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Collettivo Antigone

~ Proteggere e custodire le leggi naturali di ogni essere vivente

Collettivo Antigone

Archivi tag: MariaGrazia Patania

La naissance du Collectif Antigone

02 mercoledì Nov 2016

Posted by francescacola in 2016, Africa, Babel, Children of Fortune, Collettivo Antigone, Français, French, Giornata Internazionale del Rifugiato, I figli della fortuna, Les enfants de la Fortune, Luana Bruno, MariaGrazia Patania, Massimo Micheli, Michelangelo Mignosa, Olocausto del Mare, Parole del Collettivo, Photography, Progetti, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Sylvie Pavoni, Testimonianze, Traduzioni, Uomo Vs Soldato, Valentina Rossi

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Antigone, Babel, Collettivo Antigone, Francesca Colantuoni, Integration, MariaGrazia Patania, Olocausto del Mare, Refugees Welcome, Restiamo umani, Testimonianze, Traduzioni

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Je suis née dans un monde harmonieux et sûr. C’était au moins ce que je percevais. Un monde cohérent gouverné par une logique pas toujours juste ou équitable, mais malgré tout apparemment sensée.

La guerre comme une ombre noire qui ensanglantait des terres plus ou moins lointaines, qu’on regarde avec révérence et  compassion inconnue.

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Ungheria, 2 Ottobre 2016

02 domenica Ott 2016

Posted by orukov in Balkan Route, Collettivo Antigone, MariaGrazia Patania, Parole del Collettivo, R-esistenza, Refugees Welcome, Restiamo umani

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MariaGrazia Patania, Refugees Welcome, Restiamo umani, Stay Human

Oggi, 2 Ottobre 2016, in Ungheria si vota un referendum con cui ci si deve esprimere sulla “questione profughi” e l’accettazione di eventuali quote impartite dall’UE. Le denunce da parte dell’opposizione democratica sono state frequenti e riguardano soprattutto il clima viziato entro cui è stato pubblicizzato il referendum. Orban non ha infatti esitato a sollecitare gli ungheresi al voto secondo le disposizioni del partito, compiendo così un atto patriottico. Orban è stato il primo a costruire un muro anti-migranti che, un anno fa, ancora riusciva a destare sdegno, ma oggi è diventato un modello da seguire. Membro di quell’Europa che ha dimenticato di essere nata per garantire pace e diritti, l’Ungheria col suo leader Orban rivive il peggio della storia del 900: la creazione di formazioni paramilitari per dare la caccia ai migranti (ve le ricordate le S.A?), la propaganda che definisce i profughi “un veleno”, l’attivazione di difficilissimi meccanismi burocratici che scoraggino chiunque voglia fare richiesta di asilo nel paese e i muri che sembrano non essere mai abbastanza. Nils Muiznieks, commissario per i diritti umani al Consiglio Europeo, in una intervista recente al NY Times ha parlato chiaramente di “xenofobia istituzionalizzata” e questo nonostante l’afflusso di migranti in Ungheria sia così basso che sarebbe più facile vedere un UFO che un rifugiato nel paese.

Fra le tante cose che si potrebbero dire, una mi preme sottolinearla. La protezione internazionale, il diritto all’asilo e, ancor prima, il diritto alla vita sono sanciti dal diritto internazionale che non è opinabile in base all’umore del momento e alla propaganda di turno. Accogliere chi scappa dalle guerre non è un atto di carità, quanto piuttosto un dovere. Non siamo buoni quando concediamo a qualcuno asilo politico. Stiamo solo osservando il diritto internazionale cui, come comunità internazionale, siamo vincolati. Sottrarci agli obblighi internazionali ci porta in una dimensione nuova e allo stesso tempo storicamente conosciuta di abusi e violazioni il cui perimetro si fa fatica a prevedere.

Oggi li togliamo ai migranti quei diritti. Ma domani toccherà a noi e verosimilmente non avremo nessuno a difenderci. Comincia sempre così il buio: col tramonto dei diritti. Un tramonto che per molti non fa nemmeno rumore, ma che può averne migliaia di rumori: le urla dei pescherecci che colano a picco, il pianto di un bambino a Idomeni, la pancia che brontola per la fame di una donna a Calais, la polizia che sgombera il Baobab a Roma. O quello di una matita che traccia una croce per esprimere un voto assurdo mentre intorno c’è il silenzio.

Kalternbrunner gli disse : “Perché non entri nelle SS ?”,  e Eichmann rispose : “Già, perché no?”.  Andò così.

(La banalità del male, Hannah Arendt)

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*Photo Copyright: Francesco Malavolta

di Maria Grazia Patania

Vivere come un giglio del campo

30 venerdì Set 2016

Posted by orukov in 2016, Balkan Route, Collettivo Antigone, Francesco Malavolta, La memoria del futuro, MariaGrazia Patania, Olocausto del Mare, Photography, Progetti, R-esistenza, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Testimonianze

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Antigone, bellezza, Collettivo Antigone, Francesco Malavolta, La memoria del futuro, MariaGrazia Patania, Olocausto del Mare, Parole, Refugees Welcome, Testimonianze

Ho conosciuto recentemente questa scrittrice. Quasi casualmente mi sono trovata con un suo libro fra le mani e mi sono chiesta come poter parlare di questa donna, una scrittice fondamentale per il messaggio che ci lascia: un messaggio di umanità che oltrepassa ogni barbarie e che trionfa fra il fango e l’ingiustizia. Non svelo subito la sua identità e vi chiedo di accettare la sfida alla cieca per non venir meno all’intento che sta dietro questo articolo. L’idea è di abbandonarci alla lettura di alcuni estratti di suoi scritti che abbineremo a scatti del fotoreporter Francesco Malavolta il quale ci aiuterà a concretizzare le parole di questa donna con foto per lo più inedite. Solo fra qualche articolo, sveleremo di chi si tratti. Per ora sappiate che è stata una indesiderata, una clandestina, una immigrata illegale, una che non meritava la vita che in effetti poi le è stata strappata. Potrebbe essere palestinese o siriana, somala o eritrea. Tuttavia, anche se non conosciamo da dove viene, conosciamo bene la realtà che descrive. Mi piacerebbe che chiunque leggesse, pensasse a che enorme ed incolmabile perdita avremmo avuto se non si fossero salvate nemmeno le sue parole. Ogni volta che ascoltiamo la notizia di un naufragio, di qualcuno che perde la vita perché vittima della nostra incuria, immaginate il genio e il talento che stiamo sprecando. Fra le onde di un mare che salva o condanna si smarriscono anche il Rinascimento, il Romanticismo, l’Illuminismo che non conosceremo mai.

E’ contro quelle come lei, ad esempio, che si voterà domenica in Ungheria pertanto mi è sembrato giusto far sentire la sua voce e far capire ancora una volta di cosa parliamo quando discutiamo di “profughi, migranti e clandestini”.

