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Mercoledì 15 marzo, si è tenuta a Roma l’anteprima nazionale del film realizzato dalla regista palestinese Mai Masri, 3000 Notti, suscitando un piccolo caso a causa della cancellazione dell’evento che si sarebbe dovuto tenere al Teatro Palladium nell’ambito delle Giornate della cultura palestinese. Tra lo sconcerto dei più è la stessa Masri a dire: «Sono arrivata a Roma lunedì, molto emozionata per il fatto che il mio film sarebbe stato proiettato in uno dei teatri più grandi della città, il Palladium, in collaborazione con l’Università di Roma Tre, sponsorizzato dall’Archivio del movimento operaio e dall’Ambasciata palestinese». Alla fine, dando un forte segnale di “resistenza culturale”, come sottolineato anche nel corso del dibattito che ha seguito la visione del film, 3000 Notti è stato presentato nella sala Zavattini dell’Archivio del Movimento Operaio in tre proiezioni successive: alle 16, 18 e 21 e alle 20 la regista ha potuto incontrare il pubblico . L’Aamod ha accolto, infatti, con sorpresa la notizia della cancellazione dell’evento ed ha offerto la sua sala cinematografica. Spiega la regista palestinese: «Al mio arrivo ho scoperto che il mio film era stato tolto dal programma, per non dire cancellato». Di lì a breve un comunicato stampa della Fondazione Palladium Roma Tre e uno dell’Ambasciata di Palestina in Italia hanno annunciato, però, che la proiezione sarebbe stata semplicemente rimandata al 6 aprile, occasione in cui si terrà anche una tavola rotonda sul cinema palestinese con la regista, dei critici cinematografici e – conferma l’ufficio stampa dell’ambasciata palestinese a Roma – la stessa ambasciatrice Mai Alkaila. Di certo questo susseguirsi di incomprensioni ha generato molti dubbi lasciando trapelare ovvie problematiche politiche che, come spesso accade, finiscono per colpire l’arte come mera vittima sacrificale. Si diceva, però, che l’evento si è tenuto ugualmente e la risposta del pubblico è stata massiccia: questa è la più forte e importante risposta. Quello che è accaduto a Roma lo scorso 15 marzo è la dimostrazione evidente della resistenza di una corposa parte di società che non è disposta a sacrificare la cultura e l’arte soprattutto quando questa si fa portavoce di messaggi importanti, chiari e urgenti.

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Incontro con Mai Masri. Sala Zavattini, Roma (Mai Masri, Leonardo De Franceschi, Monica Maurer dell’Aamod)

3000 Notti racconta la storia di una insegnante palestinese, appena sposata, che viene ingiustamente arrestata e rinchiusa in una prigione israeliana dove darà alla luce un figlio e lotterà per crescerlo dietro le sbarre. Ispirato a una storia vera e girato proprio dentro un carcere, il film ripercorre il viaggio di speranza di una giovane madre in cui resilienza e volontà di sopravvivenza lottano contro ogni probabilità. Afferma la stessa Mai Masri: «per me il carcere rappresenta occupazione: quasi ogni singolo palestinese è stato in prigione o ha un parente stretto che vi è stato, quindi penso che a suo modo sia una tipica storia palestinese, ma allo stesso tempo ritengo che sia una storia universale perché è una esperienza che tante persone hanno attraversato e colpisce, quindi, corde profonde». La pellicola è stata selezionata a rappresentare la Palestina ai Golden Globes e la Giordania agli Oscar. Mai Masri è una acclamata documentarista. I suoi film hanno ricevuto oltre 60 premi internazionali ed è considerata una pioniera nel panorama cinematografico Medio Orientale. Da più di trent’anni è attiva con la realizzazione in primo luogo di documentari che si concentrano su donne e bambini in Libano e nei territori palestinesi occupati. La sua più nota trilogia, I bambini di fuoco, I bambini di Shatila e Frontiere dei sogni e delle paure, ha posto ulteriore attenzione sulla vita dei bambini palestinesi nei campi profughi negli anni ’80 e ’90. Mai Masri ha iniziato la sua carriera quando quasi nessuna donna palestinese lavorava nel cinema, spronando il coinvolgimento femminile in questo settore a tal punto che oggi il 50% dei film girati in Palestina sono stati realizzati da donne, contro il 5% dell’industria hollywoodiana.

