intento di cancellarli dalla storia. Tutto ciò era eseguito a gran velocità, in quanto Auschwitz-Birkenau funzionava come una vera e propria fabbrica di morte a ritmi industriali – racconta ancora Nemes – gli storici stimano che nell’estate del 1944 migliaia di ebrei fossero sterminate ogni giorno. Gli Sonderkommando avevano qualche privilegio per il loro lavoro: potevano tenere il cibo trovato nei treni e avevano una minima libertà di movimento ma ogni tre-quattro mesi venivano uccisi per evitare che vi fossero testimoni. Il figlio di Saul ricostruisce anche un tentativo di rivolta dei prigionieri attuato nel 1944, l’unica rivolta armata della storia del campo, dove alcuni membri dei Sonderkommando scattarono delle foto a testimonianza dell’orrore che si stava consumando. Dice ancora Nemes: Anche il tentativo di scattare delle foto è realmente accaduto. Grazie a una macchina fotografica fatta arrivare ai Sonderkommando di Birkenau dalla resistenza polacca, quattro foto furono realizzate per testimoniare al mondo esterno quello che succedeva nei campi. Ho potuto vederle alla mostra del 2001 Mémoire des camps e mi hanno colpito profondamente.

Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. (Primo Levi).

Di Claudia La Ferla

Foto prese dal web