Qui trovate il secondo post per scoprire di chi si tratta

*Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani, ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso prometterti nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzetto di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi*

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*Una volta ho scritto in uno dei miei diari: Vorrei proprio tastare i contorni di questo tempo con la punta delle dita. Ero seduta alla mia scrivania allora e non sapevo bene come accostarmi alla vita perché non l’avevo ancora toccata dentro di me. Ho imparato a farlo mentre ero seduta qui. Poi, d’un tratto, sono stata scaraventata in un centro del dolore umano… e là ho improvvisamente cominciato a leggere questo tempo come un insieme compiuto, e non solo questo tempo. Avevo imparato a leggere in me stessa, così ero in grado di leggere anche negli altri. Ho amato tanto la vita quand’ero seduta a questa scrivania ed ero circondata dai miei scrittori, dai miei poeti e dai miei fiori. E là, tra le tende popolate da uomini schiacciati e perseguitati, ho trovato conferma di questo amore*

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*Sento allora di essere un tutt’uno con la vita. Inoltre: non sono io individualmente a volere o a dovere fare questo o quello, ma che la vita è grande e buona e attraente ed eterna, e se tu dai tanta importanza a te stessa, ti agiti e fai chiasso, allora ti sfugge quella grande, potente ed eterna che è appunto la vita. E’ proprio in questi momenti che… un piccolo pezzo di eternità scende su di me con un largo colpo d’ala*

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*Ci vorrebbe un grande poeta, le cronachine giornalistiche non bastano più. Tutta l’Europa sta diventando pian piano un unico, grande campo di prigionia. Tutta l’Europa finirà per disporre di simili, amare esperienze. Sarà monotono se noi ci riferiremo scambievolmente i fatti nudi e crudi – le famiglie lacerate, le proprietà sottratte, le libertà perdute. E anche a proposito di filo spinato e di pasticcio di patate non si possono fare dei resoconti molto pittoreschi a chi è rimasto fuori: mi domando del resto se ne rimarranno fuori, posto che la storia insista ancora a lungo a percorrere i sentieri intrapresi*

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*Quando dal mondo saranno spariti i fili spinati verrai a vedere la mia camera, è così bella e tranquilla. Io trascorro delle mezze nottate alla scrivania, a leggere e a scrivere vicino alla piccola lampada. Ho qui circa 1500 pagine di diario dell’anno scorso e ora me le rileggo. Che ricca vita mi viene incontro da ogni pagina*

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Selezione foto e testi di Maria Grazia Patania

Photo Copyright: Francesco Malavolta

Uomini che bramano le donne

14 mercoledì Set 2016

Posted by orukov in 2016, Alessandra Lucca, Collettivo Antigone, Francesco Faraci, Il Corpo delle Donne, MariaGrazia Patania, R-esistenza, Restiamo umani

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Alessandra Lucca, Antigone, Collettivo Antigone, Francesco Faraci, MariaGrazia Patania, Parole, Simona D Alessi, Testimonianze

Di maschi, ne ho conosciuti tanti. In silenzio li ho osservati, ascoltati mentre col sangue agli occhi vantavano avventure sessuali che solo loro al mondo. A sentirli parlare, un attore dedito al porno è un novellino.

Li ho ascoltati mentre litigavano al telefono con le compagne, con le mogli. Le loro parole al veleno con un occhio agli amici, in cerca di approvazione che ascoltano estasiati e lo incitano ad andare avanti, a sputarlo ancora quel veleno. Per non dire di quando, una volta chiuso il telefono, il marito o il compagno della lei inconsapevole si lanciava in parabole picaresche di avventure al di fuori del letto coniugale e del fatto che, se avesse avuto quel po’ di coraggio in più, l’avrebbe fatta fuori e sotterrata a sei metri da terra. Ovviamente sotto, terra.

Nessuno è santo, certo.

Nessuno, uomo o donna che sia, può essere certo di non commettere mai un errore.

Nessuno.

L’uomo è una brutta bestia specialmente se si unisce al branco. A quel punto tutto può succedere.

Succede che in gruppo si violenta una ragazza a ripetizione per tre, schifosissimi, anni.

Succede che una ragazza di trentuno anni, che si stava sforzando di riprendere in mano la sua vita, non regge il peso di una pratica che offende non solo la donna ma l’essere umano nella sua totalità. Essere cioè svilita, ricattata, privata della sua morale, della sua essenza. E per cosa?

Per aver creduto, anche solo per un attimo, che quell’uomo col quale stava consumando una più che legittima serata in cui per una volta si da fuoco all’istinto, fosse buono.

Ma gli uomini bramano le donne come oggetti, come animali. Dici “Donna” e subito ti ritrovi con un insistente prurito fra le gambe.

Pezzi di carne, le donne.

La femmina.

Qualche volta mi vergogno.

di Francesco Faraci


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*Photo Copyright: Alessandra Lucca

“E’ una ragazza movimentata, se l’è andata a cercare”.

Bambina di tredici anni, stuprata, violentata, vessata per ben tre anni da nove persone.

“Ti è piaciuto zoccoliare e farti guardare? Adesso non ti resta che un foulard da cui penzolare”.

Tiziana, 31 anni, derisa, insultata, oltraggiata per un video privato divenuto virale. Si è suicidata.

“Un po’ di tempo fa ci eravamo lasciati, ma io non sopportavo che fosse finita. Lei stava già con un altro”.

Sara, 22 anni, strangolata e bruciata viva dall’ex fidanzato.

Vittime di una società maschilista e arcaica, violenta e ostile, disumana e irrispettosa.

Ed è tremendo constatare la totale assenza di sensibilità, cultura e intelligenza; è terribile vivere in una società in cui gli uomini non riescono a riconoscere le differenze fra i due sessi senza sentirsi superiori e/o intimoriti dal confronto col genere femminile.

La donna deve stare al suo posto, d’altronde un antico saggio recita: ”Quando torni a casa la sera picchia tua moglie; tu non sai perché, ma le sì”.

Signora Simona

(Perché dopo anni di studio, il conseguimento di laurea specialistica, di abilitazione all’esercizio della professione medica, di specializzazione chirurgica in Otorinolaringoiatria, è utopico pretendere che un paziente mi si rivolga dandomi del lei e chiamandomi “Dottoressa”. Sono una donna ed ho solo 30 anni).

di Simona D’Alessi


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*Photo Copyright: Alessandra Lucca

“Sei solo una troia”.

Quante di noi se lo sono sentito dire. Quante di noi hanno ingoiato quelle 5 lettere: la erre che graffia la gola, la i che proprio ti ci rimane incastrata.

Quante di noi hanno subito violenze non necessariamente fisiche, ma sicuramente psicologiche e si sono rifugiate nel silenzio. Perché chiunque ti scoraggia dal denunciare in quanto non sappiamo mai cosa potrebbe venir fuori da un maschio alfa con l’orgoglio stropicciato.

Tuttavia, dietro la selva oscura di un branco di uomini affamati, ci siamo noi: le femmine. Quelle che additano malignamente le altre femmine se ci sembrano troppo libere e quelle che crescono gli stessi figli che poi ci ammazzano come cagne fra cori da stadio. Sì, proprio noi femmine li partoriamo quei maschi, li alleviamo e li educhiamo.