Subito dopo la proiezione del film 3000 Notti all’interno della sala Zavattini, è stato Leonardo De Franceschi, docente di cinema all’Università di Roma Tre ad aprire il dibattito con la presenza di Mai Masri ponendo l’accento sul fatto che la regista appartiene a una piccola grande tradizione che è quella del cinema palestinese al femminile. Negli anni recenti, continua ancora De Franceschi, abbiamo assistito a una vera e propria esplosione del cinema palestinese al femminile grazie all’avvento di una nuova generazione di filmmaker nata negli anni ‘70 con numerose cineaste che hanno continuato a lavorare esclusivamente sul documentario con tutte le difficoltà immaginabili nel passaggio alla finzione. Masri appartiene a questa tradizione, ha studiato cinema negli Stati Uniti, patria della madre, si è laureata a San Francisco nell’ 81, poi, rientrata a Beirut, inizia a dirigere e produrre un gran numero di documentari trasmessi in tutto il mondo. In collaborazione con il marito Jean Chamoun, ha realizzato Suspended Dreams (1992) e War Generation-Beirut (1989), nonché fondato la Nour Productions. La sua ultima opera 3000 Notti è stata presentata in anteprima mondiale al Festival di Toronto, reduce da un tour di grandissimo successo nei festival, ha vinto oltre 23 premi tra cui il premio della giuria giovani al Taormina Film Festival e il premio alla sceneggiatura a Cartagine. C’è anche un pezzo di Italia perché il film ha beneficiato di un fondo del Torino film lab. Siamo qui a maggior ragione per far si che il film trovi una vera e propria distribuzione e si possa vedere nelle sale, specifica con fermezza De Franceschi. Sottolinea, inoltre, come all’interno della pellicola 3000 Notti ci siano delle scelte molto forti, alcune vanno proprio nella direzione del documentario (per esempio la scelta di girare in una vera prigione) e altre che vanno nella direzione quasi della teatralità. Proprio il fatto di girare in un luogo chiuso con delle attrici dà, infatti, al film una dimensione di drammaturgia estremamente costruita e studiata. Un aspetto che colpisce, prosegue ancora De Franceschi, riguarda la gestione del tempo narrativo perché è vero che lo spettatore all’inizio del film vede il cartello che colloca la storia nel 1980 a Nablus però immediatamente, nell’arco di pochissimi minuti, gli spettatori entrano nell’universo del film e si dimenticano del tutto che quella sia una storia ambientata nel passato: si entra in una sorta di eterno presente in cui si rimane tagliati fuori dal tempo. La storia ritorna, però, in modo violento e brutale con la guerra e con le notizie che vengono date dai media, quindi con lo scoppio della guerra in Libano e con la strage di Sabra e Shatila. E’ forte la scelta di ambientare il film in quel periodo perché è un periodo traumatico che l’ha toccata anche personalmente in quanto lei viveva li vicino. Chiarisce a tal proposito Mai Masri che la scelta di questo periodo è dovuta al fatto che a seguito degli anni ‘70, un forte movimento rivoluzionario con una forte partecipazione del popolo palestinese ha lasciato la sua impronta anche sugli anni ‘80 pieni di avvenimenti capaci di lasciare un segno indelebile nella storia palestinese: la guerra in Libano o la strage di Sabra e Shatila a seguito. Negli anni ‘80 prende piede anche un forte movimento dei prigionieri: iniziano a portare avanti scioperi della fame e rivendicare i propri diritti. Tutto questo è messo in scena nel film, il quale diventa in tal senso, un modo per Mai Masri di dare voce al suo popolo. 

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Masri viene da un lavoro importante nel campo della non fiction e del cinema del reale ma proprio per 3000 Notti ha scelto di realizzare un film di finzione portando sullo schermo una storia vera di una donna che Masri ha conosciuto a Nablus durante la prima intifada e che ha vissuto questa esperienza. Non è, però, un singolo caso: ci sono tanti bambini che nascono in prigione e tante donne che vengono imprigionate secondo quella che potremmo chiamare “detenzione amministrativa”, il che vuol dire che non si ha diritto a un avvocato, non si ha diritto a un processo e non si sa quando si potrà uscire. Questo è quello che è successo alla donna con la quale Masri è ormai in contatto da anni. Il film mette insieme, in realtà, diverse storie, diversi destini di donne specchio della situazione palestinese: la prigione diventa, in tal senso anche una metafora che la regista ha assolutamente avuto l’esigenza di raccontare. Così, Mai Mari si è convinta ad andare oltre il documentario stesso per realizzare il suo primo lungometraggio. La scelta di girare il film in una prigione vera, dice Mai Masri, ha condizionato in modo creativo le riprese del film perché la prigione è una metafora della condizione palestinese proprio perché isola e priva della libertà di movimento. Si sofferma poi anche sull’estetica del film specificando che è stato girato in una prigione del deserto della Giordania e raccontando la sua precisa volontà di tradurre le immagini in colori e luci perché i colori sono proibiti in prigione in quanto colore vuol dire vita, vuol dire possedere finestre verso la libertà, attivare l’immaginazione e immaginarsi fuori, liberi. Questa restrizione con l’imposizione del grigio e di una ambientazione cupa è resa, quindi, da Mai Masri attraverso una ricerca di equilibrio dei colori e della luce che diventa quasi un bianco e nero. Tutto ciò suscita a maggior ragione nella madre l’esigenza di creare un mondo per il bambino e lo fa attraverso i disegni. In tal senso risulta significativa l’immagine dell’uccellino perché ancora una volta pone l’accento sul concetto di libertà, di felicità, di natura, spazi aperti per far sì che un bambino che non ha mai visto il mondo esterno possa quanto meno immaginarlo. La madre vuole cercare di dare un’immagine del mondo al proprio bambino ispirando la sua fantasia.

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Scena tratta dal film 3000 Notti di Mai Masri.

Mai Masri per poter realizzare il film ha fatto lunghi anni di ricerca: è stato un cammino molto difficile fatto di incontri con chi ha vissuto questa dura esperienza. La prigione è uno degli elementi caratterizzanti della società palestinese perché dal ‘48 a oggi sono più di un milione i palestinesi che si sono trovati in carcere. Non c’è quasi famiglia che non ha qualche membro che abbia vissuto questa esperienza. La sua sfida più preziosa, racconta Mai Masri, è stata che il film piacesse ai palestinesi, popolo molto diretto e schietto, pertanto sperava di poter davvero essere portatrice di un punto di vista e di una condizione che fosse quella vera e reale del suo popolo. Masri sperava di colpire al cuore e ci è riuscita.

Di Claudia La Ferla