Ma educhiamo anche le nostre figlie. E facendolo sarebbe ora di smettere di reiterare vecchi modelli che non servono a nessuno in cui si continua a distinguere fra “cose da maschi e cose da femmine”, “lacrime da femminuccia” e “uomini che non piangono mai”.

Credo sia arrivato il momento dell’autocritica. Il momento di smettere di propinare alle nostre figlie l’obbedienza e la verginità come valori da offrire al maschio protettore. Cresceteci libere e senza paura, colte ed indipendenti.

Insegnateci a fregarcene della reputazione che è solo lo stagno in cui galleggiano pezzi di opinioni altrui e a lottare per la nostra dignità. Dateci un metro di misura per le nostre azioni: la nostra coscienza.

“Nessun dio, nessun marito, nessun padrone”

di Maria Grazia Patania

Non solo petrolio, la Basilicata è integrazione.

14 mercoledì Set 2016

Posted by francescacola in 2016, antisemifobia, Baobab Camp, Baobab Experience, Collaborazioni, Francesca Colantuoni, I figli della fortuna, Mali, MariaGrazia Patania, Olocausto, Olocausto del Mare, Parole del Collettivo, Progetti, Refugees Welcome, Restiamo umani, Senza categoria, Testimonianze

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Baobab Experience, Basilicata, Claudio Borneo, Collettivo Antigone, Cooperativa Sicomoro, Figc, Francesca Colantuoni, Integrazione, L'isola che non c'è, MariaGrazia Patania, Matera, Olocausto, Olocausto del Mare, Parole, Refugees Welcome, Rosanna Sassano, San Cririco Raparo, SPRAR, Testimonianze

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Sono in vacanza in un piccolo paesino della provincia di Potenza, San Chirico Raparo, e questa è stata l’occasione per conoscere una delle realtà relative all’integrazione di giovani rifugiati assegnati alla comunità locale in questi ultimi anni. Incontro il Sindaco, il Dott. Claudio Borneo e mi colpiscono le sue parole umane e inconsuete per altre realtà: “Questi ragazzi sono una risorsa per tutti noi, non abbiamo avuto problemi di alcun genere con loro perché la nostra comunità ha creato le condizioni favorevoli ad una naturale integrazione. Essi, infatti, hanno potuto imparare un mestiere, chi il cuoco, chi il muratore….In questo momento, nel nostro centro di accoglienza per minori “L’isola che non c’è” ci sono 12 giovani” prosegue il Sindaco invitandomi ad andare a conoscerli. Sorride e mi accenna, come un vulcano in eruzione, i suoi progetti futuri tutti miranti a consolidare i rapporti esistenti. Quello che mi colpisce di più riguarda la creazione di una scuola dove saranno proprio i 12 ragazzi ad insegnare alla gente del posto la loro cultura. “E’ giusto che apprendano a vivere come noi ma è anche necessario che noi capiamo da dove vengono loro” conclude il Sindaco.

Con il Consigliere Comunale la Dott.ssa. Rosanna Sassano, poi, mi sono recata presso la struttura di accoglienza situata nel centro storico del paesino. La porta spalancata ci mette di fronte ad un cartellone bianco realizzato dai ragazzi, che riporta in rosso e verde la poesia di Léopold Sédar Senghor “Per il mio fratello bianco”.

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Saliamo al primo piano ed entriamo in una grande stanza dove incontriamo i ragazzi che sono seduti intorno ad un lungo tavolo di legno. Con loro vi sono la coordinatrice del centro, Dott.ssa Paoala Maffei e l’interprete ed insegnante di italiano, Dott.ssa Giulia Iacovino entrambe della Cooperativa Sicomoro di Matera dedita all’assistenza agli anziani ed ai rifugiati. E’ presente anche il Dott. Luca Iacovone, del Consorzio Mestieri, che si occupa di orientamento al lavoro. Sul tavolo un computer. Luca è lì per aiutarli a preparare il CV europeo come richiesto alla direttiva UE sulla certificazione delle competenze.
Al nostro arrivo si fa silenzio nella stanza. Sorrido cercando di penetrare la loro diffidenza, ma abbassano gli occhi aspettando di capire il motivo della nostra visita.
Il neoeletto Consigliere Dott.ssa Sassano, donna di grandissima umanità, stringe la mano ad ognuno di loro, poi si siede e spiega di essere lì per capire le loro necessità ed esigenze, ma soprattutto per costruire un rapporto umano: “E’ necessario, oltre che doveroso, pensare in primo luogo a quali sono le azioni da intraprendere per garantire a tutti, nessuno escluso, la dignità, che è diritto naturale di ogni essere umano, un’esistenza che non diventi, come purtroppo oggi spesso accade, lotta per la sopravvivenza”.
Io mi presento spiegando che il Collettivo è interessato a raccontare le loro storie, non necessariamente passate, nonché i sogni per il futuro.
Giulia traduce ed io osservo la loro reazione; sono diffidenti ma ascoltano con il corpo girato, i volti coperti dalle mani, la testa e gli occhi chinati in basso. Non potrò mai davvero capire la paura ed il dolore causati dalla lontananza forzata dalla propria famiglia, dalla propria terra e dall’incertezza del domani; rivedranno la loro mamma? La sfiducia, però, la comprendo perché è figlia di lunghi viaggi della speranza, di promesse fatte e non mantenute da uomini senza scrupoli che lucrano sul loro desiderio di sopravvivere, che minacciano le loro famiglie, che li picchiamo lasciando sul loro corpo cicatrici e nei loro occhi immagini di odio e morte impossibili da cancellare.
Giulia racconta di una conversazione avuta con uno dei ragazzi presenti, lo chiameremo John, durante la quale cercava di capire i suoi interessi per preparare una lezione di italiano su misura per lui. “Gli ho chiesto, che cosa ti piace?” prosegue portandosi la mano al petto e facendo una pausa. “Io pensavo dicesse il calcio o la musica, invece John mi ha risposto: mia madre e mio padre“. La mano di Giulia si sposta dal cuore allo stomaco perché quella risposta è un pugno, lì nel punto più doloroso, quello che ti toglie il respiro. Restiamo in silenzio, sono sicura che stiamo pensando tutti la stessa cosa, che cosa avremmo risposto noi? Prosegue parlando di un test psicologico che i ragazzi hanno dovuto fare per accedere al Progetto “Rete” della Federazione Italiana del calcio (Figc) che ha coinvolto gran parte degli SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) in Italia; una delle domande era “La cosa più importante per un calciatore è la fidanzata?”. Sorride mentre riporta la secca risposta di uno dei partecipanti, “No, è la mamma”. La mamma, questa parola che torna a sottolineare che non ho di fronte uomini ma ragazzi, giovanissimi. E quel senso di colpa mi prende nuovamente, perché anche io dopo questa visita andrò a casa dalla mia famiglia che avrà già apparecchiato la tavola, mamma sarà in cucina e babbo sul terrazzo, come ogni estate da quando sono nata. Ed è questo senso di colpa che mi blocca quando provo ad avvicinare uno di loro, perché dovrebbe parlarmi? Cosa posso capire io che ho tutto l’amore possibile!

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Paola mi chiede di seguirla nel suo ufficio dandomi una facile via di fuga dal mio stesso disagio, mi parla della Cooperativa Sicomoro nata 10 anni fa a Matera ed attiva a San Chirico dal 2012. Mi mostra una lista con i nomi dei ragazzi ed i documenti in loro possesso spiegando che l’ostacolo maggiore è proprio la mancanza di informazioni chiare e precise sulle procedure da seguire per presentare la domanda di protezione. “Nessuno dice loro cosa serve e come ottenerla. Inoltre, la carta di identità italiana ed il titolo di viaggio non sono più validi per muoversi in Europa. Ora serve il passaporto!”. Mi racconta poi che provengono tutti dai Centri di Messina, Siracusa e Reggio Calabria. Penso al Baobab Experience e tiro un sospiro di sollievo quando Paola mi dice che nessuno di loro è passato per Roma. Mi chiede se voglio vedere la struttura; le camere da letto sono colorate, luminose, con vista sulla valle e soprattutto pulitissime. C’è la sala computer, la biblioteca e la classe dove si tengono i corsi di italiano.

Centro San Chirico Mentre ci accompagna all’uscita ci raggiunge Giulia che con un grande sorriso mi dice che uno dei ragazzi è interessato a parlarmi, “P. è il più chiuso di tutti, ma parlare con te non potrà fargli altro che bene. Loro hanno bisogno di sentirsi speciali”, perché lo sono, penso io. Mi porta da un ragazzo alto, con un jeans ed una maglietta bianca che mi aspetta con il cellulare in mano. Mi presento e gli chiedo se gli farebbe piacere prendere un caffè con me uno di questi giorni, lui senza guardarmi accetta, ci scambiamo i numeri prima di salutarci.
Ripercorrendo le scale per uscire dalla palazzina, noto che ogni pianerottolo è decorato con dei coloratissimi poster di detti africani tradotti in italiano e realizzati dai ragazzi. Paola si ferma ed indicandone uno dice “questo è il mio preferito, lo dovremmo imparare tutti a memoria e ripetere tutti i giorni, “l’uomo è il padrone della parola che conserva nella sua pancia, ma diventa schiavo della parola che lascia sfuggire dalle sue labbra”.

Centre San Chirico

San Chirico Raparo è senza dubbio un ottimo esempio di integrazione, i ragazzi hanno una loro identità e sono stati accolti dai cittadini. Grazie a persone estremamente generose, possono imparare l’italiano, andare in palestra, giocare a calcetto, andare a mare ed essere avviati al lavoro. Uno di loro ha passato il corso per aiuto bagnino ed ora lavora presso la piscina comunale, un altro ragazzo fa il lavapiatti presso l’Hotel del paesino. Il numero ridotto di ospiti rende tutto sicuramente più facile ma senza l’umanità della comunità nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile. I sanchirichesi stanno crescendo dei piccoli grandi uomini in questo meraviglioso paesino immerso nel verde trasformatosi in un laboratorio di integrazione dove l’ingrediente magico e vincente è il rispetto reciproco.

Tornando a casa sento il bip del telefonino, è P. “Ciao. Thank you and nice to meet you”.

Testo e foto di Francesca Colantuoni

Venceremos, 11.09.1973

11 domenica Set 2016

Posted by orukov in 2016, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, MariaGrazia Patania, Pablo Neruda, Poesia, R-esistenza, Restiamo umani

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Antigone, Collettivo Antigone, Cristina Monasteri, MariaGrazia Patania, Pablo Neruda

Sono rinato molte volte, dal fondo
di stelle rovinate, ricostruendo il filo
delle eternità che popolai con le mie mani,
e ora vado a morire, senza nient’altro, con la terra
sopra il mio corpo, destinato a essere terra.

Non ho comprato una porzione di cielo che vendevano
i sacerdoti e non ho accettato le tenebre
che il metafisico fabbricava
per potenti sfacendati.

Voglio stare nella morte insieme ai poveri
che non ebbero tempo di studiarla,
mentre li bastonavano quelli che hanno
un cielo suddiviso su misura.

Ho la mia morte pronta, come un vestito
che mi aspetta, del colore che amo,
dell’estensione che cercai inutilmente,
della profondità che necessito.

Quando l’amore consumò la sua materia evidente
e la lotta sgrana i suoi martelli
in altre mani di unita forza,
la morte viene a cancellare le tracce
che costruirono le tue frontiere.

Pablo Neruda
ESP
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E’ con una poesia che voglio ricordare questo giorno. Con la bellezza dei versi di Neruda contrapposti all’efferatezza della dittatura che lo ha ucciso. Al netto delle speculazioni politiche, dovremmo sempre ricordare che con Allende non è stata soppressa nel sangue una singola persona democraticamente eletta dal popolo, ma il Popolo stesso che doveva essere sovrano. E ancora peggio si è voluto reprimere il sogno che incarnava: una società più giusta ed equa dove i poveri non fossero destinati a diventare irremediabilmente più poveri. L’incalcolabile numero di vittime e l’insanabile ferita dei desaparecidos eternamente pianti dai sopravvissuti dovrebbero farci da monito perenne e ricordarci quanto spietato possa essere un mondo che reprime il dissenso, che annulla la variopinta tavolozza della vita con le sue divergenze. Dovrebbe ricordarci l’importanza dei sogni condivisi e la necessità della lotta per tutelarli. Sono molti i motivi per cui la dittatura cilena è detestabile. Ma fra i tanti uno mi rattrista in modo particolare: per tutti i versi di Neruda -e di altri come lui- di cui mi hanno privata massacrando chi aveva il coraggio di sognare a voce alta un mondo più giusto.

Maria Grazia Patania

 

A Roma i volontari arginano il flusso di migranti con un campo di fortuna

09 venerdì Set 2016

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Antigone, Baobab Camp, Baobab Experience, Collettivo Antigone, MariaGrazia Patania, Testimonianze, Traduzioni, Via Cupa

Durante lo scorso anno i volontari hanno gestito un campo di transito per i migranti che arrivano in Italia per proseguire verso il nord Europa. L’attivista per i diritti umani Maria Grazia Patania recentemente si è recata al campo chiamato Baobab Experience e ha documentato quanto visto.

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Un gruppo di rifugiati provenienti dall’Africa in centro a Roma presso il Baobab di via Cupa (foto di Maria Grazia Patania)

Da quando la rotta balcanica è stata chiusa a marzo, il numero di rifugiati che arrivano in Grecia è diminuito drasticamente. Di contro, chi è così disperato da attraversare il Mediterraneo per fuggire da conflitti e repressioni fa rotta verso l’Italia che ha accolto oltre il 90% dei migranti giunti sul suolo europeo a luglio, stando all’agenzia per i rifugiati UNHCR.

Dal momento che il governo italiano fatica ad approntare un sistema adeguato per alloggiare i migranti che continuano ad arrivare sulle sue coste -facendo sì che donne e ragazze siano particolarmente esposte a sfruttamento e violenza- migliaia di persone in tutta Italia si sono fatte avanti per dare alla crisi umanitaria una risposta dal basso. A Roma, un gruppo di volontari la scorsa estate ha allestito un centro d’accoglienza vicino la stazione Tiburtina per dare riparo, cibo, vestiti, assistenza medica e non solo alle persone in viaggio. Chiamato Baobab Experience (dal nome dell’albero africano), il centro è ben presto diventato un punto di incontro per migranti provenienti dall’Africa e rifugiati in cerca di una nuova vita in Europa. Gli organizzatori del campo stimano che l’anno scorso siano transitate 40 mila persone.

All’inizio di dicembre il campo è stato chiuso dalla polizia in seguito agli attacchi di Parigi, ma i volontari del Baobab hanno deciso di continuare il loro lavoro e di allestire un campo per strada con tende e bagni chimici. Hanno anche chiesto al governo di fare il proprio dovere garantendo delle strutture adeguate e sicurezza per i migranti.

La volontaria e attivista per i diritti umani Maria Grazia Patania, 31 anni, ha visitato il Baobab lo scorso mese e ha raccontato a Women & Girls Hub le condizioni del campo insieme ai rischi che donne e ragazze corrono in loco.

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Migranti bloccati e costretti a dormire per strada esponendo le donne a violenze e stupri (Maria Patania)

Women & Girls Hub: Qual è l’attuale situazione al Baobab a Roma?

Maria Grazia Patania: Quando sono stata al campo alla fine di luglio, circa un centinaio di persone, ivi incluse famiglie con bambini piccoli, vivevano per strada dormendo in tende e su materassi sporchi senza accesso ai servizi di base ed esposte alla violenza di gruppi di estrema destra. Il campo si trova a Via Cupa ed è gestito interamente grazie a volontari e donazioni.

I suoi ospiti vivono nel terrore costante di venire identificati o evacuati dalla polizia o dalle autorità locali. Alcune settimane fa, la polizia ha fatto un blitz al campo e molte persone sono state portate in commissariato per essere identificate. La maggior parte proviene dall’Africa e desidera proseguire verso nord. Hanno paura della polizia e che gli vengano prese le impronte. Tuttavia, con le frontiere chiuse (verso la Francia e la Svizzera) sono bloccati in Italia e non hanno dove andare.

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Oggetti personali di alcuni migranti che transitano dal Baobab (Maria Patania)

Women & Girls Hub: Quando ha aperto questo campo non autorizzato e come funziona?

Patania: Il Baobab è stato fondato nel giugno 2015 per rispondere al crescente numero di migranti in arrivo dal sud Italia. Spesso erano abbandonati a se stessi e necessitavano aiuto per avere alloggio, cibo e vestiti puliti. Inizialmente il centro si trovava in un edificio dove si poteva offrire assistenza a chi arrivava nonostante la totale mancanza di un qualsivoglia supporto da parte delle autorità locali o nazionali. Il Baobab riesce ad andare avanti grazie alla comunità locale: cittadini e esercizi commerciali consegnano cibo, medicine e tanto altro. I volontari postano su Facebook ciò di cui hanno bisogno e funziona principalmente tramite social media e passaparola.

In seguito agli attentati di Parigi, l’edificio è stato evacuato dalla polizia ma i volontari non hanno desistito e hanno deciso di continuare ad assistere i migranti bloccati anche senza una struttura vera e propria.

Women & Girls Hub: Donne e ragazze durante tutto il viaggio sono più esposte alla violenza sessuale. Ci sono servizi o sistemazioni disponibili per proteggere le donne migranti da eventuali abusi?

Patania: Le donne migranti sono sicuramente più vulnerabili ed esposte alla violenza e allo stupro. Molte di loro giungono in Italia in condizioni psicologiche di forte disagio, alcune sono incinte come conseguenza delle violenze subite nel corso del loro viaggio. La Croce Rossa ha alcune strutture a Roma con un limitato numero di posti letto: la priorità viene data alle donne incinte, alle ragazze e ai bambini. Se non ci sono posti disponibili, donne e bambini vengono collocati nelle tende migliori del campo e durante la notte sono controllate dai volontari. Viene anche offerta assistenza medica e legale da parte dei mediatori culturali. Una volta la settimana possono fare la doccia in una palestra vicina.

image o

Donne e bambini al Baobab. Dal momento che l’Italia fatica a offrire una degna sistemazione a tutti i rifugiati in arrivo nel paese, le persone sono costrette a vivere in posti di fortuna che espongono donne e ragazze al rischio di sfruttamento e violenza (Maria Patania)

Women & Girls Hub: Come sei stata coinvolta nel lavoro coi rifugiati?

Patania: Vengo da Augusta, sulla costa orientale della Sicilia, e il porto della città ha avuto un ruolo di primo piano nell’accoglienza dei migranti che venivano salvati durante la traversata del Mediterraneo. Sono entrata in contatto coi rifugiati nel maggio 2014 quando, tornando a casa in ferie, ho visitato un centro di accoglienza temporaneo allestito nella mia ex scuola elementare. Un gruppo di minori non accompagnati ci viveva da mesi e i volontari del posto si occupavano di loro. Parlando inglese e francese, ho avuto modo di confrontarmi coi ragazzi. In alcuni casi siamo diventati amici e siamo ancora in contatto.

Sono rimasta così colpita dalle condizioni in cui vivevano e dalle loro storie che ho deciso di dar loro una voce. Nel maggio 2015 abbiamo lanciato un progetto per raccontare le storie dei migranti e un blog in più lingue chiamato Collettivo Antigone per offrire una voce ai migranti arrivati sulle nostre coste. Inizialmente il blog era concepito come un luogo virtuale per raccogliere le loro storie, ma da allora si sono unite altre persone pertanto ora guardiamo al tema delle migrazioni e alla nostra umanità condivisa da prospettive diverse che includono arti e scrittura creativa.

Il futuro del Baobab è incerto: i volontari sono stanchi di essere ignorati dal governo, le persone vivono in tende senza accesso ai servizi sanitari di base e necessitano un luogo sicuro dove siano al riparo dalle avverse condizioni meteorologiche e dai trafficanti. La città deve garantire una adeguata struttura ricettiva e campi come avviene in Germania.

Articolo in inglese di Sandra Pruefer

Traduzione di Maria Grazia Patania

Qui altri articoli sul Baobab che, in quanto esempio di resistenza civile, ci sta particolarmente a cuore.

Racism is only a madness_

30 martedì Ago 2016

Posted by orukov in 2016, Collettivo Antigone, Doumbia, I figli della fortuna, MariaGrazia Patania, Refugees Welcome, Restiamo umani, Testimonianze

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Antigone, Collettivo Antigone, Doumbia, I figli della fortuna, MariaGrazia Patania, Testimonianze

Sicilia, centro di prima accoglienza, 21.06.2014

E’ sabato mattina presto. Per i corridoi non c’è quasi nessuno.

I pochi assonnati che incontro mi sorridono e chiedo loro di aiutarmi ad allestire la nostra lezione improvvisata. Reagiscono con l’entusiasmo che li caratterizza. Sorrido mentre porto nel giardino della mia scuola elementare quelle sedioline su cui ho imparato a leggere, scrivere e contare. Sorrido quando le vedo in mano a questi giganti colorati. E soprattutto sorrido quando ce li vedo seduti sopra con le ginocchia che arrivano al mento.

Ho paura che sia un flop e non venga nessuno. Mi rimprovero per non aver organizzato meglio la cosa. Intanto arrivano mio padre e mia madre. Lui emozionato come se stesse per parlare di fronte a dei capi di stato. Lei fiera al suo braccio.

Vado su e giù a chiamarli e quelli che conosco meglio mi dicono che stanno chiamando i loro amici. Doumbia-che mi conosce e sa che sono fatta di carne e ansia- mi rassicura sorridendo. Esco di nuovo in giardino e ne trovo alcuni già seduti e sorridenti. Prima ancora di cominciare sono in dieci ad aspettare. E alla fine siamo tanti. Un successo.

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Cominciamo. Tema del giorno: libertà e dignità umana.

Mio padre comincia con delle domande: Cosa significa essere liberi. Qual è il valore della libertà. A cosa si accompagna la libertà. Cosa la caratterizza.

E comincia a distinguere le tre categorie fondamentali dei diritti: civili, sociali e politici. Spiega che nessuno può essere perseguitato per le sue idee religiose, politiche e per le sue convinzioni. Spiega il valore fondamentale delle costituzioni nazionali come strumento per garantire questi diritti. E l’introduzione al loro interno di pene per che le viola.

Parliamo della Nazioni Unite e della Carta dei diritti dell’uomo e del cittadino. Tutti annuiscono quando chiedo se conoscono le Nazioni Unite. La voce ferma di mio padre aumenta di tono quando parla della colpa occidentale in merito alla catastrofe africana. E’ il suo modo di chiedere scusa a questi figli della terra che noi abbiamo violentato e impoverito per arricchire le nostre vite arroganti. Per alimentare la perversione di un mondo ingiusto e sterile di Amore.

E loro annuiscono. Vedo lo stupore di questi ragazzi –gli occhi lucidi- che ascoltano un padre parlar loro di diritti, rivendicazioni, dignità umana. Un padre che spiega che tutti hanno diritto ad essere amati e loro lo meritano ancora di più per via delle loro storie. Quel padre li ringrazia per essere venuti ad aprire i nostri occhi volutamente miopi. Quel padre li incita a dimostrare al „civilizzatissimo“ mondo occidentale -tramite le loro azioni e il loro comportamento- come siano un dono e un prezioso contributo per il progesso di tutti.

I loro occhi sono uno spettacolo di emozione, commozione e dolcezza. E’ la prima volta che scoprono di avere DIRITTO a essere istruiti e curati, a essere trattati con rispetto e avere accesso a una libera informazione. Le catene della tortura non potranno mai privarli della loro anima e della loro dignità di esseri umani.

Qualcuno si commuove e si asciuga una lacrima. Ma ciò che domina è lo stupore. E da quello stupore arrivano le parole di Mohammed. Un adolescente del Gambia che supera la vergogna e parla davanti ai suoi fratelli africani. Ci ringrazia per questo incontro e dice che finalmente conoscono la Pace e non hanno paura per la loro vita. Ci racconta come in Libia la vita non valga nulla e di come per la prima volta con noi abbia sentito parlare di diritti. Mohammed mi prende la mano e conclude dicendo che il loro compito è migliorarsi in Italia per poi tornare nei paesi di provenienza a insegnare la libertà nella loro terra. Per educare ai diritti i fratelli e le sorelle africane.

Da interprete credo di aver violato ogni regola professionale, la deontologia e il buonsenso. Niente cuffie, niente blocchetti per la consecutiva, niente cabina, niente collega per darsi il cambio. Solo il cielo, l’aria, il vocìo della strada. Prima inglese, poi francese, ogni tanto vien fuori qualche bizzarìa. Da donna, però,  ho dato un senso ai lunghi anni di studio e ho avuto la mia rivincita per un mestiere troppo spesso svilito. Perchè quel giorno, in mezzo agli eventuali errori di grammatica, è nata una scintilla nel cuore di questi figli della fortuna e perchè per il tempo di quella lezione eravamo davvero tutti uguali.

L’incontro finisce con un applauso e tanti ringraziamenti. Io termino dicendo che la mia personale speranza è che il prossimo Segretario Generale delle NU sia proprio in mezzo a loro. Dentro di me spero che fra loro ci siano i Mandela, i Luther King, i Ghandi e i Che Guevara del futuro. Dei coraggiosi combattenti per l’Amore e la Libertà.

di Maria Grazia Patania


A questa lezione faceva riferimento proprio un post di Doumbia che la scintilla del 2014 continua a coltivarla ancora oggi. Tutto nacque dato che in tanti si lamentavano di non andare a scuola, di non poter studiare. Pertanto chiesi a mio padre di parlare con loro.

Are we all terrorists?

29 lunedì Ago 2016

Posted by francescacola in Babel, English, Francesca Colantuoni, Francesco Malavolta, MariaGrazia Patania, Olocausto del Mare, Parole del Collettivo, Refugees Welcome, Restiamo umani, Traduzioni

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Antigone, Change, Collettivo Antigone, Francesca Colantuoni, Francesco Malavolta, MariaGrazia Patania, Refugees Welcome, StopDroppingBoms, terrorism, Testimonianze, Traduzioni

ITA

Terrorism The systematic use of violence to create a general climate of fear in a population and thereby to bring about a particular political objective. [Encyclopaedia  Britannica]

The terrible events occurred on Friday 13th November 2015 and the consequent relentless media coverage, make it difficult to think straight. The terrorist attacks in the heart of Europe are difficult to process while ignoring the deaths in Beirut seems to be much easier: they are Muslims and far from us, it is almost a relief. Also the daily massacres in less important countries such as Yemen, Syria, Nigeria, Libya, Palestine etc. do not deserve mourning, flags, candles and prayers.

Not even death unites us and makes us feel equal. Not even death teaches us silence. Not even death shuts our mouths and makes us think. The corpses are still warm while speculation starts: reasons, condemnations, solutions and predictions. We didn’t even have the time to count the deaths when the political campaigns started disguised as crusades against the Islamic murderers. After that, as a self-come-true prophecy, the much acclaimed French bombs started dropping. Not satisfied yet with the colonial bloodshed, the massacres continue today.

In the meantime, while most people think they know it all, I stare at the ceiling and know nothing. I wonder whether I would be brave enough to blow myself up. No, I wouldn’t.

It’s Friday night: the attackers are very young and while their peers born in the right side of the world are getting ready to hang out or go clubbing with friends, they take arms and prepare to kill and die. I wonder how we could let it happen. Where did we go wrong? How can we tolerate that a creature of this world chooses death over this life? In the neglected suburbs clumped with the leftovers of our (vane) colonial glories and lootings, the creatures that we reject harbour hate and anger. We have abandoned them with their existential uncertainty as migrants; they’re vulnerable targets for unscrupulous puppeteers offering easy consolations and, above all, a sense of belonging. That very sense of belonging that WE deny them.

WE cause terrorism. We are all accomplices. Because of our comfortable and selfish lives. Because we have given up trying to understand and comprehend. Because we have accepted easy slogans and quick solutions. WE have ALL turned into terrorists.

Malavolta 1

*He could be your baby, your brother, your friend’s child. But he is none of these, he is simply a child of our bombs. F.Malavolta – — in Mytilene, Greece*

When we point our finger without knowing. When we hide the truth and choose our quiet life over justice. When we submit to the lexical barbarity presumptuously differentiating between refugees and economic migrants. When we forget about the inalienable right of each individual to build a better life. When WE ourselves protest for our rights, for our security and safety, those very same rights that we deny to others. When we are outraged by the Reception Centres’ guests protesting against the low quality food offered, when we value them less than our pets. When we don’t build peace but walls and prejudice. When we call “heroes” those who take arms against their own good judgement and “violent” those students who fight for the right to free and quality education.

So, maybe I am guilty too. When I am too tired to call Y. after a long day at work, even if I am fully aware of the difference that it would make to him. When I do not speak about M.’s real situation whom, after months spent in a dirty centre and being fed expired food, has been transferred for the umpteenth time in a place where “there are small black animals that when I sleep at night bite me.” When I don’t say that most of these guys went to the dentist for the very first time in their life with me. When I don’t speak about my family in Sicily and how happy and proud they are of our new friends, I feel it every time they invite them over for coffees so that I can see them on Skype. When I don’t tear apart the lies soaked in ignorance of those who speak about “illegal immigrants” staying in 5 stars hotels.

Malavolta 2

While many knew everything and presented warlike convincing strategies, I wrote to my friends whose ONLY crimes are having survived the journey on the dinghy, believing in a religion that ignorant people label as «terrorist» and wanting to live. I feel incredibly ashamed simply because I am part of this sick humanity.

Let us stop finding shortcuts and start thinking honestly about OUR faults and errors. Let us put aside arrogance and haughtiness and open our doors instead, we must leave our caves and finally free ourselves from those chains that hold us back and that we don’t even notice anymore.

Let us choose tenderness and create a world where each Life is a treasure. We have to be free citizens in charge of our destiny, asking ourselves what WE, each one of US, can do to make the world a better place. Let us reject the decisions, especially political ones, taken by others: these sharks can smell the blood and are ready to bite into our fears. Let us focus, let us stay human!

by Maria Grazia Patania


Both the pictures and the comment under the first image are by Francesco Malavolta. We met him in this article (in Italian) and I strongly recommend you visit his website. I choose his pictures because ignoring the reality represented in his works means ignoring the pain of thousands of innocent people. Our humanity is at stake, our lives are all at stake. His work represents a constant reminder for us.

A wise person once told me: “I keep quiet because I understand that what we know is actually only the tip of the iceberg, that this is a game between (bully) superpowers, the victims are all the others: catholic Parisians, Muslim Lebanese, atheist Romans. I actually wonder: what are we playing at? And what are we trying to achieve?”

by Maria Grazia Patania

Post originale in italiano qui

Translator Francesca Colantuoni

Proofreader Maria Grazia Patania

 

 

 

Aleppo: città della musica e della guerra

24 mercoledì Ago 2016

Posted by orukov in 2016, Collettivo Antigone, Innenansichten aus Syrien, MariaGrazia Patania, R-esistenza, Radio Bonn, Restiamo umani, Traduzioni

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Antigone, Collettivo Antigone, MariaGrazia Patania, Testimonianze, Traduzioni

Ogni volta che ascolto le notizie sugli scontri ad Aleppo, vado nel panico e corro al telefono per cercare di rintracciare i miei cari. Già da un po’ non ci vivo più e la situazione diventa sempre più inquietante. Chiamo sempre più spesso, ma il telefono non funziona mai quando serve. Provo a chiamare mio figlio al cellulare per sapere come stanno lui e la moglie. Si sono sposati otto mesi fa e lui allora mi spiega che hanno dovuto aumentare il volume della musica per coprire il frastuono dei bombardamenti e degli spari. Per il matrimonio aveva reperito candele e batterie a sufficienza per l’impianto acustico. Mi preoccupo anche di mia madre che ha 86 anni e in passato cantava per noi con la sua commuovente  voce. Mia madre era una donna attraente e quando un gentiluomo (che sarebbe poi diventato mio padre) si presentò da mio nonno per chiederne la mano, quest’ultimo gli chiese per prima cosa se amasse la musica e il canto. Temendo di commettere un errore e perdere così la futura sposa, mio padre non sapeva cosa rispondere. Allora mio nonno spiegò che la figlia possedeva una voce molto toccante e che, dal momento che lui amava ascoltarla, non voleva affatto che lei sposasse un uomo che le tarpasse le ali impedendole di cantare. Mia madre in passato cantava anche prima di addormentarsi, mentre ora dorme col rumore dei cannoni e degli spari da arma da fuoco. Cerca sempre di rassicurarmi che sta bene e si trova al sicuro.

Aleppo è famosa per il suo amore per la musica. Nel passato faceva concorrenza ai centri musicali più rinomati quali Tunisi e Il Cairo, quando si trattava di preservare la tradizione musicale orientale e di scoprire tonalità inedite. Si diceva che in ogni casa ci fosse uno strumento musicale. Oggi capita spesso che l’aria sia attraversata da frammenti di un liuto arabo colpito da una granata. Mio nonno era un uomo di chiesa che amava la musica, cosa tutt’altro che rara. Molti cantanti e compositori che oggi sono famosi, un tempo erano uomini di chiesa -lo scheicco Omar Al-Batsch, Bakri Kurdi e Sabri Mudallal- e ancora oggi si intonano le loro canzoni. Anche Dschalal Al-Dini Rumi ha un ruolo di rilievo nei cuori degli abitanti di Aleppo e dei suoi sceicchi, dato che il suo flauto orientale ha avuto un ruolo fondamentale per il suo ordine mistico. In passato gli sceicchi si preoccupavano di andare in pellegrinaggio nella città turca di Konya per pregare sulla sua tomba.

violino

Questo stretto legame con la musica ad Aleppo non era una prerogativa degli uomini. Mio nonno non era l’unico ad aver spronato le sue sette figlie ad imparare a suonare uno strumento musicale o a cantare e non di rado le donne venivano incoraggiate a dedicarsi alla musica. Pertanto ad Aleppo c’erano molte cantanti famose e in numerose dimore si organizzavano concerti in cui le donne erano le protagoniste. Si ritrovavano le personalità femminili di spicco della città e si esibivano famose cantanti e musiciste. Per questo motivo la mia preoccupazione per la città e le mie paure nell’ascoltare le notizie sulla sua distruzione si legano profondamente alla preoccupazione per la sua eredità culturale legata alla musica e a chi di essa vive.

Nel 1997 per il mio romanzo “A case of Passion“* avevo fatto delle interviste ad Aleppo. Il romanzo parla delle Banat Al-Ischra, donne che coltivavano stretti rapporti con altre donne, che cantavano, ballavano e chiacchieravano insieme per intere serate. Ogni donna si sedeva accanto alla propria amica. L’atmosfera era intrisa di amore, gelosia, civetteria e biasimo  e ogni cantante si rivolgeva alla propria compagna quando era il suo turno. Le canzoni venivano chiamate Al-Ataba, una parola che unisce lamento e lagnanza.

Questo fenomeno era molto diffuso ad Aleppo nella prima metà del XX secolo. Degno di nota è anche il fatto che gli uomini non mostrassero alcun fastidio per la partecipazione delle donne a queste cerimonie Banat Al-Ischra. Sono venuto a conoscenza di due donne che vi partecipavano e vivevano insieme. Determinato a conoscerle, fissai un appuntamento telefonico. La loro casa costruita nel tipico stile arabo si trovava vicino la cittadella in un vecchio quartiere di Aleppo. Un’anziana domestica mi aprì la porta e mi fece accomodare nel giardino della casa in mezzo al quale si trovavano una piscina, dei gelsomini e alcuni vasi di fiori. Sorseggiavo il caffè che mi aveva portato la domestica e osservavo la casa. Era un luogo calmo e piacevole che lasciava intuire il suo passato. Molte di queste case nel tradizionale stile arabo erano state acquistate negli ultimi anni e ristrutturate con l’aiuto di architetti specializzati in modo che l’acquirente potesse vivere al loro interno come in una favole de Le mille e una Notte. Mezzora più tardi spuntarono le due donne che si erano recate al vicino Hamam: la splendida Ahlam dagli occhi scuri e la sua compagna che si faceva chiamare Hamid –nome tipicamente maschile- e  mi ricordava i forti eroi dei film egiziani degli anni 60.

Hamid coi suoi capelli corti, il suo abbigliamento e il suo modo di camminare, sedere e fumare sigarette rendeva onore al suo nome. Ed essendo effettivamente il marito di Ahlam, le aveva anche comprato un salone da parrucchiera. Doveva garantirle una fonte di reddito, qualora Hamid –che Dio non voglia- fosse morta prematuramente. Hamid era una cantante di grande talento che si esibiva specialmente durante i matrimoni ed era rinomata in tutta la città. Quando compariva, le donne si affrettavano per ascoltarla. E dal momento che si chiamava come un uomo, le donne salivano sul palco per danzarle vicino e poterla toccare mentre lei cantava per i novelli sposi. Mi piacevano queste due donne e le andavo a trovare ogni volta che mi era possibile. Ascoltavo le storie che Hamid, la più grande ed esperta fra le due- raccontava di Banat al-Isahra. Quando uscì il mio romanzo, andai nuovamente a trovarla e le regalai una copia con dedica perché la protagonista della storia le somigliava molto. Dieci anni dopo venni a sapere che l’incallita fumatrice Hamid era morta in seguito ad una breve lotta contro il cancro ai polmoni. In occasione della mia visita di condoglianze, il cortile della casa era pieno di uomini smarriti ed affranti e dalla camera di Hamid giungevano i lamenti delle sue ammiratrici.

In seguito, dopo aver abbandonato Aleppo, tentai spesso di raggiungere telefonicamente Ahlam. A volte la linea non dava segni di vita, altre semplicemente non rispondeva nessuno. Alla fine immaginai che il numero non esistesse più o che Ahlam fosse andata via. Stavo per perdere ogni speranza quando riuscii a sentire la meravigliosa voce di Ahlam dall’altro capo del telefono. Quando le spiegai chi ero, rimase un attimo in silenzio. Nel frattempo sentii il rumore degli spari e una esplosione non troppo lontana. Ahlam balbettava e tremava di paura mentre parlava. Chiacchierammo per un’ora, o meglio, la lasciai parlare per farle dimenticare la paura. Quando riattaccai, ero così agitato che era impossibile pensare al mio lavoro. Ahlam mi aveva confidato di sentirsi sola e abbandonata. Viveva sola…

Aleppo-Citadel

Non aveva più un luogo dove andare dato che il salone che le aveva comprato Hamid per offrirle una sicurezza economica era stato distrutto durante gli scontri. L’intera casa era stata colpita da varie granate e il salone totalmente incendiato. Vicino il luogo in cui viveva era caduta una granata e una parte del muro che collegava le due case era crollata. Mi spiegò che le pietre cadevano nel suo cortile come se piovesse e che lei non era rimasta ferita solo perché si era fermata in mezzo alla casa. All’entrata del quartiere il governo aveva piazzato un tiratore scelto che sparava dall’alto agli uomini e talvolta anche alle done. Quel cecchino le metteva talmente tanta ansia che piuttosto preferiva rimanere a casa e morire di fame piuttosto che uscire e andare a comprare qualcosa da mangiare. Tuttavia un giorno udì qualcuno bussare alla porta e col cuore in gola si risolse ad aprire.

Un bambino di otto anni che abitava nel vicinato e che credeva di aver visto prima le si parò davanti. Era stato mandato dal padre per chiederle se avesse bisogno di qualcosa: voleva aiutarla. E da quel giorno il bambino le comprò pane, verdura e altre cose in negozi lontani dalla loro zona. Un giorno Ahlam sentì il rombo di un aereo seguito da una esplosione. Una strana paura si impossessò di lei trasmettendole la sensazione che fosse successo qualcosa di terribile, mi raccontò scoppiando in lacrime. Da quel giorno il bambino non si presentò più e a lei non rimase altra scelta che uscire di casa, se non voleva morire di fame. Uscì sfidando il cecchino e mentre comprava da mangiare venne a sapere l’orribile verità: l’aereo che aveva sentito aveva bombardato le persone in fila davanti una panetteria. Molte persone erano rimaste uccise, bambini soprattutto. Uno era proprio quello che la aiutava. Il tempo della gioia è finito per sempre, mi disse. Non ascolta più musica e negli incatevoli quartieri di Aleppo non riecheggia nessuno strumento musicale. Per fortuna in passato avevano ballato e danzato per i propri cari perché adesso il frastuono degli scontri e delle bombe copre la melodia dei violini.

*Il romanzo non è uscito in lingua italiana

** Foto prese dal web

Traduzione di Maria Grazia Patania

Text auf DE “Aleppo, Stadt der Musik und der Krieg“, von Nihad Siris, Innenansichten aus Syrien, Larissa Bender

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